Trattato completo dell'arte del Belcanto

 di Roberta Pedrotti

Un concerto di Jessica Pratt e Jader Bignamini si potrebbe troppo facilmente riassumere in una raccolta di superlativi, che però non renderebbe giustizia alla profondità con cui, al di là anche dell'eccellenza esecutiva, i due artisti hanno illuminato tutte le sfumature del Belcanto.

MILANO, 6 dicembre 2014 - Se si dovesse indicare un cantante che oggi varrebbe sempre la pena di inseguire per ogni recita o concerto, uno dei primissimi nomi ad affacciarsi alla mente sarebbe quello di Jessica Pratt. Se si dovesse indicare un direttore che oggi varrebbe la pena di inseguire in ogni occasione, si penserebbe subito a Jader Bignamini. Se avessimo indicato un sogno musicale, l'avremmo visto realizzato nel loro concerto all'auditorium di Largo Mahler, per la stagione (invero assai preziosa) dell'Orchestra Verdi.

Un concerto che sembra pensato per depredare il nostro vocabolario di superlativi senza lasciare il minimo spazio a una riserva, a un appunto, a un suggerimento che non sia quello di un bis, di nuove collaborazioni, di una più assidua frequentazione, da parte di Bignamini, di un repertorio che è raro intendere suonato e diretto a questi livelli.

L'arte fa sì che gli strumenti forniti dalla natura siano caratteristiche uniche, irripetibili e preziose di un interprete e di una personalità, i cui confini non sono limiti ma peculiarità nette e inconfondibili. E se da un lato l'ascolto ci esalta, dall'altro la penna (o la tastiera) si trova perfino disorientata, lieta di celebrare l'entusiasmo quanto attonita di fronte alla trappola, così ben tesa da Pratt e Bignamini, della tentazione ad adagiarsi in un carme trionfale.

Verrebbe quasi da ricercare, allora, l'errore che ne affermasse l'umana fallibilità, ma non arriva (e se arriva un'impercettibile alterazione in una serie di variazioni è sciolta con tale sovranità musicale da lasciarci il dubbio se fosse premeditata o improvvisata). A dirci che Jessica Pratt e Jader Bignamini sono artisti di carne e sangue è la cura espressiva, la profondità di una lettura che dà molto da pensare, al di là dell'estasi dei superlativi.

Il virtuosismo del soprano anglo australiano è risaputo e ci appaga più ancora che con uno spericolato funambolismo, con la duttilità e la fantasia di chi padroneggia tutti gli strumenti più minuti descritti da Manuel Garcia nella prima parte del suo Trattato completo dell'arte del canto e soprattutto sa realizzare con acuta sensibilità il precetto della seconda parte: La parola unita alla musica. E non, si badi bene, con una pur ammirevole cura espressiva di ogni pezzo, ma nella capacità di cogliere l'anima peculiare di ogni autore, di ogni opera, di ogni personaggio.

Si presenta con la cavatina di Amenaide dal Tancredi, Jessica Pratt, e sciorina un belcanto elegante quanto agile, levigatissimo, madreperlaceo, in cui ravvisiamo il gusto del Canova, il tratto di Raffaello, che per Stendhal era l'equivalente figurativo del giovane Rossini. Questo, lo intendiamo bene, è il vibrante incanto neoclassico che sedusse lo scrittore di Grenoble. Segue “Qui la voce sua soave” e la melodia belliniana si ammanta di tutt'altra fragranza. Né più, né meno: diversa, com'è giusto che sia. Ed ecco che il delirio di Elvira non è un'ipnotica cantilena, non ha nulla di compiaciuto nell'abbandonarsi alle linee del Catanese, che rifulgono come rinnovate in un legato tutto giocato sul colore della parola, su quelle messe di voce che si chiudono su un ultimo “lasciatemi morir” quasi sussurrato, spoglio, conciso. Da lì sembra sgorgare naturalmente tutta la fresca sensualità del richiamo “Vien diletto, è in ciel la luna” in cui, ancora una volta, ogni nota, ogni variazione appare necessaria emanazione di un sentire e “dire” la musica rinnovato in una scrittura vicina ma non prossima a quella rossiniana, in cui il legato assume un colore più intenso, un calore più passionale, romantico.

Una certa sensualità non manca nemmeno nel personaggio della fatua e terribile Marguerite de Valois degli Huguenots, ma il suo abbandono alle delizie del “Beau pays de la Touraine” è ricamato con tale languida grazia cortigiana, con tale divertito gioco madrigalistico nell'imitazione di brezze e ruscelli da lasciare senza fiato, da costruire, con quella stessa tecnica, sensibilità, civiltà musicale un nuovo mondo dalle tinte e dai contorni unici e inimitabili.

Dopo l'intervallo è la volta di Verdi: ancora puro belcanto, nella voce di Gilda, e ancora differente. Jessica Pratt, con un gesto minimo, con una lieve inflessione, con una sfumatura impercettibile ci restituisce i fremiti autentici di un'adolescente, un po' donna un po' bambina, né leziosa né troppo stilizzata. Vera, in un fremito musicale in cui il trillo e la messa di voce sono tutt'uno con quell'incanto timido e febbrile che percorre la pronuncia del nome di Gualtier Maldé come ogni parola, davvero scenica anche in quest'aria così spesso sprecata.

La pazzia di Lucia di Lammermoor chiude il programma ufficiale, e verrebbe da pensare che nulla si possa aggiungere, ormai, all'interpretazione dell'indiscutibile cavallo di battaglia della Pratt. Eppure la completa interiorizzazione, la fantasia (perfino nella cadenza tradizionale, scintillante di colori), la naturalezza e insieme la profondità del porgere la parola cantata ne fanno una continua scoperta, una continua, rinnovata creazione. Le variazioni in “Spargi d'amaro pianto” sono un tale gioiello, articolato con un cesello originale e finissimo, di gusto sublime, da lasciare a bocca aperta. C'è, in questo trasecolorare dal delirio alla morte, ancora un equilibro fra verità teatrale e trascendenza artistica simile per valore ma affatto differente dalla follia di Elvira, dai palpiti di Gilda, dai sospiri di Amenaide.

Le arie sono intervallate da ouverture e sinfonie in cui Jader Bignamini sale in cattedra, condividendo con la Pratt la capacità di entrare nell'anima di ogni autore con una continuità e una varietà stilistica ed espressiva abbacinanti. Così non sappiamo se lodare più la cifra protoromantica del Guillaume Tell, con la suggestione timbrica e la misura di un discorso ritmico e lirico soggiogante, o della Norma, così solenne, così trascinante, chiaroscurate e così pure calibrata nelle sonorità di uno scalpitante, ma non anacronistico, primo Ottocento. Non sappiamo se ammirare più il fascino esotico e soffuso dell'Africaine, estremo frutto dello sperimentalismo di Meyerbeer, o la tinta e lo slancio inesorabile di Luisa Miller.

Una lode, in questo capolavoro di luci e colori, di misura, teatralità, dominio di ritmo e fraseggio condensati in un gesto che sempre precede e controlla la risposta orchestrale, va però riservata alla sinfonia di Roberto Devereux, ovvero a un brano sottostimato che è pressoché impossibile ascoltare – tantomeno in concerto – affidato alle cure di una grande bacchetta. Eppure il Devereux è un capolavoro, e lo è da prima che si levi il sipario, in quel contrasto inesorabile fra la ragion di stato dell'imponente, staturario, placido, malinconico God save the Queen e il tema luminoso e disperato dell'addio alla vita del tenore eponimo “Bagnato il sen di lagrime”. Bignamini ci fa intendere tutto e ci fa bruciare nel cuore il desiderio di vedergli concertare l'intera opera, e così ogni opera di Belcanto, di cui dimostra di interpretare come pochi il valore della componente strumentale e fin delle più bistrattate battute di transizione. Bignamini ce le restituisce non semplice cornice e supporto al canto, ma parte di un insieme complesso e coeso in cui la voce viene, anzi, vieppiù valorizzata, ché Bellini e Donizetti conoscevano il loro mestiere ed esaltare con proprietà ciò che sorge dalla buca significa anche dare profondità e ricchezza a ciò che avviene sul palco. Non sarà, dunque un caso, se il momento in cui più abbiamo ringraziato intimamente Bignamini, non senza un briciolo di commozione, sono state proprio le battute di transizione prima della ripresa di “Vien diletto, è in ciel la luna”, per la dignità resa anche a questa musica, finalmente bella, finalmente importante, come ogni nota, come ogni pausa. Bignamini non ha solo il merito del talento e della tecnica, Bignamini crede nella musica che dirige, battuta per battuta, e dimostra che questa musica, anche nei momenti più trascurati normalmente, lo merita.

Purtroppo il maestro deve partire nella stessa serata per Mosca, dove l'attende il Requiem di Verdi, e non c'è tempo per più di un bis, mentre noi li avremmo ascoltati volentieri per tutta la notte e ci sentiamo in credito di ancora molte serate con Jessica Pratt e Jader Bignamini, che devono in primo luogo al Belcanto un seguito a questo felicissimo primo incontro.

Il bis, dunque, è "Glitter and be gay" dal Candide di Bernstein: uno tsunami d'ironia musicale in cui l'orchestra Verdi smette i panni tragici e melodrammatici per immergersi nel divertissement americano, in cui Jessica Pratt recita da dea della scena brillante scagliando fuochi d'artificio vocali, mentre Jader Bignamini tutto controlla permettendosi contemporaneamente di rispondere all'azione della prima donna e di giocare con lei e i suoi diamanti, in questo caso indubbiamente i migliori amici di una primadonna.

Di fronte a questa Cunegonda pare di vedere Voltaire e Bernstein tornare questo mondo, baciarle la mano e inchinarsi ai suoi piedi.

E noi con loro, applaudiamo e ringraziamo, non solo per lo splendore di una voce e di una bacchetta, ma per la grandezza di un'arte che rende finalmente tutte le sfumature di un repertorio ben più profondo e variegato di quanto non si sia abituati a vedere ed ascoltare.