Autoritratto con Bach

 di Roberta Pedrotti

Bach, Busoni, Reger, Liszt, Franck

Massimo Giuseppe Bianchi, pianoforte

CD DECCA, 481 4521, 2016

Ci sono recital, dal vivo o consacrati al disco, che si presentano come biglietti da visita, vetrine delle virtù dell'interprete, altri che seguono un fil rouge più o meno originale o ponderato, chi va oltre e fa del programma un progetto, una tesi intellettuale ed estetica. Quest'ultimo può ben essere il caso di questo CD in cui Massimo Giuseppe Bianchi si propone di esplorare l'immagine di Bach nell'opera di trascrizione e rielaborazione di Busoni, Reger, Liszt e Franck.

Trascrizioni e rielaborazioni dalle quali traspaiono gli autoritratti dei compositori-pianisti omaggianti, che si rispecchiano nelle innumerevoli rifrazioni del genio del Kantor di Lipsia.

Allora, a tutta prima, la magniloquenza virtuosistica della Toccata e Fuga in Re minore lascia un certo qual senso di straniamento, in particolare per quel pedale tardoromantico che sovverte completamente il nitore degli intarsi originali, ma si tratta della versione per piano di Ferruccio Busoni e, quindi, di un Bach riplasmato a riflettere la personalità dell'epigono novecentesco. Sorprende allora la misura in cui la scelta interpretativa radicale di Bianchi permetta di osservare da vicino come Bach non perda la sua identità, ma pure si presti a mutare, a mostrarci un altro volto nell'essere sé e altro da sé, ovvero il Bach di Busoni, quel che Busoni vedeva, cercava, riconosceva nel maestro del passato.

Un discorso simile per le Variazioni e Fuga su un tema di Johann Sebastian Bach op. 81 di Max Reger, dove invece i contorni si fanno inizialmente meno maestosi, il fraseggio meno rigoglioso, il disegno più scientifico, asciutto, essenziale, con qualche passo di danza, perfino, che pare strizzar l'occhio allo swing, fino a liberare man mano, nell'architettura del contrappunto, un'energia esplosiva, un potere diverso ma non inferiore da quello di Busoni nell'ampiezza prepotente della Fuga finale.

Liszt non era ancora giunto all'essenzialità mistica e sperimentale degli ultimi anni, ma nel riprendere Bach con Weinen, Klagen, Sorgen, Zagen S. 179 (variazioni dall'omonima cantata del 1714) svela già quell'umbratile introversione che svilupperà fra i tratti distintivi della sua produzione estrema. Da parte sua César Franck guarda al Maestro tedesco, nel suo Prélude, Choral et Fugue, M. 21, proprio con il gesto più liturgico che mistico dell'organista formato sulla grande musica sacra cattolica, ma, pure, non rinuncia nella solennità ad alleggerimenti brillanti e liquidi passaggi che fanno pensare a Debussy e ad alcuni tratti – per restare in area francofona – di Ravel, Satie e dei Sei.

Dopo questo viaggio attraverso tre trasformazioni, tre diverse eredità di uno stesso modello, si torna all'origine, con il giovanile Capriccio sopra la lontananza del fratello dilettissimo, BWV 992. Eseguito sempre sullo stesso pianoforte moderno, per coerenza e continuità con gli autori precedenti, che il Bach originale l'avranno conosciuto e studiato personalmente per di più con corde percosse o, al massimo, con canne d'organo, il Capriccio riporta al minimo il pedale, rende il più possibile puntuale, cembalistico il tocco, evoca l'origine di tante eredità e tanti rispecchiamenti, ma senza acribia filologica: non serve, qui, il Bach “autentico” (ammesso che possa mai esistere un'esecuzione “autentica” e non, semplicemente, ispirata in diversa misura da principi di contingenza o ricerca storica, di libertà e reinvenzione), quanto un Bach interpretato con scrupolo stilistico anche su uno strumento moderno. Dopotutto l'eternità e la grandezza di Johann Sebastian consiste proprio nel suo incarnare e nel contempo trascendere un'epoca, nel vivere sugli strumenti del suo tempo come nelle più svariate trascrizioni anche vocali, nell'imporre le sue architetture, con la bellezza assoluta della matematica, agli sguardi più diversi, dalle più diverse prospettive. E come il compositore si autoritrae, sostiene Bianchi, anche nell'omaggio al Maestro del passato, così anche lo stesso interprete, che non rinnega la sua natura di pianista, filtra sé stesso nel tradurre il segno scritto in gesto e suono.

Le note di Bianchi non sono corollario ma parte integrante dell'incisione, molto buona dal punto di vista tecnico.

Solo una svista tipografica, si suppone, ha fatto saltare il nome di Busoni (ben presente nel booklet) dal retro di copertina.