L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Siberia ieri, oggi e domani

di Irina Sorokina

Un intelligente teatro di regia porta al successo l'opera di Giordano a Bregenz, forte anche di ottime interpretazioni sul palco e in orchestra per la direzione di Valentin Uryupin

Bregenz, 24 luglio 2022 - Quest’anno tra due produzioni del Bregenzer Festspiele, Madama Butterfly di Puccini sul palcoscenico lacustre e Siberia di Giordano al Festspielhaus, esiste un legame stretto, anzi, strettissimo: la prima della Butterfly sarebbe dovuta andare in scena alla Scala nel 1903, ma Puccini non finì in tempo la partitura e al posto della “tragedia giapponese” il 19 dicembre dello stesso anno fu rappresentata Siberia di Giordano. Ci sono alcune cose curiose, come i libretti di entrambe le opere della stessa mano, di Luigi Illica, come i ruoli principali interpretati dagli stessi cantanti e come l’ambientazione in paesi lontani dalla patria dei compositori – il Giappone per Puccini, la Russia per Giordano – per i quali entrambi prestarono un’accurata attenzione al colore locale.

Oggi Siberia di Giordano messa in scena al Bregenzer Festspiele dal regista russo Vasily Barkhatov non va descritta, ma narrata. Non è una semplice messa in scena che più o meno fedelmente racconta le vicende dei protagonisti inventate da Illica e musicate da Giordano, ma un fenomeno di teatro di regia (o, come lo si chiama in Germania, Regie Theater) profondo, delicato e coinvolgente che trascina il pubblico verso la catarsi finale: una specie di lezione di storia e di vita da imparare, soprattutto per qualcuno che nulla sa della storia russa e della gente russa.

Nulla cambia, se allo sguardo dei nati sul vasto territorio di questo paese dalle vicende e dalle sorti sempre complicate e spesso tragiche, il libretto di Illica possa apparire buffo se non addirittura ridicolo. A iniziare dai nomi, improbabili, dei protagonisti: Stephana in russo non esiste, caso mai, si potrebbe trattarsi di Stepanida, Gleby è Gleb “mutilato”, con la vocale finale aggiunta per facilitarne la pronuncia. Il nome di Nikona fa proprio ridere, poiché nella storia russa si ebbero alcuni Nikon, ma mai una Nikona. Improbabile anche il cognome Walinoff, sicuramente si tratta di un Volynov con la i gutturale in mezzo. Detto questo con un sorriso, ci conviene a seguire un personaggio non risulta nell’elenco del libretto originale: una donna dai capelli ricci, grigi ormai, che vive a Roma ma di cui le radici sono russe, la figlia di Stephana e Vassili. Lo stesso Barkhatov ci svela da dove arriva questa figura assente nel libretto originale, ma importantissima nella sua messa in scena: nel secondo atto di Siberia c’è una bambina che insieme al fratello cerca suo padre.

Conosceremo questa donna alzando gli occhi allo schermo, è lei protagonista dei filmati in bianco e nero (cameraman Pavel Kapinos, produttore Sergey Ivanov, video Christian Borchers). È in corso l’anno 1992 e lei avrà superato la sessantina o la settantina ormai, ma è ancora alla ricerca delle proprie radici che sono in Siberia dove fu spedito suo padre per aver ferito un nobile e dove la madre lo seguì (l’azione del libretto è spostata dagli anni 1830 all’inizio del Novecento). La vita è stata clemente con lei, l’ha portata in Italia e l’unica cosa che vuole ancora fare è trovare la tomba dei genitori morti in un campo di lavoro forzato in Siberia e seppellire là le ceneri del fratello. Questo ruolo aggiunto è affidato al soprano Clarry Bartha da un talento drammatico fortissimo, inaudito, avrà studiato accuratamente il sistema di Stanislavsky, il grande riformatore del teatro di prosa del Novecento? Si dimostra autentica e profonda, “senza pelle”, credibile nelle movenze e nella mimica. Mette la sciarpa sul collo, prende la macchina e va in aeroporto di Roma: l’aereo la porterà a Mosca dei primi anni Novanta del secolo scorso, pochi anni dopo che Mikhail Gorbachev annunciò l’inizio della perestroika. Le sue ricerche la conducono all’inizio in una casa di coabitazione a San Pietroburgo (all’epoca sovietica Leningrado) – a chi non sa cosa significa la casa di coabitazione, lo spieghiamo in poche parole: dopo la rivoluzione bolscevica del 1917 molti rappresentanti delle classi sociali abbienti lasciarono la Russia e nelle loro case furono messe più famiglie, una per ogni stanza. È facile immaginare quanti conflitti provocava tale convivenza e quante code si creavano la mattina per poter usare il bagno e la toilette, ma la cosa tragicomica è che le case di coabitazione sono arrivate ai giorni nostri, ce ne sono ancora tante sia a San Pietroburgo sia a Mosca e sui vecchi muri viaggiano ancora degli spaventosi scarafaggi neri a cui gli abitanti non fanno caso.

La casa di coabitazione degli anni novanta del secolo scorso una volta fu un sontuoso appartamento signorile regalato dal principe Alexis alla bella Stephana, una ragazza avviata da Gleby, un “cattivo” con precedenti penali, alla carriera di cortigiana: nel primo atto su palcoscenico le vediamo entrambe, a sinistra l’ambiente come appariva nei tempi dell’Unione Sovietica, a destra com’era nel suo splendore originale, con la carta da parati dal disegno elegante, mobili costosi, lampadario bellissimo. Le scenografie di Christian Schmidt seguono la strada di fedeltà alle epoche e al gusti delle epoche rappresentate in questa Siberia d’autore, sempre sobrie, dalle linee chiare e dai colori sbiaditi, in perfetta sintonia con i bei costumi di Nicole von Graevenitz. Un grande ammirazione va al light designer Alexander Sivaev, creatore di atmosfere inquietanti e spettrali.

La figlia “romana” di Stephana e Vassili è sempre presente, per via dei filmati e in carne e ossa. Dopo la visita alla casa, nel secondo atto, va in un archivio di Stato dove sugli scaffali sono accuratamente conservati le cartelle con dei documenti di condannati ai lavori forzati per motivi diversi e dove sul muro è appeso un dipinto enorme in stile del realismo socialista, con un effetto agghiacciante prodotto anche dal coro dei condannati ai lavori sforzati fuori scena.

Il terzo atto, in Siberia, avviene nell’immaginazione della signora di Roma che per tutta la durata dello spettacolo gira con l’urna dei ceneri del fratello sotto il gomito. Alla fine dell’opera il suo desiderio di trovare la tomba dei genitori si esaudisce in parte: la tomba non fu segnata, si tratta solo del luogo anonimo siberiano dove la madre fu fucilata in seguito del tentativo d’evasione. Nell’anno 1992 qui ci sono i grigi e anonimi palazzoni dell’epoca sovietica, costruiti per povera gente, e una scuola materna, anch’essa grigia e triste, circondata da un muro in cattive condizioni. Così, alla fine dell’opera, le due epoche storiche, l’inizio e la fine del Novecento, si ricongiungono.

Sul palcoscenico del Festspielhaus si esibisce un cast internazionale superlativo, in cui il soprano e il baritono superano il tenore un po’ meno efficace. Notiamo, tra parentesi, che nel cast scelto per interpretare un’opera italiana non c’è nessun italiano e per un’opera italiana su soggetto russo ci sono solo due russi, Alexander Mikhailov (Vassili) e Stanislav Vorobyov (un capitano/un sorvegliante). Il soprano canadese Ambur Braid – chi segue gli eventi operistici nell’area di lingua tedesca ricorda la sua sorprendente Salomè nella produzione di Barrie Kosky – si cala nei panni di Stephana con disinvoltura e abbandono assoluti, dimostra un livello di recitazione al pari del teatro di prosa. La voce senza un grande smalto, a tratti aspra, ma ben impostata e resistente, non colpisce per sé, ma la comprensione altissima del testo e dello stile, la qualità del declamato, la ricchezza di colori, la raffinatezza dell’accento le valgono delle infinite ovazioni.

Il suo amato Vassili ha le sembianze e la voce di Alexander Mikhailov del Teatro Mariinsky di San Pietroburgo, credibile nei panni del militare che proviene dai ceti sociali modesti e coltiva fortemente i valori morali. Sa fare bene il suo lavoro, un bravo attore e un cantante non male, fornisce una prova dignitosa, tuttavia rimane nell’ombra della Stephana di Ambur Braid. Ma è il baritono texano Scott Hendricks che supera tutti con l’interpretazione tagliente e quasi spaventosa del “cattivo” Gleby, portando il pubblico a provare un autentico scossone di fronte ai tali immoralità, cattiveria e sarcasmo. La voce di baritono solida e ben sonora, perfettamente affinata, è fenomenale per quanto riguarda l’espressività: insomma, un'interpretazione da brivido. Un ricordo di carattere personale: nel 2008, quando sul palcoscenico lacustre del Bregenzer Festspiele fu rappresentata la Tosca chiamata in modo informale “dall’occhio blu”, con il baritono Peter Sidhom nel ruolo del barone Scarpia, forse il più sporco, il più sadico della storia, alla fine della recita capitò di sentire dei ragazzi dichiarare che Scarpia “is a very bad boy”. Riteniamo che Scott Hendricks riguardo la cattiveria abbia superato alla grande quel “very bad boy” e meriti il titolo “the greatest bad boy”.

I numerosi ruoli di contorno nella nuova produzione del Bregenzer Festspiele non meritano di chiamarsi tali, giacché ogni interprete dà una grande prova vocale e attoriale: Fredrika Brillembourg – Nikona, Omer Kobiljak – principe Alexis, Manuel Günther – Ivan/un cosacco, Michael Mrosek – banchiere Miskinsky/un invalido, Unnsteinn Arnason – un governante, Rudolf Mednansky – un sergente, Bronislaw Palowski – la voce di un contadino. Molto naturali e coinvolti nell’azione sono i bambini presenti nella scena al campo di lavoro forzato, Aurel Boss, Matteo Brandt, Johanna Köhler, Milo Rosales.

Valentin Uryupin, direttore artistico del Teatro Nuova Opera di Mosca, dirige quasi trepidante la partitura di Giordano, va in profondità, lavora nei minimi dettagli e ottiene dagli strumentisti dei Wiener Symphoniker intensità di suono, piani e pianissimi da provocare il batticuore. Qualche inesattezza è stata segnalata dai colleghi giornalisti alla prima recita, mentre la seconda ha dimostrato una mano ferma e la perfetta sintonia di tutti i gruppi dell’orchestra.

Nell’ottima resa dello spettacolo contribuisce nel modo formidabile il Prager Philarmonischer Chor preparato da Lukaš Vasilek, non solo per l’altissima qualità del canto, ma anche per il profondo lavoro di carattere attoriale, e infatti, viene generosamente applaudito all’uscita sul palcosenico finito lo spettacolo.

Mai sentiti applausi così calorosi al Festspielhaus alla fine della rappresentazione di un’opera, dal 2015. Una lunga standing ovation, con il pubblico in piedi che rende giustizia ad una produzione che tocca profondamente l’anima e il cuore.

 

 

 
 
 

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