di Gina Guandalini
Nel centenario dalla morte di Eleonora Duse, un ricordo che intreccia la sua vicenda umana e artistica con quelle di Emma Calvé e Gemma Bellincioni.
Cento anni dalla morte di Eleonora Duse - parte I
Cento anni dalla morte di Eleonora Duse - parte III
Si sostiene di solito che la relazione della Duse con Boito sia più felice e nei risultati più positiva del distruttivo e umiliante rapporto con D’Annunzio. In realtà a livello sociale Boito, nel suo disprezzo per l’universo teatrale non operistico, mantiene sempre il silenzio su Eleonora, prende infinite precauzioni perché i loro incontri rimangano segreti, rifiuta di presentarla alle nobildonne e agli intellettuali che costituiscono il suo «giro». Anche la diretta influenza sul repertorio dusiano non può dirsi positiva: Antonio e Cleopatra di Shakespeare diventa un libretto confezionato per una primadonna (Boito non conosce l’inglese) e gira per il mondo solo grazie alla personalità della protagonista; è noto che Arrigo ironizza su Ibsen, autore che invece diventerà fondamentale nella parabola creativa dusiana. In compenso, gli stimoli culturali che una personalità del calibro di Boito offre a un’artista sempre desiderosa di imparare e di acculturarsi sono senz’altro cruciali nell’evoluzione della personalità dusiana. Bauli interi di libri la seguono nei suoi viaggi, la biblioteca e la cultura della Duse rappresentano un fenomeno impressionante, ancora da analizzare.
Insieme a un altro intellettuale che la ammira e la soccorre in ogni circostanza, Gegè (Giuseppe) conte Primoli, nipote di Napoleone, Eleonora va nel camerino di Emma Calvé alla Scala. È l’aprile 1900, la cantante francese ha appena trionfato come Ofelia in Amleto di Thomas accanto al baritono Mattia Battistini. Verdi è nel pubblico e la applaude calorosamente. La Calvé riferisce che la Duse le dice «Brava! Che voce unica, emotiva, e che sincerità!» e che lei risponde «Voi mi avete dato l’esempio, perché siete voi che portate la fiaccola che io cerco di seguire».
Intanto divampa sulle scene liriche il fenomeno Bellincioni. Un’anziana collega, l’insigne contralto Adelaide Borghi Mamo, l’ha rimproverata maternamente di essere un po’ troppo fredda, l’esorta a lasciarsi andare, come già Mathilde Marchesi con Emma Calvé. Gemma abbandona quindi le regine in diademi e strascichi per respirare quello che nell’ambiente dell’arte e della critica si chiama allora «la verità» e impone una Violetta davvero «nuova e vera», Nelle memorie dell’impresario Gino Monaldi: «il fanatismo suscitato dalla Bellincioni non si descrive, pareva che nessuno avesse mai visto o sentito Violetta prima».
Viene naturale all’epoca porre sullo stesso piano il testo teatrale e l’opera lirica da esso ricavata. La Bellincioni per cantare Violetta studia a fondo anche Marguerite di Dumas, analizza il personaggio con la stessa acutezza della Duse; anzi, estende l’indagine al parallelo Dumas-Piave. «In qualche episodio il dramma di Dumas mi sembra un tantino meno vero e meno sincero» E qui la nostra cantante è modernissima per i suoi tempi: il «sagrifizio» della sua eroina la sconcerta. «La cosa più logica di questo mondo è che Margherita mandi al diavolo quel seccatore… il mio criterio di donna produce in me una distrazione, mi domando ‘com’è che in musica va bene e in prosa no?’». Anche la scena dell’addio ad Armand la lascia perplessa: «Se Margherita si mostra troppo commossa Alfredo non la lascia partire. Io penso che la grande commozione che le attrici spiattellano alla ribalta in quel momento dovrebbe essere invece tutta interiore, dovrebbe essere dissimulata. Nella Traviata in quel punto lì c’è nientemeno che l’Amami Alfredo! Gli spettatori piangono senza che pianga Violetta…ma in prosa come si risolve il problema?» Un vero dilemma interpretativo.
Nel 1890 collabora – anche in fase di prove – al fragoroso trionfo, romano e poi mondiale, di Cavalleria Rusticana di Mascagni. «L’anima rude e semplice della contadina siciliana, così vera nella dolorosa tragedia del suo amore tradito, mi apparve un tutto omogeneo», scrive, «espresso nella musica di Mascagni a permettermi di palesare al pubblico il mio vero ideale d’arte. E senza timore mi distaccai da ogni rancida tradizione della scena lirica». Rappresentare «il vero» – le classi contadine? I sensi? L’isterismo? La violenza? – diventa quindi una missione.
Eugenio Pirani, pianista e compositore, va in estasi per lei sulla Gazzetta di Milano: «Sulla scena dimentica teatro e pubblico e vive soltanto nella parte da essa rappresentata. Essa adora, come in Mala vita di Giordano, il giovane che la trarrà dal fango, si rivela una furia in faccia alla sua odiata rivale, e cade finalmente esanime allorché si sa abbandonata. Tutto ciò non è più arte, è verità. E con lei sente il pubblico, con lei ama, trepida, soffre. Qualcuno dirà che i grandi artisti hanno fatto sempre così. ‘Nossignori!’, rispondo io…» Siamo qui nel pieno di quella ricerca della verità – qualunque cosa essa sia – in ogni tipo di rappresentazione artistica, che ossessiona la cultura da una ventina di anni. Per quanto riguarda l’opera lirica, appare chiaro che cantare e recitare non basta più: gli interpreti devono vivere. Nel teatro di prosa entusiasmano i sussurri, le sottigliezze, la sorprendente semplicità della Duse. Nell’opera ci vuole di più: urli, rantoli, svenimenti, coltellate.
Nel settembre 1892 la Santuzza della Bellincioni porta il pubblico viennese a definirla «la Duse dell’opera». Il critico teatrale berlinese Maximilian Hardenscrive al musicologo e compositore Heinrich Schenker: «Il suo giudizio sullaBellincioni lo sottoscrivo: è più geniale lei nel suo dito mignolo della Duse tutta intera». Curiosa polemica su cui si vorrebbe sapere di più. A quali intellettuali verrebbe in mente oggi di discutere una cantante lirica paragonandola a un’attrice di prosa? Centouno anni dopo Mariangela Melato e Raina Kabaivanska interpreteranno nelle stesse città, per la regia di Ronconi, la pièce teatrale di Karel Čapek e l’opera di Leoš JanáčekIl caso Makropoulos; nessuno avrà l’idea di sovrapporre le loro personalità e la loro validità di interpreti. Vuol dire che Gemma Bellincioni nel 1892 è ovunque percepita come attrice a pieno titolo, non più cantante. È forse di quell’anno un incontro amichevole-artistico tra Eleonora e Gemma; la moglie dell’attore Luigi Rasi – collega e poi biografo della Duse – riferisce di aver ricevuto un telegramma, «Ho una magnifica scatola per la magnifica Bellincioni». Le due artiste si scambiano omaggi floreali.
Emma Calvé riferisce un episodio che sarebbe stato magnifico trovare nel romanzo Il fuoco. Lei canta Hamlet alla Fenice, con grande successo di pubblico, tra cui c’è anche la famosa attrice Réjane in tournée italiana. La Duse e D’Annunzio danno una grande festa mascherata nel palazzo di lei (Barbaro-Wolkoff?). La Duse è in costume da dogaressa, D’Annunzio «in un ricco farsetto damascato, sembrava un Tiziano disceso dal quadro». Il Vate si precipita incontro alle due francesi; Réjane in costume Luigi XV, la Calvé in quello «del quarto atto di Carmen, copia di un quadro di Goya». D’Annunzio esclama «Watteau e Goya! Belle dame, siete state identificate, giù le maschere! Signore e signori, vi presento due grandi francesi…» Dopo il banchetto le rapisce senza fatica nella sua gondola e chiede a Emma di cantare. Nella notte stellata sul Canal Grande lei intona Lasciatemi morire di Monteverde, e due arie di cui non dice l’autore delle musiche: Plus ne suis ce que j’ai eté, epigramma del poeta rinascimentale Clément Marot e Adieux de Boabdil à Grenade (che in realtà è un quadro ottocentesco: di chi è la musica?). D’Annunzio dice che «si vorrebbe chiudere la vostra voce in uno scrigno, come un puro gioiello, per goderne in esclusiva!». Poi fino all’alba si diffonde sull’arte e sulla cultura di Francia, sul Rinascimento spagnolo e italiano. Inebriando e ipnotizzando le due francesi, che dopo si confessano di avere avuto la tentazione di fuggire con lui.
Stupendo aneddoto, senonché la Calvè lo colloca nell’autunno ’88, quando la Duse è in piena liaison con Boito, conosce D’Annunzio solo dai suoi poemi e romanzi e non ha ancora affittato un appartamento a Venezia. E la stessa Emma canterà Hamlet alla Fenice l’anno dopo. Però, ricordando che la cantante si è fatta sentire dalla Duse nel lamento di Monteverdi e che ama interpretare musiche rare ed elitarie, chi scrive si chiede se il personaggio della bella Donatella Arvale, che nel Fuoco canta l’Arianna di Benedetto Marcello, non sia ispirato anche a Emma Calvé. I critici la identificano al cento per cento in Giulietta Gordigiani, ma per me il sospetto resta. D’Annunzio deve certamente conoscere l’esistenza della revisione di questo «intreccio scenico» del 1727 che la Arvale canta; è stata pubblicata nel 1885 dal musicologo, liutaio e “marcellologo” veneto Oscar Chilesotti.
Stanca delle “intermittenze sentimentali” di Boito, che perdipiù non vuole immedesimarsi nel suo percorso recitativo, la Duse si concede un interludio d’amore – scoperto solo quarant’anni fa – con il pittore russo Alexander Wolkoff. Più recente è la teoria che proprio nel biennio in cui è legata a Wolkoff avvengano i primi contatti, per lettera e forse di persona, a Roma e a Napoli, con D’Annunzio, al quale lei chiede una copia del romanzo annunciato Salamandra (non esiste, è una delle molte fantasiose promesse che l’Imaginifico fa ai suoi editori). Un evento importante di quel periodo è il primo ruolo di Ibsen nel suo repertorio, Nora inCasa di bambola. I pubblici vivono con la Duse la triste constatazione di quanto è dura l’indipendenza delle donne, constatazione che lei affida a mille piccoli gesti ora realistici, ora introspettivi.
Per «inassopita bramosia di saper» – come direbbe Boito – nel 1892 Emma Calvé va a Roma a chiedere i segreti estremi del canto all’ultimo dei castrati, Domenico Mustafà (1829 – 1912), cantante, compositore e direttore della Cappella Sistina (Wagner lo prende in considerazione per il ruolo di Klingsor nel Parsifal, ma poi la parte va a un baritono). Mustafà le spiega che deve esercitarsi a cantare a bocca chiusa per dieci anni. Un po’ troppo, risponde Emma; ma si dedica a qualche mese di esercizio assiduo. Questa pratica viene sbeffeggiata come insensata e inutile da colleghi di allora e da espertoni ancor oggi. Fatto sta che il registro acuto della Calvé si arricchisce di un falsetto ardito e irreale, diventa quella «quarta voce» che possiamo ascoltare nelle sue registrazioni, soprattutto di canzoni, come Ma Lisette e Au clair de la lune. Strana preparazione all’impresa cui si accinge subito dopo: presentare il ruolo di Carmen. L’irresistibile ascesa dell’artista francese come gitana di Bizet coincide con la voga europea del flamenco e del folklore spagnolo. La belle Otéro – la galiziana Augustina Otéro Iglesias, amata da D’Annunzio oltre che dal Principe di Galles e dai Granduchi di Russia – trionfa in audaci numeri di danza tra il 1890 e il 1920; Carmencita Dausset, metà francese e metà andalusa, furoreggia come danzatrice di un tipo di flamenco inventato da lei in varie tournée statunitensi; la bellissima Rosario Guerrero, immortalata in vistosi ritratti, è Carmen in versioni danzate e mimate a Parigi e a Londra. È di moda il folklore mediterraneo e gitano. La Calvé prepara la sua interpretazione di Carmen con un giro turistico della Spagna, dove studia il flamenco. Durante le prove all’Opéra-Comique – nel ’94 – impone la sua visione del personaggio, sensuale e scatenato. La sua è una recitazione talmente caricata sul versante del realismo, che turba non solo i suoi detrattori, ma anche un suo ammiratore dichiarato, George Bernard Shaw, che la vede poco dopo al Covent Garden: resta impressionato dall’abiezione morale e dalla volgarità di questa gitana e soprattutto dalla violenta rappresentazione della sua morte. «Vedere la Carmen della Calvè che si trasforma da creatura vivente con movimenti coordinati in una cosa oscillante, barcollante, cascante e scoordinata, e infine crolla come la carcassa di un animale» (Shaw usa il termine carrion, etimologicamente analogo a «carogna»), equivale a provare la stessa sensazione che può dare la realtà di un brutale omicidio». Con Emma Calvè il verismo fa passi da gigante. Ma la nostra interprete, sostiene un critico musicale francese, è discutibile anche sul piano musicale: vuole dirigere lei dal palcoscenico: movimenti, ritmo, persino la logica musicale non esistono più. L’interprete è il centro del palcoscenico.
Eccessi di verismo operistico analoghi turbano Roberto Bracco, scrittore, commediografo e politico, nella stessa opera che ha entusiasmato Pirani. A Napoli nel 1892, dopo Mala vita al San Carlo, scrive di «grande stonatura estetica della scena, ammasso di straccioneria e di miseria morale che nel dramma» (di Salvatore Di Giacomo e Goffredo Cognetti) «ha l’altissima importanza artistica del vero schietto, e che nel melodramma si spampanava in tutta la sua grandiosità plebea. Mi sento profondamente infastidito dalla vista di quelle catapecchie e di quella mala casa, dalla tristezza e dalla goffaggine di quegli abiti in cui la bellezza passionale di Gemma Bellincioni pareva offesa».
Nel 1895 Gemma Bellincioni pubblica presso una tipografia fiorentina il romanzo Vittorina, probabilmente redatto da un’altra penna, che racconta la carriera di una primadonna spesso osteggiata ma in fine trionfante. Il libro è reperibile al Vittoriale degli Italiani (guarda caso) e alla Biblioteca Estense di Modena. I teatri, i pubblici e lei stessa sono incrollabili nella convinzione che Gemma non è quella creatura frivola e fuori moda, una cantante d’opera, ma una infuocata portavoce della teatralità moderna. La sua carriera prosegue brillantemente, votata, con poche eccezioni, al repertorio contemporaneo. L’eccezione è poi La traviata, che a Parigi nel 1900 Sarah Bernhardt aggredisce in un duello teatrale, inserendo tra le Violette del soprano italiano recite della “sua” Dame aux Camélias.
Rodolfo Celletti sintetizza: «attrice cantante, il cui aspetto e la cui gestualità potevano supplire a carenze tanto della voce che del fraseggio». La voce Gemma Bellincioni in Wikipedia, che forse a Celletti si ispira, non rinuncia a parlare di maniere istrioniche, presenza scenica verista (autentico insulto negli anni del dopo Callas), estensione vocale non molto ampia, voce soggetta a tremolo. Le registrazioni ascoltabili su YouTube denunciano in effetti suoni poco fermi. C’è il problema tecnico della qualità arcaica dell’incisione, c’è il gusto ovviamente sorpassato, e il fatto che la cantante era circa quarantenne. Ma, caso singolare, tra Fedora e Cavalleria, ascoltiamo un «Ah fors’è lui», che si ferma a «Delizia al cor», ben fraseggiato e coinvolgente; e c’è un bel trillo.
Nel 1897 a Boston la Calvé ha tra i suoi spettatori una giovanissima ed ambiziosa studentessa di canto, che scrive «Meravigliosa Calvé! Ho perso completamente la testa per questa stupenda recita.. Questa fantastica creature è ciò che spero – anzi, intendo – diventare. Anch’io un giorno devo cantare Carmen al Metropolitan»: Chi scrive è Geraldine Farrar, nata nel Massachussets, soprano e attrice di forte temperamento. È dunque Emma a ispirare sua volta le giovani promesse del canto. Anni dopo, a Montecarlo, Geraldine sostituirà all’ultimo minuto il suo idolo nel ruolo protagonistico di Amica di Mascagni, che la Calvè diserta senza spiegazioni. Dopo la sua Mignon del 1908, la Farrar ha la soddisfazione di vedersi paragonare alla Calvé da un critico importante. Legata sentimentalmente a Toscanini per sette anni, la tempestosa artista statunitense verrà da lui preparata nel ruolo di Carmen, considerato tra i più riusciti nel suo repertorio.
I dischi della Calvé, registrati tra il 1902 e il 1916, lasciano trasparire un’interprete attentissima al lato vocale dei personaggi – come del resto si intuisce dal suo irrequieto vagare da un docente di canto all’altro. Anche in Carmen e in Santuzza è sempre un soprano (altro che Besanzoni e Barbieri!), pur con occasionali, ben calibrati affondi nel registro di petto. Mi sembra che il mutare del gusto, fatale a quasi tutti gli artisti operistici, non impedisca di apprezzare la sua personalità, e in diverse interpretazioni anche il timbro luminoso.
Sono in possesso di un’interessante intervista rilasciata dalla Duse – nel 1902 a Berlino – a una romanziera e commediografa tedesco-americana, Annie Neumann-Hofer nata Bock, che scrive in tedesco. L’ammirazione di questa scrittrice per la personalità della Duse, per l’atmosfera che sa crearsi intorno in una camera d’albergo, per l’ostinazione sovrumana con cui torna e ritorna su ogni dettaglio delle sue interpretazioni conferma che il personaggio-Duse affascina tutte le donne desiderose di indipendenza e di spazio creativo. In quello stesso anno il musicologo Gustav Kobbé pubblica il romanzo Signora: a Child of the Opera House, nel quale assistiamo ai retroscena di una recita di Carmen al Metropolitan; la cui protagonista è Emma Calvé, sotto il nome di Caravé.
Si attribuisce al giugno 1903 una love story tra D’Annunzio e la Bellincioni. È probabilmente vero, anche se in nessuna biografia del Vate o dell’artista monzese io ne ho trovato accenni. Quello è l’anno in cui l’appassionato amore della Duse per Gabriele, iniziato presumibilmente nel settembre 1895, giunge all’inevitabile conclusione, dopo tradimenti, umiliazioni, richieste di finanziamenti. Non si conclude la stagione del teatro dannunziano nel repertorio di Eleonora, perché, forse per orgoglio, continuerà a recitare La Gioconda e soprattutto La città morta. Ma il sodalizio d’arte e d’amore è finito malamente e il progetto teatrale che avrebbe dovuto ispirarsi a Bayreuth nella grandiosa immaginazione del Vate, non si realizza e quel repertorio finto antico e tutto di sonorità roboanti è ormai chiaro che non le si attaglia; è Ibsen a costituire la grande fase finale della parabola dusiana.
Fine seconda parte