Fischia il vento sulla terra degli uomini

di Roberta Pedrotti

Al Rossini Opera Festival storica produzione di Guillaume Tell, autentico capolavoro dell'avvenire e di ogni tempo grazie alla profondità della lettura di Graham Vick, politica nel senso più nobile e alto del termine, e della concertazione di Michele Mariotti. Sul palcoscenico un cast memorabile sotto ogni punto di vista: solisti, coro e tersicorei uniti come un unico popolo in cammino.

 

PESARO (11/08/2013) - L'uomo è un animale politico. Riabilitiamo finalmente questa parola tanto vituperata: politica. Ciò che concerne il nostro essere in quanto parte di una comunità, di una società, in quanto in relazione con gli altri. Ciò che concerne il nostro modo di vivere tutto questo, di concepirlo, di voler amministrare il bene comune. La politica non è spartizione del potere in una gilda di privilegiati, bensì una delle forme più alte del nostro essere uomini, tanto che ogni nostra attività, massime quella artistica e teatrale, non può dirsi estranea ad essa. Dire pertanto che il Guillaume Tell al Rossini Opera Festival è uno spettacolo profondamente politico deve significare solo questo: è uno spettacolo che tocca il senso più nobile e autentico di questa sublime immagine di un popolo alla conquista di se stesso, della propria identità, della propria libertà. Che trova una speranza al di là della cupa spirale manzoniana di oppressi e oppressori, e la trova non nella provvidenza divina ma nella coscienza di sé, nelle proprie forze.

Ex terra omnia, ogni cosa viene dalla terra è l'epigrafe che troneggia sulla scena. Infatti il dominio austriaco rinchiude il popolo in un mondo asettico, artificiale, in cui la natura, le tradizioni, lo stesso canto idilliaco del pescatore sono distorti ed esibiti solo per il divertimento dei padroni, che ne ridono o ne fanno paternalistico quadro edificante (come non pensare a certa retorica populista totalitaria o alla tragica sceneggiata di Terezin?). Intanto il popolo, quello vero, è costretto ossessivamente a rimuovere ogni traccia di terra da quello spazio bianco e lucido. Ma quella terra sono loro, è la loro vita, sono le loro radici, il loro lavoro. È la natura libera, anche selvaggia, che il figlio di Tell, nel dramma di Schiller comprende essere preferibile alle più fertili e ordinate pianure dominate da un sovrano. È la terra che spargono ancora per celebrare i riti nuziali della loro comunità, che Melchtal porge al figlio già arruolatosi al soldo dei padroni. Per costoro il mondo è un altro, perverso perché ha rinnegato la terra, l'umanità, in favore del profitto e del potere. I cacciatori cavalcano una natura morta e fasulla, simulacri equini realistici ma non reali, fra cui si aggira Mathilde, su cui monta Arnold sognando la gloria militare; saranno solo i congiurati dei tre cantoni a svellerli, capovolgerli, farne barricate. Quando ad Aldorf si festeggia la rivolta è già matura, incombente, le pareti macchiate di sangue, resta un solo cavallo, decapitato. Ma Gessler e i suoi giocano, bevono, irridono, ricchi e decadenti, splendidi e riprovevoli, incapaci di concepire l'umanità di quel popolo che per loro è solo un oggetto. Invece in esso si forma la coscienza, e Tell non ne è l'eroe ispiratore, è la sua voce, è un padre, un uomo comune che comprende il mondo e trova se stesso, dopo essere stato fiaccato e umiliato dalla terribile prova della mela. In quel momento sa chi è, qual sia il suo dovere, sa che deve agire, che non si tratta più di osservare il mondo, ma di cambiarlo: non scaglia l'anatema come un profeta, ma invita la sua gente con lui a proclamarlo segnando la fine dell'oppressione. Una voce di questa gente è anche Arnold, il giovane che arriva alla coscienza di classe sperimentando l'ambizione e i furori della sua età: per vendicare il padre aderisce alla ribellione, ma per come si scuote le mani dopo che Walter gli ha porto un pugno di terra è chiaro che non sia ancora convinto appieno. Lo sarà. Lo sarà, infine, quando rivedrà le immagini della sua infanzia, suo padre che lo accompagnava nei campi ad apprendere i valori del lavoro e della natura. L'altro giovane, Jemmy, poco più che un bambino, dà fuoco al cuore della sua casa, la tavola dove si riunisce la famiglia, per dare il segnale della rivoluzione e aprire le porte al futuro, un futuro cui aderisce anche Mathilde, indossando con orgoglio gli abiti del popolo cui ha deciso di appartenere. Tutto può avere inizio: il finale dell'opera non conclude la storia, bensì permette alla storia di cominicare. Liberté, redescends des cieux, et que ton règne recommence: la prigionia dell'ignoranza, dell'oppressione è finita, si apre una nuova era e il primo a salire la via della libertà e a esplorarla deve essere il piccolo Jemmy. Graham Vick racconta la storia universale di Guillaume Tell con il respiro ampio e profondo del grande uomo di teatro, del grande intellettuale che ama visceralmente l'opera come la cultura classica (le iscrizioni in latino elevano tutta la bellezza di una lingua fondante di un pensiero condiviso al di là dei confini nazionali) e il nostro grande cinema (L'albero degli zoccoli e Novecento soprattutto). Coglie la coralità del Tell ma descrive nel contempo perfettamente ogni singola individualità, facendo anche del coro non una massa, ma un popolo. Comprende la grandezza e la novità di quest'opera nella sua unità di pensiero e forma, per cui il simbolo è tutt'uno con la narrazione, tutto è perfettamente consequenziale e correlato, ogni momento intimamente relato agli altri, soprattutto i balletti, che il genio di Ron Howell inserisce nell'azione senza che nessuno, solisti, tersicorei, coristi, ne sia escluso. E crea quadri di impatto sconvolgente. Il Tell così svelato non è solo la Bibbia dei musicisti, ma un testamento morale e politico universale, la realizzazione di quanto di più nobile l'uomo abbia potuto concepire per capire, sognare, costruire la propria società. Qualcosa che andrebbe riscoperto dalle radici, dalla terra.

Vick è un grande regista d'opera, è profondamente sensibile alla drammaturgia musicale e nell'imprigionare la Svizzera nella bianca prigione austriaca, il popolo nella struttura imposta dal potere, sa di poter contare sull'effetto dirompente della natura evocata dalla musica, non visibile e perciò ancor più ardentemente sognata e bramata. È Michele Mariotti a darle vita dal podio con un'unitarietà di visione, una cura del dettaglio, un respiro epico e analitico, una profondità di pensiero e un'esattezza tanto lucida quanto passionale da avere perfino del miracoloso. Quattro ore di musica scorrono con una tensione tanto incalzante da volare quasi impercettibili, ma lasciando nel contempo un segno indelebile che non si attenuerà presto. Questa tensione, tuttavia non è mai bruciante, basti pensare allo stacco eroico e solenne, impetuoso ma non frenetico della cabaletta di Arnold, o alla rapinosa mobilità di accenti dell'attacco del duetto d'amore del secondo atto, se è mai possibile selezionare un solo singolo istante in una recita che muove alle lacrime dalla prima all'ultima nota e penetra fin nella più intima fibra. Il cast è eccellente, ma in queste condizioni ciascuno supera se stesso. Nicola Alaimo vive profondamente la natura del padre di famiglia sempre più coinvolto, per dare un futuro migliore ai suoi, negli ideali della rivoluzione. Gli sguardi, i gesti, il pathos insito nella sua raffinatissima musicalità ne hanno fatto il simbolo perfetto dell'ideale profondo di questa produzione. E sorprende Juan Diego Flòrez che forse mai avevamo visto recitare così bene, fraseggiare con tanta cura, cercare una sua verità così intimamente vissuta. La maturazione del personaggio è talmente chiara e toccante da mettere una volta tanto in secondo piano la pur rilevante prova vocale, grazie anche allo splendido lavoro concertato con Mariotti e Vick. Sulla scena trova invece come amata Mathilde un'altra fuoriclasse assoluta: Marina Rebeka è sicurissima, la voce ben proiettata in ogni dinamica, in ogni registro, nella coloratura; è una donna affascinante e un'attrice carismatica. Non si potrebbe desiderare di più. Allo stesso modo sarebbe difficile immaginare un'Edwige migliore di Veronica Simeoni e se la voce di Amanda Forsythe è oggettivamente sottile, la musicalità è soggiogante e l'attrice formidabile nel conferire il giusto protagonismo a Jemmy. Celso Albelo ormai è un lusso per il pescatore, ma in questa produzione tutto è ai massimi livelli e il ruolo è giustamente valorizzato sulla scena anche dopo il suo assolo d'apertura. Eccellenti sotto ogni punto di vista anche i tre bassi, con Simon Orfila quale Walter, Simone Alberghini come Melchtal e Luca Tittoto come Gessler: se tutti recitano meravigliosamente differenziando alla perfezione i loro personaggi, è però quest'ultimo a strappare un'ovazione speciale per un'incarnazione del male non meno che memorabile. Un po' grossier, ma appropriato, il Leuthold di Wojtek Gierlach, di squillo limitato ma presenza efficace il Rodolphe di Alessandro Luciano. Formidabili il coro del Comunale di Bologna, tutte le presenze danzanti o recitanti sulla scena, così come l'orchestra, sempre proveniente dal capoluogo emiliano e trasfigurata rispetto all'opaca prova della sera prima .

Per una serata di quelle che segnano il significato e la ragion d'essere del teatro, dell'arte, di un festival come il Rof, per una serata che rende lo spettacolo d'opera ancora degno d'essere vissuto il successo è al calor bianco, e le tavole del pavimento tremano sovente nell'esultanza che dalle acclamazioni e dai battimani coinvolge tutto il corpo. Qualcuno mugugna, ma sono pochi, isolati. Questa volta sulla regia non ci si dà più di tanto battaglia. Ha vinto il Tell, ha vinto Rossini: chi vuol far polemica si accomodi fuori dal teatro. Pare che qualcuno ne avesse voglia, contenti loro....