Valorizzare, non sfruttare

 di Gina Guandalini

Prima dell’ultima recita del divertentissimo Viaggio a Reims [ leggi la recensione] all’Opera di Amsterdam Bruno de Simone acconsente a parlare del mondo dell’opera e del canto. È un artista colto e ponderato, che vive bene anche all’estero – e infatti conosce i ristoranti della città dei canali anche meglio dell’intervistatrice.

Vuoi parlarci dei tuoi studi?

Mi considero privilegiato: ho potuto iniziare a studiare canto e musica fin da giovanissimo, contemporaneamente agli studi umanistici e universitari, grazie anche a una passione coltivata in famiglia. La mia prima opera l’ho vista a 10 anni, al San Carlo: era La Gioconda con la Tebaldi. Fu un battesimo davvero speciale! A 15 anni ho avuto occasione di essere ascoltato da Kraus, a casa mia, a Napoli: mi incoraggiò molto a coltivare la mia voce. Dato lo spessore dell’artista, è stato un parere illuminante e fondamentale. Ho iniziato allora con molta prudenza, affidandomi a un’insegnante di Napoli, Marika Rizzo, fino al mio debutto, che è avvenuto a 21 anni. Da allora in poi, mi sono affidato totalmente alle “cure” di Sesto Bruscantini, che, dal momento in cui ci siamo conosciuti, mi ha accolto con grande disponibilità e generosità. Bruscantini mi ha guidato e rifinito sul piano tecnico, stilistico e interpretativo, indirizzandomi pian piano verso il giusto repertorio. Ma ho deciso di proclamare questa “paternità” solo dopo ben sei anni della sua preziosa docenza: volevo essere certo che la rivelazione non gli avrebbe fatto fare brutta figura!

Che cosa ricordi dei tuoi esordi?

Come artista sono maturato gradualmente sulle tavole del palcoscenico; sono stato privilegiato, ho cantato quasi subito accanto ad artisti straordinari. Come Kraus in un Werther, la Caballè, Margherita Rinaldi nella sua ultima apparizione in teatro. Con la Rinaldi, io ho avuto l'onore di cantare esattamente alla sua ultima apparizione in palcoscenico, Idomeneo di Mozart alla Fenice di Venezia, nel 1981, appena debuttai: la sua Ilia mi è rimasta impressa per sempre nella memoria. Era una produzione stratosferica diretta dal grande Peter Maag che mi scelse come Arbace . Ricordo che io ero preoccupatissimo, sia per la mia inesperienza, sia per la tessitura impervia di ciò che dovevo cantare e lei veniva nel mio camerino "sua sponte" a darmi dei consigli preziosissimi che ho fatto miei e che mi consentirono di affrontare le recite con relativa tranquillità. Dietro un grande artista c'è il più delle volte una grande persona, generosa e solidale con chi avesse bisogno!

E i tuoi primi Rossini?

Ho avuto l'immenso piacere la prima volta con Rockwell Blake una delle prime volte che lui cantava in Italia, nel 1984 a Genova nell'Italiana in Algeri. Erano passati solo tre anni dal mio debutto e l'emozione fu enorme! Rocky era un'autentica forza della natura, scenica, vocale ed umana: subito legammo anche per la sua straordinaria comunicativa, anche fuori dal palcoscenico, e per quella qualità – sempre più desueta oggi anche negli artisti di razza - che è l'umiltà. Ricordo come si rese disponibile ai dettami del regista, Paolo Montarsolo, che faceva anche Mustafà . E anche ai consigli che gli dava, per esempio, il mio maestro, Sesto Bruscantini che era Taddeo. Poi abbiamo fatto insieme alcune produzioni di “Barbiere”, ma è sempre stato un esempio da seguire, in quanto la grande vitalità vocale e scenica non andava mai a scapito della cifra stilistica ed interpretativa: aspetto rarissimo, soprattutto in quel repertorio!

L’influenza musicale più importante ai tuoi esordi?

Direi Peter Maag, un concertatore di esperienza solidissima. Ricordo che aveva sempre accanto tre o quattro giovani assistenti: prova che esisteva un collegamento solido tra la dimensione didattica e quella produttiva, che c’era la volontà di mantenere questo collegamento, e questo alimentava la vitalità del teatro. Oggi in Italia quel legame è andato perduto, è il risultato è un gap culturale tra noi e il resto dell’Europa.

Con te si possono affrontare con schiettezza le “dolenti note” della situazione italiana…

Ci troviamo ad arrancare dietro a loro in maniera quasi angosciosa. Stupore e amarezza e è quello che suscita la situazione italiana vista da lontano, e con gli occhi di un napoletano. Stupore lo crea il fatto di vedersi surclassati da istituzioni che, con tutto il rispetto, non possono vantare la caratura storica dei nostri grandi teatri come la Scala e il San Carlo. L’amarezza nasce, è ovvio, dal vedere trascurato un patrimonio musicale che non ha uguali al mondomio

La tua visione dell’opera italiana è dunque fortemente critica?

Stiamo perdendo affidabilità nell’ambito di possibili investimenti nella cultura. Non ci sono incentivi – come non ci sono per gli investimenti finanziari. Aggiungo che fino a qualche anno fa molti artisti importanti snobbavano alcuni teatri del Nord o dell’Est Europa, che, in confronto a quelli italiani erano poco competitivi anche come cachet. Oggi assistiamo al contrario: all’estero pagano di più e nei tempi concordati, cosa che per tanti costituisce una forte attrattiva, e questo ricade sul piano qualitativo e organizzativo degli spettacoli. Si dice spesso che i teatri italiani sono stati anche troppo generosi ai tempi delle vacche grasse, e hanno speso oltre il ragionevole. Qui ricordo che una decina di anni fa, mentre cantavo all’Opera di Roma mi trovai nell’ufficio del Comm. Francesco Ernani, allora Sovrintendente – uno dei più validi degli ultimi anni. Bene, già allora mi disse che i nostri teatri d’opera erano “vacche da cui non si poteva mungere più nulla”! Se già allora amministratori oculati come Ernani parlavano così, è ovvio che di una situazione così drammatica se ne erano accorti anche i politici, anche i vari governi che si sono succeduti

Esistono soluzioni?

Credo e spero di sì. Sarebbe auspicabile una più larga partecipazione della società civile. Per ora la troviamo solo nei consigli di amministrazione – con qualche rara presenza autorevole. Mi viene in mente la situazione di Bilbao nei paesi baschi, dove lo stato centrale ha inflitto tagli massicci ai teatri; ma non perciò la qualità delle produzioni ne ha sofferto. Con un forte senso di solidarietà – un valore che in Italia dovremmo rafforzare molto – sono scesi in campo imprenditori e sponsor e hanno formato una rete culturale civica. Si sono sobbarcati l’onere di fare investimenti, hanno colmato il gap finanziario, hanno ridato dignità e decoro agli spettacoli. Da noi tutto questo avviene con molta fatica – se avviene….

Tu che cosa suggerisci ?

Credo che per rilanciare l’opera si debba fare leva sui giovani e sul loro entusiasmo. Ma non sfruttandoli in maniera dissennata: le forze nuove vanno inserite con misura e con molta attenzione in una struttura già rodata. Voglio dire che solisti, orchestre e cori hanno bisogno di “allenatori”; ci vogliono personalità che sappiano sfruttare al meglio tutte quelle potenzialità che rischiano di rimanere schiacciate. In questo senso è un brutto segno che molti direttori italiani lascino i nostri teatri. Si è molto parlato, e giustamente, di Muti; ma io voglio ricordare anche Daniele Gatti: che un fuoriclasse come lui scelga una struttura particolare come il Concertgebouw di Amsterdam, che preferisca l’Olanda all’Italia non è un caso. Ma ecco che ci ricolleghiamo a quanto ho detto sulla necessità di assistenti e preparatori, Se noi dessimo più importanza alla questione della formazione, forse alla fine avremmo un paese più consapevole culturalmente, e della crisi delle Fondazioni liriche non staremmo qui a parlare come di un fenomeno piovuto dal cielo, che deve risolvere – tutt’al più – la politica.

Dei pubblici che cosa pensi?

A monte di tutti i problemi, è alla scuola che dobbiamo guardare. La formazione deve essere anche quella del pubblico! A Parigi, a Vienna, a Berlino, io canto sempre in teatri pieni di ragazzi, di giovani, o addirittura in recite per le scuole. In Italia un ricambio del pubblico non lo vedo: e come risolvi il problema di finanziare i teatri se perdi di vista quest’altro, questo della – molto prossima - riduzione del pubblico a uno sparuto gruppetto di addetti ai lavori ? Bisogna ricominciare dalla preparazione scolastica, che insegni i valori fondamentali della nostra identità culturale. Mi auguro proprio che per chi si esibisce in Italia la definizione “di chiara fama” non diventi “di chiara fame”!

Vogliamo affrontare il discorso del tuo repertorio?

Moltissimi ruoli in opere del ‘700 hanno cominciato a forgiare la mia personalità artistica senza mettere a repentaglio la mia vocalità ancora giovane e in via di consolidamento. E’ un repertorio che considero di grande importanza per la cura della parola cantata e dell’articolazione, che vanno a braccetto con la vocalità. Questo percorso iniziale si è poi rivelato fondamentale perché mi ha permesso di affrontare il ruolo giusto al momento giusto; ho rifiutato più volte ruoli prematuri per me, per le armi che avevo a disposizione. Qualche volta ho corso il rischio di non essere compreso, anzi frainteso, perché qualcuno lo recepiva come uno snobbare le sue offerte. Fra i grandi che ho incontrato e da cui ho avuto anche la fortuna di ottenere un giudizio, ricordo Nicola Rossi Lemeni; mi disse che questa carriera si fa più dicendo “No” che “Sì”, se si ha l’intenzione di non arrivare soltanto ma anche di durare.

La tua versatilità come la racconti ?

Ecco che per esempio dopo aver interpretato varie volte Figaro nel Barbiere sono approdato a Don Bartolo, e l’ho cantato tantissime volte, dal ROF all’Arena di Verona, dalla Scala a Tokyo, da Vienna a San Francisco; dopo Belcore nell’Elisir, adesso interpreto Dulcamara, e dopo vari Malatesta, Don Pasquale. I ruoli di “buffo” non sono buffi, nel senso che spetta all’interprete renderli più o meno tali. Hanno bisogno di una maturità vocale e interpretativa che un cantante giovane difficilmente può avere: basti pensare alle sfumature infinite che contengono, che vanno dal comico al malinconico, dal cinico al buffo, dall’istrionico al patetico. Il grande Bruscantini io lo chiamavo Maestro anche dopo molti anni di lezione e anche momenti umani straordinari trascorsi insieme. Ebbene mi ammonì subito: “Sappi che, con le tue caratteristiche interpretative, sicuramente ti affideranno quanto prima i ruoli di buffo. Ma”- aggiungeva- “dovrai essere ben preparato, mantenere la vocalità agile e fresca. Per questo devi prima imparare bene a legare, che è la salute della voce. Se no, devi rassegnarti ad essere un buffo parlante”. Ecco dunque l’importanza di avere in pratica prima i ruoli di baritono brillante o lirico, e di approdare agli altri in seguito. È alla mia età attuale, cioè una cinquantina d’anni, che è giusto affrontare questi ruoli; altrimenti la voce invecchia, si impigrisce e si impoverisce di armonici.

I miei ruoli sono stimolanti: si parte dalla commedia dell’arte e poi via via nel tempo i vari autori aggiungono tematiche umane e sociali, arricchiscono il genere, e allora faccio una vera e propria ricerca del giusto colore vocale da dare al personaggio. Gli ingredienti che ho sempre indagato sono l’accento e la giusta inflessione; ma anche lo studio del passo e della gestualità. A volte lavoro in modo quasi ossessivo per arrivare alla definizione dei miei personaggi !

Essere di Napoli ti ha aiutato, no?

È chiaro che affinché questo mio approccio sia apprezzato completamente ci vuole una conoscenza almeno minima della nostra lingua, per poterne cogliere le sfumature e le inflessioni; ci vogliono almeno le radici latine, ed è per questo che la mia presenza nei paesi anglosassoni, per fare un esempio, si è limitata un po’… A Londra vogliono attori molto caricati più che cantanti. La concezione del “buffo”, in certi paesi, tarda ad aggiornarsi, non si stacca dallo stereotipo caricaturale e senescente. Sono invece personaggi totalmente lucidi, a un punto tale che diventano anche cinici, e poi si umanizzano nel prosieguo della storia. Se Don Bartolo fosse un vecchio rimbambito, Figaro vedrebbe ridimensionata la sua abilità a scapito della commedia. Indubbiamente la mia “napoletanità” (da non confondere con la “napoletanitudine”) mi ha aiutato non poco: grazie ai 27 anni che ho trascorso nel centro di Napoli ho potuto osservare moltissime scene “teatrali” spontanee che – come diceva il povero Troisi – arricchiscono molto il repertorio di un attore.

Che cosa pensi della specializzazione?

Qui vorrei fare un’osservazione che può anche essere un consiglio ai colleghi più giovani: in tutti i campi dello scibile si è andata consolidando l’idea della superspecializzazione. Concetto validissimo, ma anche nella medicina, per esempio, si assiste a un’esasperazionein questo senso: in cardiologia ci può essere uno specialista che sa tutto delle valvole cardiache e magari trascura un argomento basilare nel settore della medicina interna. Così nel canto: a volte un’eccessiva tendenza alla specializzazione ha portato a limitazioni nello sviluppo della vocalità di tanti interpreti, che non hanno potuto cimentarsi in repertori diversi. Penso che tanti cantanti che si sono dedicati in toto alla Rossini-Renaissance rischiano di vedere limitate le proprie possibilità di crescita vocale e tecnica, non praticando altro repertorio. Credo perciò che occorra ponderatezza nell’approccio al repertorio: altrimenti ci troviamo a disporre di molti interpreti del belcanto, ma pochi adeguati al repertorio più moderno. Se ascoltiamo i grandi del passato, notiamo che un grande Rigoletto poteva essere e potrebbe essere ancora oggi un grande Figaro, e lo stesso vale per le altre categorie vocali.

Questa tua convinzione che cosa ti spinge a cantare?

Intendo ampliare ancora di più gli orizzonti del mio repertorio – pur considerando il genere buffo l’abito su misura per me... E allora Michonnet, Gianni Schicchi e Kyoto di Iris sono i prossimi ruoli che ho scelto di interpretare; d’altronde il bello del nostro lavoro – anzi, della nostra arte – sta proprio nella continua ricerca e/o nel costante riapprofondimento di ciò che si è già eseguito, ma si vuole riproporre arricchito o almeno aggiornato.

Ieri sera cantavi Trombonok e mi sembravi quello stesso baritono che ascoltai a casa Bruscantini poco dopo il tuo debutto! Come spieghi la tua longevità vocale ?

Qualcuno mi ha detto che io apparterrei a una sorta di specie protetta, dato che faccio questo lavoro da più di trent’anni e sono nel pieno della maturità vocale e artistica. Non ci sono segreti particolari per questa longevità: solamente studio incessante e attenta amministrazione delle proprie risorse. E, ripeto, qualche sana rinuncia al momento giusto.

E tu che cosa fai per i giovani?

A volte, quando posso, mi dedico a una master class. Sono convinto che l’artista di oggi dovrebbe avere cura di ritagliarsi, nel corso della stagione, un piccolo spazio, un angolo del calendario da riservare all’attività didattica. È ovvio che deve avere una capacità comunicativa adeguata. Ho avuto il piacere di tenere master classes in Italia e all’estero, l'ultima a Liegi, subito dopo Il viaggio a Reims di Amsterdam. Nei colleghi giovani ho trovato sempre la voglia di apprendere segreti del mestiere; se li trasmettiamo noi, che siamo nel pieno dell’attività, riusciamo a farlo con la “tonicità” giusta e ci possono valutare in pieno; magari ci ritroviamo nello stesso cast il mese dopo, o comunque ci ascoltano e vedono in teatro. Questo mi sembra molto importante: al di là del proliferare – a volte insensato – di accademie che dovrebbero farsi carico di formare professionalmente i giovani in modo adeguato, c’è bisogno che noi, scesi dalle tavole del palcoscenico, ci rendiamo disponibili a ridurre quell’anacronistico “gap” che c’è tra noi artisti esperti e “consumati” e i nostri più giovani colleghi. Loro non hanno avuto, come noi, la fortuna di stare a contatto, visivo e non, con i grandi artisti d’opera del passato. Dunque credo che trasmettere ciò che i nostri Maestri ci hanno insegnato sia doveroso e anche gratificante. Me lo raccomandava anche Sesto Bruscantini…..