di Stefano Ceccarelli
L’attesissimo concerto d’apertura della nuova stagione (2015/2016) dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia vede protagonista la partitura delle partiture, la più celebre – forse – di tutti i tempi: la Nona sinfonia in re minore di Ludwig van Beethoven. Al michelangiolesco affresco beethoveniano è premessa una nuova composizione di Luca Francesconi, Bread, Water and Salt, perfettamente in linea con l’idea portante scelta per l’esecuzione del completo ciclo sinfonico beethoveniano da parte di Pappano: affiancare alle sinfonie del genio di Bonn brani di suoi contemporanei (Spontini e Cherubini) e di nostri contemporanei, i compositori Francesconi, Nieder e Sollima. Il concerto è un autentico successo.
ROMA, 6 ottobre 2015 – «La straripante umanità, che infrange i limiti abituali della Sinfonia, sgorga da un’anima che, ebbra di libertà, si feriva per un ironico destino alle sbarre dorate dell’amicizia ingenerosa dei grandi». Monsieur Croche aveva trovato, scrivendo a quasi un secolo di distanza dalla première del capolavoro beethoveniano, le parole perfette per descrivere l’autentico sentimento, umano e divino al contempo, che spontaneamente tutti noi percepiamo all’ascolto della Nona. Ah… Croche altri non era che Debussy!
Proprio la «straripante umanità» è il fil rouge di questo ciclo di sinfonie beethoveniane, con cui apre la nuova stagione dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Un mese di musica raffinatissima, scoglio di ogni direttore che sia degno di questo nome. Antonio Pappano ci propone di immergerci in questo aureo mare di perfezione musicale, di capolavori inarrivabili: le nove sinfonie di Ludwig van Beethoven, di bellezza oramai proverbiale. E lo fa evitando, più che saggiamente, l’ordine cronologico di opus: tutti oggi hanno in casa una raccolta del completo ciclo beethoveniano, né è così difficile trovarne di ottime edizioni persino sugli scaffali di un supermercato… A che pro procedere, per così dire scontatamente, dall’alfa all’omega? E come fare, allora? Persino l’accoppiamento di talune sinfonie è oramai, nella prassi concertistica, inflazionato. Pappano voleva creare qualcosa di novum: indi le commissioni di nuove opere da affiancare alle sinfonie, o l’utilizzo di musica di contemporanei di Beethoven. Ebbene, à rebours, dunque: si parta dall’omega, dal capolavoro insuperato. Ma ecco un’altra scelta affatto attendibile. La novità vera risiede nel cavalier che accompagna la Nona: la commissione che l’Accademia ha espressamente affidato a Luca Francesconi.
Al solito, il maestro Pappano, in apertura, si dedica a spendere poche ma efficaci parole sulla composizione, Bread, Water and Salt: la neonata partitura si basa su un testo – anzi su un collage di testi, o meglio espressioni, frasi – di Nelson Mandela, possiede un potente impatto ritmico, all’interno del quale non si stenterà a riconoscere un profondo feeling con l’Africa, che riesce a stemperarsi anche in momenti epici, addirittura lirici. Il racconto della gestazione della composizione è tutto nell’intervista che R. Belgiojoso fa a Franceschini, contenuta nel programma di sala, dove il milanese non mistifica l’aiuto e i suggerimenti ricevuti da Pappano. La partitura è felicemente riuscita, commovente e azzeccata. Per più ragioni. I testi di Mandela, frasi scelte da momenti diversi della sua vita – tanto che Francesconi dichiarerà di aver «pensato di costruire una specie di microstoria di Mandela, dagli inizi fino a quando è diventato presidente» – ben rendono l’idea di frammentazione che impernia l’intera partitura, interamente giocata sulla commistione di poliritmia africana con musica occidentale. La musa solista di Francesconi, il soprano Pumeza Matshikiza, impreziosisce l’esecuzione con la sua voce tornita, profonda, ma allo stesso tempo potente, e con la sua intensa, commossa interpretazione di un testo che ha interpolazioni nella sua lingua natia, il Xhosa. L’intera partitura è un polittico, un insieme, appunto, di elementi che mantengono un aspetto frammentato. Incardinate su un moto perpetuodi africana poliritmia s’intrecciano le voci del coro e di Matshikiza: un moto tormentato, ansimante, inesorabile. Un sound tribale non fa che concorrere a creare un’ouverture sonora spettrale; e il frequente trapassare da un’emissione piena a una quasi parlata della Matshikiza non fa che acuire, nel pubblico, l’esperienza di un tormento tutto umano. Poi un intermezzo trasognato (con ostinati di clarinetto ribattuto dal pianoforte) conduce a una sezione dal gusto più occidentale. Francesconi si sta ‘beethovenizzando’. Il tutto si traduce in un crescendo sempre più intenso, che culmina nel corale «Free at last! Free at last!», perfetto pendant dello schilleriano della Nona – la parola Freedom risuona nell’affresco africaneggiante di Francesconi: la stessa Freiheit che Bernstein sostituì a Freude nella memorabile esecuzione che della Nona diede a seguito della caduta del muro di Berlino (1989). Il tutto si chiude ancora in atmosfere liriche, scosse dal secco colpo finale. Gli applausi sono calorosi e mostrano di aver ben compreso lo sforzo di Francesconi: far arrivare il messaggio di quanto sia periclitante la vita umana in tanta parte del mondo. Il coro e la Matshikiza vengono, a ragione, omaggiati calorosamente.
Eccolo il fil rouge che lega anche la partitura di Francesconi a Beethoven: la debussiana «straripante umanità», quell’umanità capace di farci commuovere alle ingiuste sofferenze che Mandela patì per sé stesso e per un popolo che lui incarnava, rappresentava, per la libertà del quale passo buona parte della vita fra le castranti pareti di un carcere. La Nona sinfonia in re minore per orchestra, soli e coro op. 125 di Ludwig van Beethoven è il necessario coronamento catartico dopo Bread, Water and Salt: e lo scarto, in fin dei conti, non si sente neanche, corroborando l’opinione di Wagner: «la musica di Beethoven sarà compresa in ogni tempo». Un Beethoven – e ancora ci soccorre l’acume immenso di Debussy – che creò, forse, la Nona anche come «un più smisurato gesto d’orgoglio musicale». E nelle trame di questo mastodontico, estremo gesto di un genio giustamente orgoglioso, Pappano deve mettere le mani: il compito è titanico, il confronto col passato stringente e ineludibile. E Pappano lo risolve con nonchalance. Dirige come la dirigerebbe Pappano e nessun altro: eppure, talvolta, è possibile riconoscere qualche fonte d’ispirazione – o, perlomeno, così m’è sembrato. Fonti che certamente non contemplano un gusto tutto indugiante, una direzione col guanto di velluto, a tratti gentilmente larmoyant (mai, peraltro, stucchevolmente), di un Bernstein o, per alcuni versi, di un Abbado. La sua è una resa sonora molto decisa, una pennellata vangogghiana, fatta di tante micro-giustapposizioni di piani e compartimenti orchestrali: lui stesso ha dichiarato di voler lavorare con le «proporzioni di ogni pezzo» e di tendere verso un’ideale «combinazione di assoluto rigore e partecipe lirismo», non rinunciando a «sottolineare certe sfumature più sottili, per le quali lavorerò sui colori». L’incipit, l’enigmatico accordo in vapore su cui baluginano figurazioni strumentali degli archi, l’attacca con la compassata energia di un Toscanini; ma non continua per quel sentiero di rutilante energia cinetico-musicale. No: s’ingentilisce, riflette maggiormente. (Peccato, peraltro, che proprio l’incipit sia stato turbato da un’emissione poco gentile fra i legni). In questo primo movimento, l’Allegro ma non troppo,non manca di scolpire un bassorilievo, un fregio continuo descrivente i temi principali giocanti variamente con la forma sonata: siamo ora sotto il nume di Karajan. Il tutto trova condegna conclusione nell’esplosione finale, un fortunale in coda, preannunciato dai timpani, strumenti cui Pappano tributa un’attenzione incredibile, quasi inusitata. Nell’Allegro Pappano si assesta, dopo una partitura agli antipodi come Bread. Dal Presto in poi, Pappano e l’orchestra saranno una cosa sola. Il suo sentire è qui agogicamente sostenuto: nel secondo movimento stupisce il vibrante nitore sonoro degli archi, nei loro giochi frammentati, come nei crescendo: i giochi volumetrici dei suoni sposati a un limpido, cristallino incedere, fanno del Presto un autentico capolavoro di direzione – e com’è attraente il Trio, con quei corni amalgamati magnificamente ai legni. Una piccola pausa, poi l’Adagio: il movimento, a mio avviso, più enigmatico della partitura – «anche ammettendo che vi sia qualcosa di misterioso in questa Sinfonia e che sarebbe forse possibile chiarirlo, che utilità se ne potrebbe trarre?» argomentava assai intelligentemente lo pseudo-Croche. Un moto perpetuo di calda e placida musica, perfetta. Troppo perfetta, tanto da sembrar disperata. (Non so perché, ma ogni volta che l’ascolto mi salgono le lacrime: ma non sono lacrime di gioia. Quasi percepisco l’anelito di Beethoven completamente sordo a suggere qualche vibrazione opaca di queste note. Ci ha regalato un paradiso di suoni che non ha mai fisicamente ascoltato). Pappano interpreta questo delicato brano – calcarlo troppo è male, farlo scorrere liscio è peggio – scegliendo ancora la via karajanniana del fregio degli archi che si muovono da soli, vanno avanti a dipanare la melodia. Tutto il resto è una galassia d’effetti attorno al nòcciolo principale. Ma non si ferma mai a riflettere, come de Sabata: è una direzione d’affetto, di pancia. Dunque giungiamo al tanto atteso e rivoluzionario finale, figlio primogenito di quella Missa Solemnis con cui condivise il palcoscenico alla première viennese del 1824. Pappano sceglie la via più energica e incisiva per introdurlo, passando al successivo crescendo,così rossiniano, eppur così trasfigurato, iniziante dagli archi bassi e procedente per compagini strumentali vieppiù leggere. Il corale, infine. L’entrata di Michael Volle, dalla voce piena e duttile, brunita il giusto, è imperioso e speranzoso al contempo: che non sia perfetta la coordinazione con l’orchestra poco importa, perché c’è pathos e sentimento. Il coro entra vigoroso («Freude, schöner Götterfunken»), energico, il migliore di Roma: la performance assume i tratti catartici di un’esperienza assoluta. L’orchestra, la migliore d’Italia, è in stato di grazia. Nel quartetto successivo Adriana di Paola, dalla limpida voce mezzosopranile, si distingue positivamente assieme a Volle; a tratti troppo metallicamente intubata il soprano Rachel Willis-Sørensen, come pure troppo tagliente è l’emissione del tenore Stuart Skelton, che appare lievemente contratto nella turchesca – ambedue avevano già preso parte all’esecuzione degli ultimi due movimenti della Nona che Pappano abbinò al Prigioniero di Dallapiccola. Crescente la catarsi invade la sala: il coinvolgimento del pubblico è palpabile, respirabile: l’utopico empireo di Beethoven conquide, ora e sempre. La splendida esecuzione del finale ne suggella degnamente la bellezza. Un fiume in piena di applausi straripa. Peccato che il messaggio di Beethoven, a distanza di quasi duecento anni, continui a rimanere una semplice, dolce utopia.