L'eredità di nonno Gianandrea

  di Andrea R. G. Pedrotti

 

Nel 2016 si ricordano i vent'anni dalla scomparsa di Gianandrea Gavazzeni (25 luglio 1909 - 5 febbraio 1996). Pubblichiamo un ritratto del maestro da dietro le quinte attraverso i ricordi del nipote Paolo.

Qual è il primo ricordo di suo nonno che le piacerebbe condividere con noi?

Il primo ricordo che ho di lui da bambino è nella nostra casa a Baveno sul Lago (Lago Maggiore), dove andavamo nel mese di settembre. Era l'abitazione dove il nonno trascorreva le sue estati, da giugno fino al termine della stagione. Era sempre immerso nel suo studio: suonava il pianoforte al mattino e approfondiva le partiture durante il giorno. Da bambino, era proprio questo: usciva dallo studio e si pranzava tutti assieme all'una. Arrivava da noi indossando una giacca di lino blu. Non amava i bambini, quindi i primi dialoghi avvennero quando compii 13-14 anni, non prima.

Suonava ogni mattino il Clavicembalo ben temperato di Bach, che definiva “la mia medicina quotidiana”. Negli ultimi anni sviluppò una passione anche per Max Reger e per le sue composizioni pianistiche.

Parlava del suo lavoro?

Riguardo il lavoro parlava di ciò che lo interessava e appassionava, delle opere liriche, della sua esperienza musicale e di interprete, ma mai di se stesso come direttore d'orchestra. Non era mai “egoriferito”.

Amava molto ascoltare gli altri e aveva la grande dote di saper mettere chiunque a proprio agio.

Come ricorda il famoso temperamento di suo nonno nel quotidiano?

Nella vita privata era una persona molto mite e molto rispettosa degli altri. Sul podio, durante le prove, ha dato sicuramente segni di ira e di gran temperamento. Io non vidi personalmente tutto questo perché seguii attivamente il nonno solo per i suoi ultimi dieci anni di carriera, quando era già anziano. Vidi delle scenate, perché capita spesso che un direttore possa perdere il controllo per qualsiasi motivo, ma non ho ricordi dei suoi anni ruggenti, quelli in cui lanciava telefoni. Mi hanno detto che, nei pressi del podio della Scala, si trovava un telefono per comunicare con il palcoscenico e pare che ne abbia sradicati a decine, fracassandoli dopo averli gettati a terra. Sicuramente in quegli anni era molto temperamentoso ed espansivo, mentre, verso la fine, probabilmente anche a causa della sua età, era meno iracondo.

Che rapporto aveva con i grandi artisti con cui collaborò?

Non celebrava mai se stesso, come ho già detto. Aveva una grande ammirazione per un'artista come Maria Callas, con la quale collaborò in numerosi titoli come Fedora, Un ballo in maschera, Il Turco in Italia, Anna Bolena. Mi raccontava che ogni volta che doveva farle un commento o un'osservazione musicale, prestava molta attenzione, proprio per l'acume della Callas, grandissima artista, studiosa e molto severa con se stessa. Non si poteva assolutamente correggere casualmente, perché tutto quello che portava in sala era frutto di una grandissima intelligenzamusicale e studio approfondito. Oltre a lei, il nonno ha conosciuto molti nomi dell'età d'oro della lirica, come Giulietta Simionato, Fiorenza Cossotto, Giuseppe Di Stefano, Franco Corelli, o il giovane Luciano Pavarotti. Erano tutti grandi artisti, ma anche grandi personaggi che avevano molto da dire anche oltre la professione, per la loro vita, le loro storie, etc... Raccontava molto piacevolmente la severa tenacia della Cossotto, o di quando la Simionato gli raccontò di aver cominciato a vivere dopo il suo ritiro dalle scene.

Ricordo le opere che diresse negli ultimi anni, ma – particolarmente- la sua Fedora alla Scala, che mancava dal Piermarini da molto tempo, sempre con la sua bacchetta. Diresse quest'opera con Maria Callas e, molti anni dopo, con Mirella Freni.

Dopo pranzo si stava nel salotto a chiacchierare e lui suonava Fedora al pianoforte in maniera meravigliosa, raccontandoci le sue direzioni con queste grandi artiste. Anche la Freni rammenta sempre le prove di sala del nonno, che vengono ricordate da molti artisti come miniere d'oro musicali e interpretative. Mirella dice sempre: “io devo quest'opera solo a Gianandrea Gavazzeni, perché lui me l'ha insegnata”. Secondo il nonno Fedora comincia con il sentore che vi sia qualcosa di diverso prima del principio e che questo sia già cominciato.

Come si rapportava con gli spazi e il personale con cui doveva lavorare?

Aveva una grande passione per il suo lavoro e, ovviamente, non poteva fare a meno di prestare attenzione alle caratteristiche dello spazio dove si trovava.

Era un uomo molto attento alla vita del teatro in senso generale, una persona molto curiosa e, forse, un po' pettegola, masempre con grande signorilità. Voleva esser sempre informato non solo sulla vita professionale delle persone con cui lavorava, ma anche riguardo quella privata, nelle sue varie sfaccettature e vicissitudini. Conosceva vita, morte e miracoli di tutte le persone in teatro, ma solo per il gusto di essere informato.

E il rapporto con la musica? In un'epoca di rinascite filologiche, qual era la sua posizione?

Il nonno fu definito il “tagliator cortese”. La sua Anna Bolena alla Scala, per esempio, era piena di tagli e non si potrebbero più fare determinate operazioni, ma, nel suo intendimento, erano finalizzati a rendere le opere più fruibili e di maggior circolazione. Anna Bolena, infatti, anche grazie a un'interprete come Maria Callas e allo splendido spettacolo di Luchino Visconti, ricominciò a circolare proprio dopo quella produzione.

Spesso, in opere di Rossini e Donizetti, inseriva altre sinfonie degli stessi compositori. Aveva interamente ristrumentato una parte sinfonica di L'amico Fritz di Mascagni, assegnando una parte ai violini, anziché ai tromboni, reputando troppo greve la scrittura originale. Aveva l'autorità per fare tutto questo, in merito alla grande conoscenza del testo e della musica: era una persona riconosciuta e rispettata per delle scelte mai isteriche, ma sempre ragionate.

Era, comunque, un'altra epoca; oggi c'è quasi una mania per la filologia e la storiografia, forse per ridare valore, creare interesse e notizia. All'epoca fiorirono molte rinascite ed era consentito compiere delle scelte, che oggi non sarebbero più giustificabili, considerato che determinati titoli sono ormai entrati nei circuiti.

Era anche compositore.

Per un suo anniversario, con l'Accademia della Scala, abbiamo eseguito brani dal balletto del nonno Il Furioso all'isola di San Domingo - ovviamente una citazione donizettiana - e la sua era una musica molto immediata, di facile ascolto. Ha scritto anche diverse romanze per soprano, sia con pianoforte sia con orchestra.

Il rapporto con la sua città natale, Bergamo?

Ha amato moltissimo Bergamo, con gran sincerità e spontaneità. Aveva quasi un bisogno di passeggiare per città alta: non è mai stato un carrierista, nella sua vita ha sempre avuto la fortuna di aver la possibilità di scegliere. Non ha mai lavorato per necessità, perché diventò famoso molto celermente, infatti cominciò a dirigere alla Scala a soli 36 anni. Ovviamente, in principio, la carriera è dura per tutti e ha fatto la sua gavetta, ma la sua ascesa è stata piuttosto veloce.

Non avrebbe mai rinunciato ai mesi di vacanza sul lago. Per esempio si rifiutò sempre di dirigere in Giappone, nonostante gli inviti. Non è mai stato attratto dall'Oriente. Quando si allontanò dalla Scala, negli anni sessanta, gli venne fatta una grande offerta dall'America, ma avrebbe dovuto concedere sei mesi della sua vita a un altro continente e non accettò nella maniera più assoluta. Amava i teatri degli Stati Uniti, ma non avrebbe mai rinunciato al Natale a Bergamo.

Era anche un tifoso dell'Atalanta.

Non lo si poteva definire propriamente un tifoso, ma da persona estremamente curiosa si interessava e seguiva il calcio. Non aveva una competenza tecnica, ma lo interessava – credo - il costume del tifoso nel senso sociologico del termine. A casa nostra sono passati molti calciatori e allenatori: ricordo una sua simpatia per Emiliano Mondonico.

Che cosa ricorda dei suoi viaggi?

Ricordo una tournée in Argentina con la Filarmonica della Scala dove portò la sinfonia di César Franck in re minore, un concerto mozartiano per pianoforte con Ingrid Haebler, il Paulus di Mendelssohn in Ungheria e un meraviglioso viaggio a Mosca per Adriana Lecouvreur al Bolshoi.

Come si rapportava con i luoghi e le persone che incontrava?

Il nonno simpatizzava per i deboli: a Mosca avevamo un autista di nome Anatoli e lui ci diceva sempre: “ma quanto guida bene Anatoli” e noi “certo, è il suo mestiere.” Un giorno pioveva e ci fece notare: “ma quanto guida bene Anatoli con la pioggia!”

Rimanemmo a Mosca, io, il nonno e i miei due cugini, per venti giorni e prima di partire ci ordinò: “date tutti i soldi che avete in tasca ad Anatoli!” L'autista quasi svenne dalla commozione: era il 1989.

Quando andammo in Argentina, invece, ci spostammo, per salutarlo, dall'Economy (dove viaggiavamo noi), alla Business Class, dove aveva il suo posto. Il viaggio era molto lungo e gli consigliammo di abbassare lo schienale, ma lui rispose: “non posso, mi spiace per chi sta dietro”.

Al termine del viaggio era brillantissimo anche alla conferenza stampa e non capivamo come facesse.

Dopo pranzo aveva bisogno di fare una passeggiata e quando alcune persone lo salutavano ricordando un vecchio incontro, il nonno rispondeva cortese, si toglieva il cappello e cominciava a citare perfettamente tutta la vita del suo interlocutore che magari aveva conosciuto nel 1964, quando si fermò a Buenos Aires per due mesi. Aveva una memoria da elefante e ci redarguì perché eravamo stati a pranzo con una persona di cui non rammentavamo il cognome; il nonno si innervosì e ci disse: “questi giovani d'oggi non hanno memoria!” Era molto simpatico in questo, anche quando cercava di parlare spagnolo, convinto che fosse sufficiente aggiungere una “s” a ogni parola.

Quali autori e quali generi ha amato di più?

La sua maggiore attenzione era verso il melodramma, tuttavia era un grande conoscitore di Bruckner (che non diresse molto), o Musorgsky (di cui ha anche scritto), ma i suoi compositori preferiti credo fossero Donizetti, Puccini e Verdi. Puccini aveva bisogno di essere difeso, perché molti movimenti intellettuali degli anni Sessanta e Settanta disprezzavano la sua musica. Per il nonno la musica di Puccini era la più vera. Ricordava sempre il “parlato pucciniano”, il “parlato sulla musica”, prima delle grandi scene liriche, come accade neLa Bohème. Amava questo descrivere i personaggi in maniera vera, giusta e umana e profonda. Si scagliava contro chi definiva La Bohème “musicaccia”.

Gli dettero addirittura del fascista a causa della sua passione per Puccini e Mascagni, perché erano considerati musicisti “da regime”.

Ebbe il gran rammarico di non aver più potuto dirigere Manon Lescaut alla Scala. Apprezzava molto anche La fanciulla del West o l'orchestrazione della Rondine.

Un grande amante della comunicazione e dei significati.

Amava certamente la comunicativa e l'effetto sul pubblico. Raccontava sempre la sua discussione con Toscanini, che aveva molte perplessità sulla tragicità degli ultimi accordi de La Bohème, e diceva “in fondo muore solo una fioraia”, ma il nonno rispose “è solo una fioraia, ma crolla tutto il mondo di Rodolfo”. Puccini, secondo lui, raccontava storie semplici, ma solo le anime semplici sono capaci di soffrire grandi drammi. Discorso simile per Cavalleria Rusticana: come ricorda anche il maestro Muti, l'opera di Mascagni è una freccia che viene scagliata la mattina e corre dall'alba al tramonto in modo incredibile.

Apprezzava anche Catalani, ma di Puccini, curiosamente, non amava Tosca, perché affermava di non esser mai riuscito a decifrarla al meglio. Adorava, al contrario, il Tabarro, che riteneva un titolo precursore dei gialli, del genere noir, etc… lo affascinavano le tinte pittoriche di quest'opera.

Di Verdi apprezzava il Simon Boccanegra, perché, dai primi accordi, gli sembrava di ammirare il mare increspato di Genova. Collegava molto le immagini visive alla musica. Cercava sempre di dare un inquadramento storiografico, musicologico, etc…, intrattenendo l'orchestra per 30\40 minuti. Non voleva che alle letture o alle prove di sala ci fosse alcuno oltre ai cantanti. Noi potevamo andare, invece, alle prove d'insieme.

Una persona di carattere, ma molto rispettosa, quindi?

Era una persona davvero preparata e la sua irascibilità era legata a dei momenti particolari. Oggi alcuni insulti non sarebbero più tollerabili. Anche Toscanini, tuttavia, lanciava le bacchette. Nella vita era un uomo molto mite e rispettoso: fin troppo. Anche i professori che venivano maltrattati lo rispettavano molto, perché sapevano che la sua irascibilità cominciava e finiva lì.

Che cosa ricorda dell'ultimissimo periodo? Qual era suo rapporto con il progresso.

L'ultima opera che diresse fu L'aviatore Dro' di Balilla Pratella a Lugo di Romagna, proseguendo il lavoro fino a venti giorni prima di morire. Credo fosse molto provato e affaticato.

Amava il movimento dei futuristi, corrente consona alla sua curiosità poiché abbracciava l'arte a 360°, ma odiava il progresso e la tecnologia.

Ricordo che fummo costretti a sostituire a casa il vecchio portone con uno più moderno e automatico. Il nonno, per rappresaglia, si rifiutò di uscire di casa per quindici giorni. Fu una tragedia quando si passò dal vecchio telefono a rotella a quello a tasti, perché voleva continuare a compiere il gesto di prima. Sì, in realtà detestava l'innovazione.

Non sopportava il termine “ristrutturazione”: una volta doveva dirigere un concerto alla Fenice e il nonno amava andare, quando era a Venezia, all'Hotel “Luna”. Noi arrivammo la sera, per l'ora di cena, e già si pregustava il pasto nel ristorante dell'albergo, che sfortunatamente era chiuso per ristrutturazione. Se la prese molto e disse in portineria che era inutile che ristrutturassero qualunque cosa, tanto Venezia sarebbe finita sott'acqua di lì a poco. Era molto simpatico e diceva esplicitamente: “io odio la parola ristrutturazione!”

Che cosa vi diceva riguardo il suo ricordo?

Ci diceva sempre che non avrebbe voluto celebrazioni, dopo la morte, perché gli artisti vanno onorati in vita. Il ricordo deve essere spontaneo, secondo lui.

Credo fosse con Goffredo Petrassi, quando passò davanti alla casa natale di Donizetti e, quando il compositore gli domandò: “chissà che cosa scriveranno sulle nostre case”, lui rispose: “affittasi!”.

Ricordo come il baritono Mario Cassi mi raccontò di averlo incontrato a Firenze e alla domanda: “Maestro, dove potremo riascoltarla prossimamente?” e si sentì rispondere: “Al campo santo!”

Quale eredità pensa le abbia lasciato?

Mi ha lasciato in eredità una passione e un amore per il teatro, senza alcun fine carrieristico, rispettando tutti, a tutti i livelli. È un sentire sincero e non ruffiano. Se non c'è partecipazione e unità non si produce nulla di buono.

Di tutto quello che mi ha trasmesso, la cosa più importante è proprio l'amore per il teatro.

Grazie al M° Paolo Gavazzeni