Sette storie non valgono un Siegfried

di Giuseppe Guggino

Lasciato sospeso a metà il Ring wagneriano nel nuovo allestimento di Graham Vick, il previsto Siegfried viene sostituito da una nuova versione dell'opera Sette storie per lasciare il mondo di Marco Betta. Un'operazione velleitaria e deludente sia nella musica sia nella drammaturgia da "antimafia prêt-à-porter".

PALERMO, 26 ottobre 2013 - La ricezione di una nuova opera musicale da parte del pubblico o da parte di chi deve riferirne è sempre cosa delicata, spinosa, giacché il primo ascolto tende a sollecitare la sfera sensoriale più istintiva a discapito di quella critica e analitica. Famoso in tal senso è il giudizio tranchant che l’aneddotica rossiniana tramanda a proposito del Lohengrin, ossia, più o meno: «ci vorrebbe un secondo ascolto per esprimere un giudizio, ma non intendo minimamente farlo»; e ugualmente gustosa e feroce è la stroncatura che Pannain fece delle deliziose Variazioni sopra un tema gioviale di Nino Rota. Ma siccome chi scrive non ha neanche lontanamente l’autorevolezza di Pannain (però anche la musica di cui si scrive dista parecchio da quella di Rota se non altro perché, ad esempio, pare non riuscire a partorire per l’arpa qualcosa di più che un eterno pizzicare alternato di suoni a intervalli d’ottava, mentre Rota qualche bel pezzo articolato per arpa concertante l’ha lasciato), è saggio limitarsi ad una descrizione oggettiva e circostanziata di Sette storie per lasciare il mondo, opera per musica e film di Marco Betta e Roberto Andò, andata in scena al Teatro Massimo di Palermo in prima esecuzione (ma non primissima, visto che lo stesso testo era stato commissionato con fondi comunitari POR nel 2006 e già eseguito al Bellini di Catania - per scaricare il libretto catanese, rimasto pressoché invariato link1 e link2) dal 24 al 27 ottobre scorsi, sostituendo il previsto Siegfried di Wagner con la regia di Graham Vick. Si tratta di un lavoro di difficile connotazione formale che, attraverso un’ouverture e sette “movimenti”, affronta il tema della sparizione intenzionale ricorrendo a immagini fotografiche sul sonno di Ferndinando Scianna, a testi volutamente sconclusionati che arrivano a sovrapporre giornali radio, voci fuori campo di psicanalisti, interviste a persone comuni chiamate a rispondere sul perché, a parer loro, l’Apostolo “quella” notte si addormentò nel Getsemani (ed è meglio tacere della levatura teologica delle risposte); il tutto costellato da proiezioni su un tulle in proscenio che lascia trasparire qualche elemento scenico di secondaria importanza. Ma questo linguaggio fatto di frammenti, epigrafi proiettate, citazioni di sure del Corano, cluster, registrazioni di rumori su nastro magnetico, costituisce una natura magmatica in costante avviluppamento senza che da essa si generi una narrazione vera e propria, nulla di valore semantico “conchiuso”; cosicché in questa “non” narrazione si accenna soltanto alla sparizione del fisico Ettore Majorana, del giornalista Mauro de Mauro, di una bambina palermitana scomparsa negli anni ’80 e di altre vicende neanche documentate dalla cronaca, immaginate così labilmente che è anche difficile distinguerle: alla fine non si è neanche certi di aver sentito parlare di sette sparizioni.

La musica di Betta in tutto ciò si muove con voluta discrezione, quasi con minimalismo, e infatti è persino troppo semplice descriverla, visto che è quasi perennemente identica a sé stessa; c’è sempre un tappeto sonoro costituito da una scala diatonica eternamente ripetuta oppure (meno frequentemente) un arpeggio a costituire una sorta di ostinato melodico sul quale, con altrettanta ripetitività, si alternano due suoni alternati affidati a legni o ottoni distanti un intervallo di seconda oppure un intervallo di quarta, oppure un’arpa che pizzica alternativamente suoni distanti un’ottava, oppure ancora un timpano che batte il tempo rigorosamente sulla stessa intonazione: un sottofondo da documentario filmico che ha come unico pregio quello di disturbare poco. Da questa concezione compositiva la nozione del ritmo è totalmente avulsa, giacché sia l’ostinato melodico, sia i due suoni che alternativamente vi si sovrappongono sono tutti esattamente della stessa durata e procedono con inscalfibile omoritmia; le uniche anomalie ritmiche di tutta la partitura si riscontrano nelle canzoni in cui è evidente la difficoltà di accordare la metrica del verso con il metro musicale, necessitando talvolta anche qualche intonazione sdrucciola di versi piani, cosa peraltro censurabile persino in una canzonetta da Sanremo. Infine, tra gli interludi descritti, si rileva la presenza di qualche ninna nanna (II mov.), di un valzerino sinistro (I mov.), di un inserto per archi di grande tensione in stile scuola di Wien in forte contrasto stilistico con tutto il resto (I mov.), di un ostinato per pianoforte stile “piano horror” da colonna sonora di Halloween (VI mov.) e di un’impennata da colonna sonora di fiction a tema mafioso da prima serata di Canale5, rigorosamente tonale ma con finale in dissoluzione armonica che fa molto "effetto suspence" (VII mov.). La realizzazione di questa opera per musica e film, o per meglio dire, film con colonna sonora eseguita dal vivo (a parte voci e rumori registrati) si avvaleva della direzione paziente di George Pehlivanian, della brava voce recitante di Donatella Finocchiaro, di qualche intervento corale vocalico à la Debussy invero poco intonato, di Gabriella Costa e Chiara Pavone chiamate a cantare per intervalli perlopiù congiunti su un’estensione estremamente contenuta, dei bravi lamentatori di Mussomeli e dei fratelli Mancuso che non fatichiamo a credere essere i polivalenti polistrumentisti annunciati dalla locandina ma che si sono limitati a cantare e battere il tamburello l’uno e suonare il mandolino l’altro. La parte visiva invece era assicurata dal consueto entourage di fiducia di Roberto Andò.

http://www.youtube.com/watch?v=ciTbMYQdnHs
Selezione dalla prima catanese (2006) e dalla versione palermitana (2013).

Parecchi i vuoti in sala (si riferisce della recita di sabato pomeriggio) nonostante sia stato deliberatamente negato il rimborso per i titoli di abbonamento a chi avrebbe francamente preferito assistere a Siegfried. Sarà per il richiamo delle belle foto di Scianna, e per tanti altri accostamenti non lineari, difficili da spiegare, ma mi piace immaginare che buona parte del pubblico assente abbia meglio impiegato 77 minuti del proprio tempo leggendo o rileggendo a casa “La scomparsa di Majorana” o “Il teatro della memoria” di Leonardo Sciascia, intellettuale di ben altra tempra morale e di diversa sostanza “conchiusa” come scriveva sovente, mutuando la parola da Savinio, rispetto alla poetica della nebulosa dei frammenti sconclusionati; e chissà cosa avrebbe scritto delle fastidiose proiezioni finali dedicate a Falcone, Borsellino, Impastato, Puglisi: tutte figure che con la fuga intenzionale dal mondo - tema dell’opera - c’entrano poco, a meno di non volere sposare la tesi disdicevole secondo cui «se la cercarono». Anche perché si fa presto a essere rivoluzionari civili con due videoproiezioni, quando si parte dalle logiche del salotto (aristocratico o nobiliare che sia), con l’intellighenzia cittadina schierata ad ammantare di chissà quali pretese qualcosa che non riesce neanche a “narrare”; e però questo professionismo antimafia prêt-à-porter non condona il ricorso alle logiche della vicinanza, dell’entourage, del clan, dell’appartenenza, dell’affiliazione: dinamiche ancor vive e tutte figlie della medesima impostazione culturale. Sette storie per lasciare il mondo, quindi, e con questa, otto.