jenufa a Palermo

Jenůfa per la prima volta in Italia nell'allestimento di Carsen

Al Teatro Massimo di Palermo Jenůfa

Il capolavoro del realismo slavo riletto dal grande regista Carsen

Domenica la prima, repliche fino al 2, sul podio il direttore musicale del Teatro Gabriele Ferro

L’opera manca dalle scene palermitane dal 1979

PALERMO. Il capolavoro del realismo slavo riletto dal grande regista Robert Carsen. Arriva in prima nazionale al Teatro Massimo di Palermo Jenůfa del compositore ceco Leóš Janáček nell’allestimento dell’Opera di Anversa. La prima, domenica 23 ottobre alle 20.30, repliche fino al 2 novembre. Sul podio c’è Gabriele Ferro, direttore musicale del Teatro Massimo. Un allestimento contemporaneo per un’opera di ambientazione popolare, composta tra il 1894 e il 1903, e rappresentata per la prima volta nel teatro di Brno il 21 gennaio del 1904 poiché precedentemente rifiutata dal direttore del Teatro Nazionale di Praga che non ne apprezzò il linguaggio moderno e le sonorità di stampo nazionale.

Il libretto è tratto dalla piéce teatrale Její pastorkyňa (La sua figliastra, 1890) di Gabriela Preissová, esponente di una certa importanza nel teatro cèco di fine secolo, ambientato nei villaggi lontani dai grossi centri. Il soggetto ricorda la nostra letteratura verista per l’ambientazione popolare e l’intensità delle situazioni. Jenůfa è una giovane donna prima promessa sposa a Števa, da cui aspetta un figlio, ma poi da questi rifiutata; per evitare uno scandalo la matrigna Kostelnička decide di uccidere il bambino e convincerla a sposare Laca, l’uomo che l'ha sfigurata per gelosia nonché fratellastro di Števa; quando, durante il matrimonio, viene scoperto l'infanticidio, Jenůfa trova la forza per perdonare la matrigna e iniziare una nuova vita insieme a Laca.

L’opera dopo la prima rappresentazione passò quasi in sordina fino a quando calcò le scene praghesi il 26 maggio 1916, ricevendo critiche estremamente positive. Dopo dodici anni dalla prima, Janáček ottenne il successo che gli spettava di diritto. In Italia venne rappresentata per la prima volta al Teatro La Fenice di Venezia, l’11 marzo del 1941. A Palermo è stata rappresentata una sola volta, nel 1979.

Carsen dal 1999 ha messo in scena più della metà delle opere composte da Janáček. In particolare Jenůfa, nel 2004, per l’Opera di Anversa. In una scena spoglia, dove il suolo in terra battuta ci parla con immediatezza della campagna in cui si svolge l’azione, dominano le grandi finestre e porte che fisicamente rappresentano il villaggio e che vengono spostate a comporre i vari ambienti dell’opera. Partendo dal fatto che la gravidanza di Jenůfa viene tenuta nascosta a tutti per mesi perché la matrigna rinchiude la ragazza in casa, Carsen ci mostra il voyeurismo degli abitanti: dalle finestre si vedono occhi che scrutano, dalle porte si affacciano curiosi, non esistono pareti solide ma solo aperture che possono da un momento all’altro cedere alla pressione esterna e rendere pubblico ciò che era privato.

Un’opera corale, in cui ai protagonisti si affiancano una moltitudine di personaggi secondari ma non per questo meno importanti, dal sindaco con moglie e figlia fino al pastorello analfabeta, che nella regia di Carsen ricevono ciascuno la giusta attenzione. Elemento fondamentale è poi l’acqua: l’acqua gelida del fiume in cui Kostelnička va a gettare il bambino per permettere alla figliastra di sfuggire alla vergogna e alla riprovazione del villaggio e consentirle di sposare Laca che ne è innamorato, il ghiaccio che restituirà il cadaverino proprio durante le nozze di Jenůfa, ma anche la pioggia dorata redentrice che in ultimo abbraccia la coppia dopo tante sofferenze: il ghiaccio si è definitivamente sciolto, l’acqua è di nuovo simbolo di vita, della nuova vita di Laca e Jenůfa.

Jenůfa o, più correttamente, Její pastorkyňa (La sua figliastra) è la terza opera di Janáček. La stesura della partitura avvenne in un periodo difficile per il compositore che dovette superare la prematura morte dei due figli (Vladimir morì nel 1890, Olga nel 1903); dopo anni di intenso lavoro e di studi, quello che ne risulta è un'opera che rappresenta la summa delle sue ricerche etnologiche e stilistiche. La novità della composizione sta nello stile musicale, che oltrepassa il modello del dramma wagneriano dei Leitmotive: infatti non troviamo più lo sviluppo di temi conduttori ma elaborazioni di semplici cellule, che ritornano all’interno dell’opera con delle continue variazioni, mai uguali. “Janáček studiò le inflessioni della lingua ceca, ricercandone la musicalità. Il nuovo linguaggio musicale che ne deriva è funzionale alla drammaturgia, poiché permette di mettere in luce la sonorità della sua lingua natìa e lo spessore psicologico dei personaggi che, attraverso le inflessioni del parlato, esternano sentimenti e mutamenti di stati d'animo. L’orchestra, assecondando le cadenze del parlato e sostenendo le voci, non fa da sfondo ai dialoghi ma diviene protagonista”, come scrive Silvia Augello nella sua introduzione all’opera.“Jenůfa è un’opera sospinta dal vento furioso di una musica tutta figurazioni discendenti o ruotanti su se stesse in modo implacabile, come se la musica mimasse lo stesso flusso inarrestabile della vita”, scrive Franco Pulcini nel programma di sala. Janáček abbandona la citazione diretta delle canzoni popolari e reinventa il folclore.

Jenůfa è per Janáček la fanciulla mite e buona, gentile e ubbidiente con gli anziani, la giovane istruita che insegna a leggere a un pastorello e che saprà essere, purtroppo per pochi giorni soltanto, una madre premurosa. Števa è un giovane sciocco, borioso e immaturo. Non è cattivo, ma semplicemente arido. Lo stereotipo di un vacuo galletto di paese. Kostelnička, la matrigna, è il personaggio più altamente tragico dell’opera, la vera protagonista in senso tradizionale. Nell’originale cèco infatti l’opera s’intitola Její pastorkyňa (La sua figliastra), un titolo che pone immediatamente la matrigna al centro dell’azione; il titolo Jenůfa si diffuse all’estero per la traduzione di Max Brod, il quale propose l’esotico nome della ragazza, più invitante per il pubblico di quello originale. Il carattere austero e altero di Kostelnička, la conoscenza che ha delle cattiverie del mondo la spingono a prendere su di sé il peccato della figliastra, ovviare con un delitto a ciò che la società avrebbe giudicato un peccato, ed espiare alla fine la sua colpa. L’uccisione del bambino, per la sua mentalità ristretta e bigotta, permeata di rettitudine dogmatica, è un gesto d’amore, un’azione a fin di bene, come spiega nella confessione pubblica del finale. “Il soggetto della ragazza madre – scrive ancora Pulcini - è scottante e originale. Scegliere per protagonista una giovane incinta, e farle inoltre sfigurare una guancia con un colpo di coltello, non ha precedenti operistici. Il dramma della donna sedotta e abbandonata in stato interessante alla mercé di una società ostile, quando non addirittura malvagia con chi esce dai suoi schemi, è una verità sociale imbarazzante anche e soprattutto per il pubblico dell’opera: la borghesia”. 

 


Jenůfa

Libretto e musica di Leóš Janáček

Opera in tre atti

Direttore: Gabriele Ferro
Regia: Robert Carsen
Scene e costumi: Patrick Kinmonth
Assistenti alla regia: Maria Lamont e Claudia Isabel Martin

Maestro del Coro: Piero Monti


Allestimento della Vlaamse Opera di Anversa

Starenka Buryjovka Gabriella Sborgi
Kostelnička Buryjovka Ángeles Blancas Gulín
Jenůfa Andrea Danková
Laca Klemeň Peter Berger
Števa Buryja Martin Šrejma
Stárek Italo Proferisce
Rychtar Luca Gallo
Rychtářka Valeria Tornatore
Karolka Maria Hilmes
Pastuchyňa Lorena Scarlata
Barena Daniela Denschlag
Jano Viktorija Bakan
TetkaNatasa Katai

Orchestra e Coro del Teatro Massimo

 


Jenůfa, la sua figliastra

di Franco Pulcini

Il ventennio della «sua figliastra»

Janáček aveva iniziato a scrivere l’opera La sua figliastra, nota in Occidente come Jenůfa, il 18 marzo 1894. L’ha portata a termine solo nel 1903, dopo nove anni di lavoro, pur non continuativo: la lunga genesi dell’opera si giustifica da un lato con l’intensa attività didattica, che lo costringeva a comporre solo la sera e le domeniche, e dall’altro con la sperimentazione di un linguaggio nuovo e originale, che veniva applicato tra continui dubbi, ripensamenti e mancanza di conferme. E parliamo di nove anni solo per giungere alla prima delle tre versioni conosciute, quella del 1903. Se si considerano anche i lustri in cui maturarono le altre due – del 1908, con la pubblicazione dello spartito, e del 1916 con la correzione dell’orchestrazione in collaborazione con Kovařovic – gli anni diventano ventidue.

Il periodo in cui fu scritto il capolavoro del realismo slavo venne funestato […] dalla peggiore delle disgrazie che possa capitare a un uomo: la morte di tutti i figli. Le date delle due morti (Vladimír 1890, Olga 1903) sembrano quasi incorniciare entro una luttuosa parentesi la stesura dell’opera. Scrisse il musicista: «Voglio legare Jenůfa con il nastro nero della lunga malattia, dei dolori e dei lamenti di mia figlia Olga e del piccolo Vladimír». Depose nella bara di Olga le pagine manoscritte della preghiera di Jenůfa nel second’atto, aggiungendovi: «e tuttavia io credo»1. Il dramma della morte del bambino di Jenůfa assomigliava a quello di sua moglie e suo: a loro il destino aveva portato via Vladimír. La moglie di Janáček racconterà in seguito che Olga, a cui l’opera fu dedicata, si dimostrava molto interessata a Jenůfa, chiedendo al padre di suonargliela al pianoforte, poiché ella intuiva che non avrebbe mai potuto ascoltarla. Non è difficile immaginare il suo stato d’animo in una simile situazione. Jenůfa è un capolavoro nato in un clima di dolore, edificato sullo studio e sull’approfondimento teorico. Psicologia, folclore, acustica, fonetica ed estetica hanno sinergicamente dotato lo stile del musicista di una nuova forza e di una nuova drammaticità. La favola bella di quest’opera criticata, maltrattata e rifiutata – per essere in seguito indicata come una pietra miliare della storia musicale e divenire infine l’opera per eccellenza della tradizione cèca, più della Sposa venduta di Smetana – è il capitolo saliente della biografia di Janáček. […] Anni di lavoro, fatiche, ansie, delusioni e aspettative disattese crearono grandi amarezze nel musicista, ripagate, dopo lustri di attesa, da soddisfazioni altrettanto grandi. Poche opere sono state così criticate e osteggiate prima, per essere sostenute e idolatrate poi; rifiutate per anni ostinatamente in patria e rappresentate improvvisamente in numerosi teatri europei.

[…]

Storicamente Jenůfa rappresenta lo spartiacque della carriera di Janáček, la creazione in cui viene messo a punto uno stile nuovo che segna la rivincita della cultura slava su quella occidentale. In quest’opera assistiamo a un superamento del sistema wagneriano dei Leitmotive, all’abbandono del contrappunto caro alla cultura tedesca, pur nell’indipendenza dall’Impressionismo di Debussy. Il musicista vi applica ampiamente i suoi studi sulle melodie parlate, questo nuovo tipo di recitativo operistico, che fotografa l’animo dei protagonisti, uscendo anche dagli stereotipi del recitativo accompagnato. Scriveva il musicista:

Quando componevo Jenůfa bevevo letteralmente la melodia delle parole [...] Provavo una gioia silenziosa dinnanzi alla bellezza di queste melodie, all’esattezza e alla forza della loro espressione. Vedevo molto più profondamente nell’animo dell’uomo con cui parlavo, attraverso la musica delle sue parole.2

[…]

La fonte letteraria

Gabriela Preissová (1862-1946), insieme a Ladislav Stroupežnický (1850-92), primo realista boemo, František Adolf Šubert (1849- 1915) e ai fratelli Mrstík, è esponente di una certa importanza nel teatro cèco di fine secolo d’ispirazione popolare, ambientato nei villaggi lontani dai grossi centri. Ella, sebbene boema di nascita, aveva vissuto con il marito a Hodonín, una cittadina ai confini tra la Moravia e la Slovacchia, in quella regione denominata Slovacchia morava, ove il cèco è molto ricco di inflessioni ed espressioni slovacche. La lontananza dalle città faceva di questa zona un terreno di ricerca folcloristica ideale: tradizioni antichissime, abitudini ataviche legate a riti arcaici, poetiche superstizioni, canti splendidi e costumi coloratissimi di sofisticata fattura.

La Preissová vi trascorse nove anni (1880-89), nel corso dei quali studiò le abitudini locali, che agli occhi dei cèchi occidentali parevano singolarmente esotiche. Ne trasse racconti, che vennero pubblicati su riviste, e in seguito raccolti in tre volumi intitolati Immagini della Slovacchia morava (1886-89). Uno di questi era divenuto il soggetto della seconda opera di Janáček Inizio di un romanzo. […]

La Preissová ebbe il suo primo grande successo con la pièce teatrale tratta dal racconto Gazdina roba [La serva della fattora] andata in scena a Praga nel 1889. Subito dopo scrisse, sempre per le scene praghesi, dimostratesi inizialmente ghiotte di esotismo slovacco-moravo, La sua figliastra. Ma la pièce, alla prima rappresentazione, il 9 novembre 1890, ebbe cattiva accoglienza. L’argomento campagnolo, che la scrittrice aveva elaborato da fatti di cronaca, non sembrava degno delle auguste sale del Teatro Nazionale. Nella Praga di quegli anni il naturalismo non aveva attecchito e si preferivano soggetti romantici: mitologici o borghesi che fossero. D’altro lato, il finale, profondamente cristiano, non soddisfaceva i sostenitori del realismo a oltranza, di forte denuncia sociale. Inoltre furono indirizzate alla giovane scrittrice accuse di plagio: quattro anni prima Tolstoj aveva pubblicato La potenza delle tenebre, tradotto in cèco a puntate su un periodico negli anni 1887-88; il dramma era basato sugli stessi ingredienti: una figliastra sedotta, un matrimonio possibile grazie alla morte di un bambino, una pubblica confessione di una colpa durante una festa nuziale. La scrittrice molto probabilmente non lo aveva letto e i due testi, inoltre, al di là delle analogie, sono molto diversi. Ella non apparteneva ad alcuna scuola letteraria e fu profondamente turbata dalle critiche malevole. Iniziò la sua crisi. Dopo Gazdina roba e La sua figliastra non scrisse più nulla di importante. E persino questi due pezzi significativi finirono per sparire dalle scene, quando vennero musicati rispettivamente da Foerster e Janáček, con Eva (1899) e Jenůfa (1904).

[…]

La nascita dell’opera

Il musicista informò la scrittrice della sua intenzione di musicare La sua figliastra nel 1893. La Preissová, in una lettera del 6 novembre 1893, tentò invano di convincerlo della impossibilità di trarre un’opera lirica da questo suo soggetto. Janáček lavorò alla riduzione librettistica per oltre un anno, fino al febbraio 1895. L’adattamento fu particolarmente fedele: stesso taglio in tre atti, i fatti esposti nello stesso ordine, due sole scene eliminate, testo originale rispettato, personaggi secondari non eliminati. Per inciso, la versione librettistica della Sua figliastra, che non diede probabilmente molti problemi al musicista, rappresenta una novità nell’opera cèca: è la prima opera tratta direttamente da un pezzo teatrale. Jenůfa fu pertanto, a cominciare dal libretto, un esperimento operistico che si dimostrò pienamente riuscito: quello di mettere in musica la prosa anziché la poesia, come aveva già fatto Musorgskij, ma indipendentemente dal suo modello.

Non è facile ricostruire i tempi in cui Janáček lo musicò: secondo Bohumír Stedron3, che ha dedicato un intero libro a Jenůfa e alla sua genesi, la stesura e la ricopiatura del primo atto occupò l’autore nel biennio 1895-97, mentre gli altri due, dopo un lungo intervallo, vennero completati in poco più di un anno tra il dicembre del 1901 e il 18 gennaio 1903. Altrettanto difficile ripercorrere le modalità della lunga stesura del lavoro e individuare le varianti che egli operò negli anni, perché tutti gli abbozzi sono stati distrutti dal musicista, a parte un foglietto illeggibile e alcuni appunti scritti sui margini del testo della Preissová. Esistono tuttavia le copie autorizzate per l’esecuzione del 1904, che presentano ancora numerose varianti rispetto a quella stampata nel 1908. Esse riguardano le eliminazioni di ripetizioni di frasi e parole: una fuga progressiva dalla «ripetizione rimata» d’origine popolaresca. Su questo punto è opportuno aprire una parentesi.

Jenůfa verrà spesso accusata dai suoi detrattori di ripetere troppo spesso frammenti del testo, come se i personaggi fossero psicopatici ossessivi, degni figli del loro autore. In termini di realismo il libretto presenta pertanto questo ‘difetto’ delle ripetizioni, che il musicista chiamava (quando gli venivano contestate) «ripetizioni rimate». Janáček veniva dall’esperienza di Inizio di un romanzo, che musicalmente significava il trionfo della strofa e della simmetria delle frasi musicali, consistendo le principali parti musicate in canzoni popolari arrangiate. La canzone popolare inoltre ripete spesso le parole all’interno della melodia. Nelle asimmetrie della prosa di Jenůfa e nelle sue irregolarità ritmiche il musicista sentiva il bisogno di creare artificialmente le versificazioni mancanti e le realizzava con le ripetizioni di frasi. La stessa ambientazione campagnola della vicenda trascinava l’invenzione musicale verso il gusto popolare. Inoltre, se mancavano le parole a una melodia che aveva in mente, le ripeteva per non troncare la melodia. L’autore corresse progressivamente questa sua tendenza, ma molte ripetizioni permangono ancora nell’opera (soprattutto nel primo atto) e costituiscono una caratteristica che potrà scontentare i puristi del realismo o della prosodia, ma contribuiscono al clima convulso e ossessivo che la musica ha creato intorno alla vicenda. […]

L’osservazione delle varianti fra le versioni del 1904 e del 1908 rivela inoltre un uso sempre più cauto di ‘sovrapposizioni di parti cantate’ nei pezzi d’insieme: quasi un voler attenuare il concitato ‘parlarsi addosso’ della prima versione. […]

Vi sono insomma buoni motivi musicologici per ritenere che Jenůfa martellò la mente del musicista in forma di caotico e affastellato flusso ritmato di voci sovrapposte ricco di schegge verbali iterate: come un divisionistico gioco di specchi in cui si rifletteva distintamente un mondo sonoro reale trasformato in una visione deformata e ossessiva dall’artificio della composizione. Janáček sfrondò progressivamente questo quadro sonoro per renderlo leggibile, ne attenuò i contorni per farlo assomigliare a un’opera, ne limò i profili per non distaccarsi troppo dal reale, ma la visione d’insieme di Jenůfa continua ad avere l’aspetto di quell’incubo incalzante che aveva agitato l’immaginazione dell’autore.

Un altro motivo di distacco dalla realtà, che non si può evitare di ribadire per un’opera che si ritiene legata al folclore, è il diverso rapporto con il canto popolare. […] Non si comprese subito che in Jenůfa Janáček aveva abbandonato la citazione diretta delle canzoni popolari perché i testi sono effettivamente tradizionali. […] La reinvenzione del folclore, l’invenzione di un folclorismo maturo, il canto popolare immaginato divengono così parte integrante di una creazione artistica che prende le distanze dalla banalità del reale. In Jenůfa la canzone popolare conosciuta non può interrompere il flusso dell’immaginazione: all’interno di un sogno tutti i particolari, anche i più realistici, vengono ricreati per inserirsi organicamente nell’atmosfera generale. Il canto dei coscritti e la loro danza saranno molto più selvaggi di quanto siano nella vita; il canto nuziale molto più dimesso e trasognato.

Una vicenda slava nella cornice della vita al villaggio

La storia de La sua figliastra ha un antefatto: la giovane e avvenente Jenůfa è amata dal cugino d’acquisto Laca Klemeň. Durante la sua assenza per il servizio militare la ragazza frequenta il bellissimo Števa Buryja, ricco fratellastro di Laca e padrone del mulino. Jenůfa, all’inizio della narrazione, attende un bambino da lui. Il primo atto si svolge accanto a un mulino in una zona montagnosa. Jenůfa è preoccupata che presto ci si accorga del suo stato. Chiede a Števa di sposarla, ma questi prende tempo, malgrado sia stato esonerato dal servizio di leva. Laca, che è all’oscuro della gravidanza di Jenůfa, è geloso di Števa. Le sfregia il bel viso per impedirle il matrimonio col rivale. Il secondo atto è ambientato in inverno nella casa della Kostelnička, matrigna della giovane. Jenůfa, tenuta nascosta agli occhi indiscreti del paese, ha dato alla luce un bambino. Števa, mandato a chiamare dalla Kostelnička, malgrado le insistenze della donna, si rifiuta di sposarla. Così sfregiata non gli piace più. Inoltre si è fidanzato con la figlia del giudice. Laca, anch’egli convocato dalla Kostelnička, si dichiara pronto a sposare Jenůfa, ma indugia quando viene a sapere del figlio illegittimo di Števa. Per poter rendere possibile il matrimonio, Kostelnička gli mente, dicendogli che il bambino è morto. Mentre Jenůfa dorme, abbandona il bambino fra il ghiaccio di un ruscello, sostenendo poi che è morto per malattia. Il terzo atto si svolge ancora in casa della Kostelnička, ma in primavera. Si celebra il matrimonio fra Jenůfa e Laca. Al momento della benedizione viene data la notizia della scoperta del cadavere di un bambino. Jenůfa lo riconosce dalle fasce, dichiarandone la paternità di Števa. Kostelnička confessa l’infanticidio, ne spiega le motivazioni e si consegna alla giustizia. Jenůfa comprende solo ora l’amore di Laca e resta con lui.

La storia esteriore è, come sempre, povera cosa in confronto a quella che viene fuori dai dialoghi, scritti in una prosa semplice e vivida, pieni di espressioni tratte dal linguaggio comune, ricchi di immagini altamente poetiche, difficilmente traducibili in altre lingue. Nel modo di parlare dei giovani, oltre che nei loro comportamenti, si coglie il carattere impetuoso e istintivo dei giovani della Slovacchia morava. Questo spaccato popolare, condito dai tipici ingredienti slavi della colpa e dell’espiazione, è un quadro vivente molto vario in cui si mescolano gioie e dolori, conflitti e riconciliazioni. Jenůfa è la storia di un destino, vissuto fra risentimento, orgoglio e incomprensione, buoni sentimenti, perdono e redenzione. È la storia di un’elevazione spirituale esperita nelle traversie dell’esistenza e nella disgrazia. La storia della vita stessa, nel suo continuo ruotare, come le pale di un mulino, o come le stagioni che si susseguono negli atti dell’opera: I acqua/autunno, II neve/inverno, III disgelo/ primavera. La stessa primavera che aveva portato fra le braccia di Jenůfa il fatuo Števa, e con la quale inizierà la sua nuova vita con Laca.

Si è spesso sostenuto che il successo di Jenůfa (e non solo da parte del pubblico italiano) sia da riferirsi a una certa parentela fra il realismo popolare di Janáček e il verismo di Mascagni e Leoncavallo. Una parentela più apparente che reale, soprattutto nel linguaggio musicale, ma non solo. La concezione drammatica del libretto (più vicina al Naturalismo tedesco) è proiettata in quella sfera di filosofia morale tipica delle tradizioni culturali slave. Se una vicenda di gelosia e di coltello si consuma nella Cavalleria rusticana o nei Pagliacci a livello d’istinto, nella Jenůfa l’autore non si ferma all’immediatezza delle passioni e dell’azione, pur crudamente tratteggiate, ma scruta profondamente l’animo del suo popolo, nel quale vede una reale ricchezza umana e di cui coglie la complessità psicologica.

[…]

Janáček osserva la sua gente con occhio modernamente disincantato, ben lontano dall’ingenua bonarietà ottimistica di Smetana o di Dvořák, sempre intenti nel loro teatro a mostrare il popolo cèco senza veri problemi. In questo senso Jenůfa è una parodia tragica della Sposa venduta: una sposa, per amara ironia, ‘svenduta’ da un ambiente provinciale ottuso, anche se ci viene mostrata come una giovane di valore umano ben superiore alla scipita Mařenka smetaniana.

Il soggetto della ragazza madre è scottante e originale. Scegliere per protagonista una giovane incinta, e farle inoltre sfigurare una guancia con un colpo di coltello, non ha precedenti operistici. Mentre il teatro drammatico tedesco ha spesso messo in scena le angosce di una donna non sposata che attende un bambino (Maria Magdalena di Hebbel, Die Marquise von O. di Kleist), il teatro musicale ha puntualmente evitato di mettere in scena una ragazza incinta. Santuzza racconta di essere stata disonorata da Turiddu, ma non fa parola di gravidanze; Norma i figli li ha già avuti; Suor Angelica ha dato alla luce il figlio della colpa prima dell’inizio dell’opera; e così pure avviene nella Halka (1848) del polacco Stanislav Moniuszko, un’opera che presenta molti tratti in comune con Jenůfa. Il dramma della donna sedotta e abbandonata in stato interessante alla mercè di una società ostile, quando non addirittura malvagia con chi esce dai suoi schemi, è una verità sociale imbarazzante anche e soprattutto per il pubblico dell’opera: la borghesia. Bisogna dar atto a Janáček del coraggio dimostrato nel buttare sulla scena senza falsi pudori una donna gravida abbandonata, farle urlare la sua disperazione, prendendone le difese con una pietà cristiana e con un amore che ha pochi precedenti nella storia del teatro musicale. Jenůfa è per Janáček la fanciulla mite e buona, gentile e ubbidiente con gli anziani, la giovane istruita che insegna a leggere a un pastorello e che saprà essere, purtroppo per pochi giorni soltanto, una madre premurosa. Nei momenti difficili ha anche i suoi scatti isterici: all’inizio dell’opera è posseduta da un’ansia divorante a stento celata. Trova però in seguito conforto nella preghiera e perdona con nobiltà chi le ha fatto del male. Cede alle lusinghe di quel fatuo seduttore di paese che è Števa, trascinata dalla natura, dall’incantata gioventù, dall’inesperienza. Pagherà immeritatamente per un’azione che l’autore non condanna. La vedremo trascinarsi sulla scena con il lutto negli occhi dopo la perdita del bambino. Jenůfa è la bellezza fisica e spirituale prostrata dal fato; impersona la donna ideale data in preda a un destino avverso.

Števa è un giovane sciocco, borioso e immaturo. Non è cattivo, ma semplicemente arido. Lo stereotipo di un vacuo galletto di paese. Di Jenůfa apprezza solo la bellezza, la freschezza e la vivacità: quando vedrà la poveretta in difficoltà, con il volto sfregiato, triste e sciupata, si ritrarrà pauroso e irresponsabile come un bambino, abbandonandola al suo destino. Eppure anche lui viene travolto di striscio dalla frana degli eventi, e nel terzo atto lo vedremo più ragionevole, meno narcisista e sinceramente innamorato della nuova fidanzata; complice, si presume, il ragguardevole stato sociale della famiglia di lei.

Nel personaggio di Laca, il giovane disprezzato, maltrattato ed escluso fin da bambino, Janáček vedeva probabilmente se stesso e la sua triste infanzia solitaria. In Laca domina all’inizio il risentimento, che esprime in modo sanguigno e brutale. Nel primo atto lo vediamo puerilmente rabbioso, geloso e tormentato. Eppure egli ama Jenůfa più profondamente di Števa. Pur di averla, lui così fiero, si concede atteggiamenti servili, come quello di raccogliere lo scialle caduto alla Kostelnička durante la scena dei coscritti. La trasformazione del suo comportamento avviene con il ferimento della ragazza da parte sua: il complesso di colpa lo porta a rivelare i suoi sentimenti con una pienezza espressiva che il suo carattere introverso e la sua virilità di facciata prima non gli permettevano. Non sappiamo se il colpo di coltello alla guancia di Jenůfa sia uno scatto intenzionale o un incidente: come non sappiamo se egli avrebbe finito per sposare Jenůfa anche con il figlio di Števa. (Potremmo definire lo sfregio di Jenůfa uno ‘sfregio filosofico’, poiché esso avviene in realtà anche per affermare la supremazia dell’amore per l’anima di una donna su quello per la sua bellezza fisica). Laca e Jenůfa sono accomunati da una maturazione rapidissima, frutto dei duri traumi esistenziali subiti. Nello scarso interesse psicologico sempre dimostrato dal musicista – in Jenůfa come negli altri titoli – per i protagonisti maschili, Laca è tra i più interessanti. […]

La matrigna

Kostelnička, la matrigna, è il personaggio più altamente tragico dell’opera, la vera protagonista in senso tradizionale. Il suo carattere austero e altero, la conoscenza che ella ha delle cattiverie del mondo la spingono a prendere su di sé il peccato della figliastra, ovviare con un delitto a ciò che la società avrebbe giudicato un peccato, ed espiare alla fine la sua colpa. L’uccisione del bambino, per la sua mentalità ristretta e bigotta, permeata di rettitudine dogmatica, è un gesto d’amore, un’azione a fin di bene, come ella spiega nella confessione pubblica del finale, così ieraticamente slava. Ma Kostelnička, la vedova guardiana della chiesa – kostel in cèco significa chiesa e Kostelnička si potrebbe tradurre con ‘sagrestana’ – è anche l’autorità, la fiducia in un rigido ordine sociale. Un’autorità che, con un gesto assurdo, vuol forzare la natura a rientrare in quegli schemi al di fuori dei quali si sente perduta. Nella pièce della Preissová c’è una scena, esclusa dal musicista, in cui il vecchio compare parla dei maltrattamenti subiti in gioventù da Kostelnička da parte del marito, zio di Števa: un particolare che illumina la psiche della donna, diffidente verso gli uomini, l’amore e la vita in genere, posseduta da quel pessimismo distruttivo che la rende così rigida e severa. Ella irradia autoritarismo. Il suo solo ingresso in scena zittisce e spaventa una moltitudine di giovani festanti. In lei ci sono il soffio del disprezzo e il guizzo dell’accusa per chiunque si sottragga, anche solo per qualche istante di gioia e spensieratezza, alle regole della sottomissione e dell’umiltà. Fa seccare intorno a sé qualunque fioritura di vita.

Nell’originale cèco – ricordiamolo ancora – l’opera s’intitola Její pastorkyňa (La sua figliastra), un titolo che pone immediatamente la matrigna al centro dell’azione; il titolo Jenůfa si diffuse all’estero per la traduzione di Max Brod, il quale propose l’esotico nome della ragazza, più invitante per il pubblico di quello originale, ma molto meno esatto. È un peccato aver eliminato del tutto la potenza archetipica del titolo La sua figliastra, che rimanda al mito della ‘matrigna’, la donna cattiva: riteniamo sia opportuno recuperarlo almeno come sottotitolo. […] Al suo apparire la donna si rivela subito mal disposta verso la figliastra: il fatto di non permettere per un anno le sue nozze solo perché il fidanzato si è ubriacato per la felicità di non dover partire per il servizio militare può essere anche interpretato come desiderio di mantenere bambina la figliastra, e non doverne osservare e patire la crescita, come donna attraente e come madre. Non è difficile vedere riflessi nel suo comportamento, anche nel prosieguo della vicenda, gli atteggiamenti psicologici distruttivi delle streghe cattive, delle madri degeneri, delle matrigne brutte, delle ‘regine della notte’ che parlano la lingua del disprezzo, dell’ipocrisia e del ricatto sentimentale, delle vecchie inacidite ostili nei confronti di una giovane: l’invidia della gravidanza tipica delle donne sterili, l’invidia dell’età, della bellezza, della purezza, del candore. Forse il realismo di Jenůfa è così toccante perché narra una storia talmente archetipica, e facilmente riconducibile a un manuale junghiano, da veder apparire in filigrana i contorni di una fiaba terrificante. Il sonnifero somministrato alla ragazza per decidere del suo destino e ucciderle il figlio diviene così la magica pozione delle fiabe. E nell’istante in cui Kostelnička decide di uccidere il bambino, è la musica stessa a rendere quasi visibile la trasformazione di una donna pur pedante in un’autentica strega indemoniata.

[…]

Intorno ai quattro personaggi principali, dei quali le due donne hanno una posizione di primo piano – il dramma è stato scritto da una donna – ruota una serie di figure anche ben caratterizzate. L’anziano compare e la vecchia Buryja impersonano la saggezza popolare, il buon senso, la schietta semplicità della gente di paese. Entro il ben studiato gioco di simmetrie fra i personaggi, Jenůfa fa coppia con la vecchia e Laca con il vecchio. Barena e Jano rappresentano la fiducia di Janáček nella gioventù di campagna, corretta e rispettosa. Il giudice del villaggio è una figura bonariamente positiva, una marionettistica caricatura della giovialità, mentre sua moglie è bisbetica, maligna e vanitosa per la posizione sociale raggiunta. La loro figlia Karolka, fidanzata di Števa nel terzo atto, è un po’ sciocchina ed è pettegola come la madre, della quale rappresenta la versione giovanile: di fronte allo scandalo in cui è implicato il futuro sposo preferirà lasciarlo.

Anche se le parti corali della Jenůfa sono parecchie, non si può dire che il ‘popolo’ abbia un ruolo fortemente personalizzato: nel primo atto la scena dei coscritti è un quadretto folcloristico, nel terzo la folla in un primo momento si scatena, per divenire poi commossa spettatrice alla confessione di Kostelnička.

La musica di Jenůfa

Descrivere i personaggi di un’opera e raccontarne la storia è impossibile senza cogliere quanto di loro ci dice la musica. E in Jenůfa il superamento delle trame schematiche e rudimentali dei lavori teatrali precedenti di Janáček avviene soprattutto grazie alla musica. In virtù dell’uso sistematico di certi intervalli e ritmi popolari che hanno compenetrato il suo stile, divenuto scorrevole e omogeneo, il musicista ha coronato il suo ideale stilistico popolare, uscendo dai limiti del folclorismo esotico. Jenůfa – a differenza delle altre opere, nelle quali, sebbene con qualche sforzo, possiamo riconoscere temi ricorrenti, anche se spesso difficilmente riferibili a un solo personaggio o a una sola situazione – non presenta un tematismo evidente. È fatale che la prima opera nata dalla parola, e in cui si celebra il trionfo della bellezza del parlato tradotto artisticamente in musica, riveli un tematismo così sminuzzato da essere di fatto inintelligibile. Jenůfa è, in certo qual senso, un’opera di natura anti-tematica, poiché il suo monotematismo di fondo resta ben mimetizzato dietro ad altri particolari della scrittura. Con geniale trasformismo Janáček riesce a camuffare le ‘stesse note’ in ‘temi differenti’, che prescindono comunque dalle caratteristiche tradizionali di temi-personaggio. È come se, nel comporre, l’autore non si fosse preoccupato di note e di temi – dati quasi per scontati, considerati ovvi, scritti d’impulso – trovando la giusta espressione drammatica e poetica tramite il ritmo, l’accento, il salto armonico, la strumentazione, il registro, il peso fonico. […] Pur nella sua omogeneità stilistica, l’opera è ricca di contrasti che vanno dalle sonorità rudi e aspre alla più incantata dolcezza. In Jenůfa, a differenza delle altre opere, si osservano inoltre alcuni scambi ‘enarmonici’ di derivazione wagneriana, e la scrittura armonica in genere è particolarmente raffinata: non a caso la stesura dell’opera s’incrocia con quella del primo manuale d’armonia, del 1897.

Sono comunque altri i particolari della scrittura che accendono la partitura di Jenůfa a una temperatura nervosa incandescente. Le tessiture – vocali e strumentali – sono spesso disagevoli, quasi l’autore tenesse conto dello sforzo interpretativo come componente espressiva. Nella musica colpisce l’incisività del discorso nel suo complesso: l’uso degli ostinati, insistenti, incalzanti, fissi. Il morbo dell’apprensione e il senso dell’attesa che vibrano in questi ostinati martellanti ed esasperanti, hanno qualcosa di ossessivo, al limite con il crak dell’equilibrio mentale. E non cogliere in Janáček tratti psicopatici significa perdere uno dei motivi essenziali della sua arte. Jenůfa è un’opera sospinta dal vento furioso di una musica tutta figurazioni discendenti o ruotanti su se stesse in modo implacabile, come se la musica mimasse lo stesso flusso inarrestabile della vita.

Emblematica la nota ribattuta dello xilofono che collega fra loro scene diverse del primo atto, ponendosi come simbolo dell’inesorabile scansione del tempo, che scorre come l’acqua, e insieme come realistico rumore delle pale del mulino. Il compositore ha infatti specificato che il suono dello xilofono non deve venire dalla fossa dell’orchestra, ma dal mulino sulla scena. Esso è pertanto un rumore di fondo costante che si fa udire quando l’umanità che vive intorno al mulino tace per qualche istante: un monito minaccioso, un georgico fugit irreparabile tempus, un ticchettio impassibile e crudele che segue il suo corso, indifferente al rosario di disgrazie che si sta recitando sulla scena.

Ma, a ben vedere, quel sottile suono metallico è anche associato al coltello che sfregerà Jenůfa. Accompagna infatti il passo in cui l’anziano compare lo affila per Laca e precede l’istante in cui il giovane geloso avverte la bella ragazza che quella lama la potrebbe rovinare. Dopo lo sfregio, spostandosi l’azione in un ambiente interno, lo xilofono tacerà. Tyrrell 4 ha rilevato la doppia natura simbolica dello xilofono – tempo e coltello – in Jenůfa, così come i colpi di timpano nella Kát’a Kabanová diverranno insieme realistico rumore del tuono e simbolo acustico della minaccia, della colpa e della confessione.

[…] Mentre nel canto di Jenůfa ascoltiamo, in tutta la loro varietà, emozioni tipiche della femminilità – dolcezza, apprensione, calore sentimentale, scatto d’ira, sensuale malinconia, incantata religiosità – in quello della matrigna c’è solo autorità. La musica ci spiega che lei, a differenza di Jenůfa, non è una donna buona: Kostelnička non ha canto, non ha mai una melodia suadente, e la sua parte è tutta un recitativo ieratico, come quella di Kabanicha in Kát’a Kabanová. Ha naturalmente anche una sua straordinaria statura tragica: le scene dell’uccisione e della confessione paiono scritte da un Gluck del primo Novecento. La sua colpa è vissuta nel segno di una straordinaria grandezza classica, di un’autentica nobiltà, degna di pietà, molto lontana dalle bassezze istintuali del verismo. E l’infelicità in cui sprofonda la donna nella sua sconfitta le restituisce, tramite la musica, qualche trapelante accento di umana debolezza al momento dell’epilogo della sua raccapricciante impresa.

Il taglio generale dell’opera rivela un’architettura sapiente e una simmetria di classica perfezione. Mentre nel primo e nel terzo atto – le parti pubbliche – trovano spazio anche il coro e i personaggi secondari, e persino due scenette folcloristiche (canto e danza dei coscritti e canto nuziale), il secondo atto, cuore sanguinante dell’opera, vede in scena solo i quattro protagonisti, in particolar modo le due donne, che hanno due grandi monologhi. E naturalmente l’organicità dell’insieme vive soprattutto nell’alternanza dei toni in ogni atto.

Se si ascolta il primo, dopo la breve e apprensiva introduzione, tutta tremoli e ostinati, inizia ex abrupto il canto della protagonista. Un canto che contraddice le forme solite della melodia, ma riesce ad essere egualmente toccante. Il carattere di Jenůfa e la sua egocentrica apprensione vengono ulteriormente disegnati nella bella preghiera. Si tratta di arie in miniatura, arie poeticamente contratte in una manciata di note nostalgiche. […] Dopo la parentesi popolaresca del canto in onore di Jenůfa, avviene una seconda spezzatura drammatica con l’ingresso della Kostelnička, che recita spesso su una sola nota, mettendo in evidenza la sua sprezzante freddezza. Al coro semiparlato e affrettato dei musicanti rispediti a casa segue il coro della rassegnazione ai dolori della vita, un concertato poetico e immobile, un monito severo messo in musica sulle parole “Ogni coppia deve portare il suo fardello di dispiaceri” […]. L’importante duetto fra Jenůfa e Števa ubriaco rivela tutta la rabbia della giovane e la superficialità del partner. Vi sono semi-parlati svolti in modo strofico-popolaresco. Singolarmente rudi i ritmi con cui lei cerca di scuoterlo ai suoi doveri. Molto astuta l’enfasi seduttiva con cui Števa la placa. Sulle ricorrenti scansioni dello xilofono spunta il valzerino insidioso di Laca, che scaglia, sempre più geloso, le sue invettive. Ma la malizia di Jenůfa, nell’offenderlo, fa subito esplodere, disperato, il dolore della dichiarazione di Laca. Dopo il ferimento il vento della musica comincia a soffiare, mentre figurazioni vocali e strumentali, ascendenti e discendenti, per moto retto e moto contrario, portano alla conclusione l’atto su una sbandata enarmonica.

Il second’atto, ricco di dialoghi, rappresenta il vertice musicale di Jenůfa. La musica ha un ritmo diverso: greve, quasi da marcia funebre, con continuità e costanza nelle figurazioni stancamente e inesorabilmente martellanti nel loro ruotare. Il colore dell’orchestra è oscuro, notturno, come se si fosse fatto carico del peso delle tragedie della vita e della sua desolazione. […] La musica cambia quando Jenůfa parla del bambino, che ha un suo tema fremente e delicato. Ma quest’oasi di tenerezza è interrotta dagli striduli commenti della Kostelnička, che incalza la figliastra. C’è un duetto della disperazione delle due, che si dissolve in armonie impressionistiche. Il vertice poetico in cui si riassume tutta la situazione sta nella frase di Jenůfa “buona notte mamma”: l’onda poetica della musica coglie alla perfezione lo stato emotivo della protagonista, in cui si mescolano stanchezza, gioia della maternità e rassegnato dolore a causa del fidanzato irresponsabile e della matrigna bisbetica. Nel duetto con Števa, Kostelnička è come se recitasse nell’enfatico teatro drammatico del tempo (contro il quale si era pronunciata la poetica dello «straniamento» di Brecht): varia in infinite gradazioni emotive la sua richiesta di matrimonio per la figliastra. Arriva a commuoverlo parlandogli del bambino, ma questi, con uno scatto, quasi si rendesse conto che alla donna interessano solo la questione sociale della vicenda e il timore dello scandalo, scappa. E la sua fuga avviene su uno straordinario colpo di teatro: al culmine del duetto si percepisce improvvisa la sovrapposizione delle tre voci: la terza è quella di Jenůfa, drogata da un sonnifero nell’altra stanza, che sogna di essere schiacciata da un masso. Nel duetto con Laca, più umile e posato, la matrigna mostra segni di nervosismo crescente. C’è un’accensione drammatica quando la Kostelnička gli mente dicendogli che il bambino è morto: la musica ci dice che ha deciso di sopprimerlo. Il culmine drammatico si tocca nella scena dell’uccisione del bambino. La sagrestana di paese si trasforma vocalmente in una virago teutonica, in una valchiria wagneriana, in un’ossessa spiritata. Uno ‘sdoppiamento di personalità’ degno della cinematografia horror. La metamorfosi della strega. Il canto le si strozza in gola per la vergogna e riesce solo a scagliare alla platea realistici parlati. Sulla sua uscita di scena un violino solo emerge dalle sonorità massicce dell’orchestra. Una musica lirica ci parla delle illusioni di Jenůfa sola. L’oasi di poesia intimistica vissuta fra le pareti di una povera casa viene interrotta da accenti di drammaticità quando la giovane non trova il bambino. La splendida preghiera alla Vergine – il “Salve regina” – che segue è direttamente collegata dalla musica al burrascoso ingresso della Kostelnička che ha appena consumato l’infanticidio. Jenůfa è spezzata dal dolore e partecipa distrattamente al duetto che ha per tema la grettezza di Števa. Mirabili accordi impressionistici segnano l’ingresso di Laca, sempre più innamorato. La corda vuota del violino traduce in modo quasi visibile il vuoto interiore della fanciulla e il suo stordimento di fronte agli eventi. Il terzetto del matrimonio riparatore è brevissimo. Il vento della morte, con le solite figurazioni discendenti, entra da una finestra: anche un’allucinazione fa parte del reale. Il malore della colpa assale Kostelnička, mentre l’orchestra chiude drammaticamente l’atto.

Il terzo atto è casalingo, ma senza la tetraggine claustrofobica da stufa surriscaldata del precedente. Il peso di una tragedia incombente preme in una scrittura sinfonica che pare un fiume sempre in piena, pronto a sfondare gli argini. Un’orchestra secca, a volte dura, da cui emergono a tratti tenerezze. […] Le scene si susseguono per ora con andamento pacato. Il coretto nuziale ha tono gentile e rivela un’allegria appena sotto tono. La musica si fa dolcissima e rarefatta nel commentare la tenerezza umana del matrimonio nel momento della benedizione. Dopodiché ha inizio l’atroce svolta musicale dell’atto. Discese a rotta di collo di figurazioni musicali si mescolano a parlati confusi e a voci in distanza. Jano annuncia il ritrovamento del piccolo cadavere. Tutto accelera, fra grida e dissonanze. Il confine tra finzione artistica e realtà sembra annullarsi. Jenůfa si lascia andare a escandescenze isteriche e urla dietro la scena il suo dolore. Števa trema. Karolka impallidisce. Kostelnička comprende che è giunta l’ora della verità e del castigo. Un tafferuglio si accalca intorno alla follia furiosa di Jenůfa con le fasce del bambino tra le mani, che culmina nel minacciato linciaggio della giovane, protetta dallo sposo. Poche parole, e si ascolta la lunga e drammatica confessione della Kostelnička, di cui emerge in pieno il ruolo protagonistico. Il coro, allibito, commenta con soli semi-parlati: «Gesù Cristo». Il progressivo svuotamento della scena avviene anche nella musica. Alla Kostelnička è affidato un primo finale, in fortissimo, da cui emerge, in tutta la sua tenerezza, il vero finale, quello dell’apoteosi della ‘vita che continua’.

Vorremmo aggiungere due parole almeno su questa scena finale, in cui Jenůfa e Laca, rimasti soli, si confessano il reciproco amore, decidono di restare insieme e s’incamminano verso l’imperscrutabile futuro che si delinea all’orizzonte della loro provata gioventù. Si rileva immediatamente la somiglianza fra la melodia dei violini che compare all’inizio di questa scena inaspettata – quasi un finale aggiunto – e quella del “Sono andati? Fingevo di dormire...” della Bohème. È importante distinguere i diversi intenti drammaturgici nelle due antitetiche situazioni teatrali. Mentre Puccini elabora questo incipit trasformandolo in una melodia compiuta efficacemente melodrammatica e un po’ impastata di malato estetismo, Janáček non fa che ripetere, variando leggermente, quel primo inciso. Ferma l’attimo con sonorità fisse sempre più grandiose. Sospende il dramma proprio nel finale, proiettandolo in una sfera astratta, filosofica. Contempla la nuova situazione esistenziale, quasi dimentico delle passioni di poco prima e irradia quel barlume di speranza che egli riesce a scorgere anche nelle situazioni più scoraggianti.

[…]

1. J. Šeda, Leoš Janáček, Orbis, Praga 1960, p. 49.

2 J. Šeda, op. cit., p. 53.

3 B. Stedron, Zur Genesis von Leoš Janáčeks Oper Jenůfa, Università J. E. Purkynĕ, Brno 1971.

4 J. Tyrrell, Leoš Janáček Jenůfa, note all’edizione CD dell’opera, Decca 414 483-2, p. 38.

 


 

Jenůfa - SINOSSI

 

La storia de La sua figliastra ha un antefatto: la giovane e avvenente Jenůfa è amata dal cugino d’acquisto Laca Klemeň. Durante la sua assenza per il servizio militare la ragazza frequenta il bellissimo Števa Buryja, ricco fratellastro di Laca e padrone del mulino.

Jenůfa, all’inizio della narrazione, attende un bambino da lui. Il primo atto si svolge accanto a un mulino in una zona montagnosa. Jenůfa è preoccupata che presto ci si accorga del suo stato. Chiede a Števa di sposarla, ma questi prende tempo, malgrado sia stato esonerato dal servizio di leva. Laca, che è all’oscuro della gravidanza di Jenůfa, è geloso di Števa. Le sfregia il bel viso per impedirle il matrimonio col rivale.

Il secondo atto è ambientato in inverno nella casa della Kostelnička, matrigna della giovane. Jenůfa, tenuta nascosta agli occhi indiscreti del paese, ha dato alla luce un bambino. Števa, mandato a chiamare dalla Kostelnička, malgrado le insistenze della donna, si rifiuta di sposarla. Così sfregiata non gli piace più. Inoltre si è fidanzato con la figlia del giudice. Laca, anch’egli convocato dalla Kostelnička, si dichiara pronto a sposare Jenůfa, ma indugia quando viene a sapere del figlio illegittimo di Števa. Per poter rendere possibile il matrimonio, Kostelnička gli mente, dicendogli che il bambino è morto. Mentre Jenůfa dorme, abbandona il bambino fra il ghiaccio di un ruscello, sostenendo poi che è morto per malattia.

Il terzo atto si svolge ancora in casa della Kostelnička, ma in primavera. Si celebra il matrimonio fra Jenůfa e Laca. Al momento della benedizione viene data la notizia della scoperta del cadavere di un bambino. Jenůfa lo riconosce dalle fasce, dichiarandone la paternità di Števa. Kostelnička confessa l’infanticidio, ne spiega le motivazioni e si consegna alla giustizia. Jenůfa comprende solo ora l’amore di Laca e resta con lui.