L'opera torna al pubblico

Adriana Lecouvreur è, il 27 aprile 2021, il primo titolo operistico in programma dopo l’appuntamento sinfonico inaugurale con il concerto diretto da Daniele Gatti del 26 aprile. La direzione dell’opera di Francesco Cilea è affidata a Daniel Harding, la regia a Frederic Wake-Walker. Maria José Siri è Adriana.

Adriana Lecouvreur di Francesco Cilea, opera che si potrebbe definire toscana, anzi fiorentina, perché quasi interamente composta a Firenze (prima in un appartamento in via Giuseppe Garibaldi e poi in una villa a Fiesole) tra il 1900 e il 1902, è la prima opera in cartellone dell'83ª edizione del Festival del Maggio Musicale. Sul podio il maestro Daniel Harding a dirigere il Coro e l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino e, alla regia, il debutto fiorentino di Frederic Wake-Walker. Sul palco un grande cast capeggiato da María José Siri nel ruolo di Adriana, Martin Muehle, Ksenia Dudnikova, Nicola Alaimo, Paolo Antognetti, Alessandro Spina, Chiara Mogini, Valentina Corò, Davide Piva, Antonio Garés e Michele Gianquinto. Maestro del Coro è Lorenzo Fratini. Le coreografie sono di Anna Olkhovaya, le scene di Paulina Liefers, i costumi di Julia Katharina Berndt, le luci di Marco Faustini.

A interpretare la protagonista, dunque, il soprano María José Siri, artista di fama internazionale che dopo il grandissimo successo al Maggio di Il tabarro e Suor Angelica ha recentemente interpretato Abigaille nel Nabucco dello scorso ottobre 2020 e che è reduce da una recentissima e trionfale Adriana all'Ópera de Las Palmas de Gran Canaria. Insieme a lei, nel ruolo della Principessa di Bouillon, il mezzosoprano Ksenia Dudnikova, che debutta al Teatro del Maggio con il personaggio che l’ha presentata al pubblico ed è una delle voci emergenti più interessanti del panorama lirico attuale. Nel ruolo del Conte di Sassonia, il tenore Martin Muehle, ospite abituale a Parigi, Amsterdam, Londra, Monaco, Berlino anche lui al suo debutto al Maggio. A interpretare Michonnet il baritono Nicola Alaimo, artista ospite del Maggio in varie occasioni tra cui il recente Home Gala Concert dello scorso anno e che presto sarà Falstaff nella prossima stagione. Nei ruoli del Principe di Bouillon e l’Abate di Chazeuil, il basso Alessandro Spina e il tenore Paolo Antognetti, anch’essi ospiti in varie occasioni nelle produzioni del Maggio. Con loro, le presenze degli artisti dell’Accademia del Maggio, Chiara Mogini (Madamigella Jouvenot), Valentina Corò (Madamigella Dangeville), Davide Piva (Quinault), Antonio Garés (Poisson) e Michele Gianquinto (Un maggiordomo).

Adriana Lecouvreur, quarta e tra le più celebri delle cinque opere composte da Francesco Cilea, nonostante fosse stata scritta quasi integralmente a Firenze, fu presentata la prima volta a Milano dove Cilea la completò, nel 1902 al Teatro Lirico con grandi nomi come Angelica Pandolfini ed Enrico Caruso ottenendo immediatamente un successo enorme. L’opera arrivò a Firenze nel 1903 alla Pergola e fu diretta da un giovane Tullio Serafin, replicando certamente il trionfo milanese e restò in cartellone per molte seguitissime repliche. Successivamente fu eseguita al Teatro Pagliano nel 1906 e lentamente e sorprendentemente fu in seguito quasi dimenticata dai teatri italiani e stranieri. Rientrò nel repertorio negli anni ’30 ma prima di rivederla sulle scene, i fiorentini hanno dovuto attendere il 1940 quando riallestita al Teatro Comunale, interpretata da Magda Olivero. Da allora si contano solo altre edizioni, nel 1966, nel 1981 e l’ultima nel 2010.

Si tratta una vicenda vissuta in epoca illuministica da Adriana, una grande tragicienne della Comédie Française (celebrata da Voltaire), all’interno di una variante del classico triangolo amoroso con Maurizio, conte di Sassonia conteso fra la principessa di Bouillon e la protagonista, e Michonnet, compagno di teatro segretamente innamorato di Adriana. Per Cilea ci sono tutti gli elementi di sicura efficacia drammatica da poter sviluppare in musica: intensi colpi di scena, scontri notturni tra rivali in amore, omaggi al Grand opéra, l’ambientazione nel Settecento galante (dipinto con grazia e levità secondo il modello francese), un intrigo noir e l’espediente del teatro nel teatro che consente alla protagonista di passare dalla finzione di una commedia recitata alla passione della vita reale.


 

 

DANIEL HARDING

Un anno fa circa, il sovrintendente Pereira mi ha invitato al Maggio dove ero stato solo nel 2016 con i Wiener Philharmoniker. Mi propose l’Adriana Lecouvreur che, confesso, era una composizione che non conoscevo e addirittura un’opera che non avrei mai pensato di dirigere. Però mi sono ricordato alla bella esperienza a Milano, alla Scala, quando diressi Pagliacci e Cavalleria rusticana, altre due opere che non pensavo potessero essere parte del mio repertorio, ma delle quali, non appena le ho affrontate, me ne sono innamorato. Inoltre avrei avuto l’opportunità di lavorare con il Coro e l’Orchestra del Maggio e con il Maggio. Quindi a fianco di questo ho visto nella proposta di Pereira l’opportunità di affrontare un compositore nuovo e un nuovo mondo per me e sono così grato e così felice di poter lavorare su Adriana, un’opera squisitamente teatrale, commovente e drammatica, incredibilmente onesta e semplice. Semplice - mi spiego meglio - nel senso che non è assolutamente pretenziosa nella scrittura; Cilea non richiede mai qualcosa che sia più complicato di quello che è necessario, c’è un uso della musica, dove le tante idee e i tanti elementi narrativi ritornano in prospettive differenti, punti di vista, che creano comunque una coerenza musicale.

C’è poi una bellissima ironia in quest’opera: celebriamo la vita e la personalità di una attrice che era nota per dire che recitare doveva essere semplice come parlare - allontanandosi dal concetto di un canto o una recitazione “tecnica” ma più vicina alla naturalezza - e per interpretate un ruolo come questo – e qui sta l’ironia - invece è necessaria una formidabile cantante che sappia essere anche una formidabile attrice. In questa produzione noi abbiamo una formidabile María José Siri e con lei un formidabile cast.

A Firenze abbiamo creato un “family cast” con tutti e con Frederic Wake-Walker il regista e il suo team che ha realizzato una bellissima produzione.

Questa Adriana è una meravigliosa avventura; per me si è creato anche un legame d’affetto con l’Orchestra e il Coro del Maggio e oltre a questa produzione così importante io aspetto anche il 29 aprile quando eseguiremo il Requiem di Mozart. Devo essere sincero, in Adriana non si riesce a percepire il “meraviglioso profumo” di questo Coro che invece si sprigiona al massimo nel Requiem, quindi sono contentissimo che potremo lavorare in quel concerto. Onestamente mi sento un po’ un ospite nel campo dell’opera italiana, pur amandola molto tuttavia ne ho diretta poca nella mia carriera al contrario di molti miei colleghi che vivono quotidianamente questo repertorio; ma devo dire che mi sento molto felice e grato di affrontarla e quindi di arricchire la mia esperienza con questa meravigliosa occasione.


FREDERIC WAKE-WALKER


 Ho ricevuto la chiamata a metà febbraio e ovviamente ero molto contento. L’anno scorso non avevo lavorato molto e quindi avere la possibilità di essere nella sala prove del Maggio Musicale (non una qualunque) con dei cantanti meravigliosi è stata un’opportunità speciale e un grande onore. Come ha detto il Sovrintendente: avevo visto il progetto di Jürgen Flimm e ciò ha fatto immediatamente nascere in me l'idea del teatro nel teatro. È qualcosa che inserisco spesso nel mio lavoro e penso che Adriana Lecouvreur sia l’opera giusta proprio per questo periodo poiché siamo affamati di musica e teatro da più di un anno ormai. In questa produzione, infatti, c’è tutto il teatro a cui si può pensare: la commedia, la tragedia, la commedia dell'arte, il balletto classico, il cabaret, il simbolismo e molto altro. In breve: proprio perché il teatro non lo abbiamo avuto per molto tempo, abbiamo inserito una vera e propria esplosione teatrale in questa produzione.

Per me è stata un’esperienza bellissima e, soprattutto, curativa e liberatoria poiché mi sono avvicinato alla produzione in maniera molto spontanea. Normalmente, durante le prove, realizzo un'idea registica che ho meditato a lungo ma in questo caso, invece, è stato tutto molto spontaneo.

Penso che l'opera parli dei nostri tempi attuali in cui dobbiamo essere tutti più flessibili e reagire a ciò che ci sta capitando. Ci mancano tante cose, ma in tutto ciò c'è anche una cosa positiva: dobbiamo ricollegarci con una sorta di spontaneità da inserire nelle nostre abitudini.

 


Note di Giovanni Vitali


“ED ECCO LA CHIAVE DEL NIDO SOAVE… IL VERDE VILLINO AL VOSTRO VICINO…”

Adriana Lecouvreur, opera fiorentina, e la prima al Teatro della Pergola

di Giovanni Vitali

A Raina Kabaivanska,

mia prima, indimenticabile
 Adriana Lecouvreur

Ma come, vi chiederete: Adriana Lecouvreur opera fiorentina? Ebbene sì, visto che Francesco Cilea la compose interamente nella nostra città tra il 1900 e il 1902, in quel periodo che lo vide titolare della cattedra di armonia al Regio Istituto Musicale di Firenze. Nell’autunno 1897, quando decise di partecipare al concorso per l’insegnamento, il trentunenne Cilea era in un momento difficile della propria carriera: la sua ultima opera, L’Arlesiana, la terza del catalogo dopo Gina e La Tilda, non aveva ottenuto il successo sperato; i rapporti con l’editore, Edoardo Sonzogno, erano tesi e difficili; la revisione a cui sottopose la partitura dell’Arlesiana ne migliorerà l’esito ma senza suscitare grandi entusiasmi. In quei mesi viveva a Roma con la sorella Filomena, in via delle Finanze (l’attuale via Antonio Salandra, nel Rione Sallustiano). “E quivi finalmente allestii l’opera in 3 atti [si tratta dell’Arlesiana rivista, N.d.A.] e la spedii a Milano all’Editore Sonzogno. Nulla seppi dell’impressione che il mio lavoro aveva prodotto; seppi invece, per caso, che proprio in quei giorni era stato bandito un concorso per il posto di Professore d’Armonia nel R. Istituto Musicale di Firenze, e senz’altro inviai la mia domanda”, scrive il compositore nei suoi Ricordi. Il 5 dicembre 1897 il “Marzocco” annunciava: “La Commissione musicale permanente (…) per il posto di professore di armonia nel R. Istituto Musicale di Firenze indicò il M.o Cilea, il giovane autore della Tilda e dell’Arlesiana accolta con molto plauso in questi giorni”.

Subito dopo le vacanze natalizie il musicista si spostò da Roma a Firenze; nel suo animo il trasferimento aveva forse il significato di una fuga, il nuovo lavoro di docente quello di un’alternativa - per fortuna temporanea, come vedremo - alla composizione: “Le vicende e le delusioni di quel triste periodo mi cagionarono tale e tanto sconforto, che, vinto il Concorso (…), non esitai un solo istante ad accettare (…), e - disinteressandomi di proposito di teatro, editore e simili - a trasferirmi nella nuova sede e tuffarmi a capo fitto nella morta gora dell’insegnamento”. Sulla “Nazione” del 12 gennaio 1898 si legge: “È giunto oggi in Firenze il maestro Francesco Cilea, testè nominato professore d’armonia nel nostro R. Istituto musicale. Egli comincerà domani le sue lezioni. Il maestro Cilea è notissimo nel mondo musicale per la sua opera Tilda, già eseguita al nostro teatro Pagliano, l’Arlesiana, testè eseguita al Lirico di Milano e per altri lavori. Diamo al valentissimo musicista il benvenuto nella nostra città”. Il quotidiano fiorentino ricorda l’avvenimento per il quale il nome di Cilea era già familiare ai concittadini: la prima assoluta della Tilda, opera in tre atti su libretto di Angelo Zanardini, data al Pagliano con buon successo il 7 aprile 1892. Come osserva Cesare Orselli nella sua bella monografia Francesco Cilea. Un artista dall’anima solitaria gli anni trascorsi dal compositore a Firenze furono “forse i più sereni e fecondi” della sua vita.

Su suggerimento di un amico napoletano, il colonnello Michele Martinelli, prese in affitto un appartamento in via Giuseppe Garibaldi 6, quasi di fronte al Villino Le quattro stagioni dove aveva abitato per qualche anno Vernon Lee, vale a dire la scrittrice inglese Violet Paget. Martinelli e la moglie occupavano il secondo piano, Cilea il primo: non era certo il verde villino nel quale il Principe di Bouillon invita tutti “a gaio convito” alla fine del primo atto dell’Adriana Lecouvreur, ma comunque un edificio elegante in una zona residenziale molto tranquilla della città: “Mi parve di essere stato fortunato quanto all’alloggio, situato in prossimità dei Lungarni e delle Cascine dove potevo deliziosamente distrarmi. (…) Io abitavo - è vero - al piano di mezzo; ma il pianterreno era occupato da un tenente di cavalleria, scapolo, quasi sempre assente, e al di sopra di me c’erano contenti e amorevolmente tolleranti, gli amici Martinelli. La strada era calma e solitaria, fuorché nelle poche sere in cui sonatori e coristi portavano le loro serenate ai forestieri alloggiati nel vicino Albergo Anglo-Americano”. E vivacizzata, aggiungiamo, dall’andirivieni del pubblico che si recava agli spettacoli del vicino Politeama Fiorentino e la domenica dal traffico delle carrozze dirette alle passeggiate nel Parco delle Cascine.

A Firenze Cilea si ambientò velocemente, riprendendo l’amicizia con il direttore Leopoldo Mugnone, che dirigeva la stagione al Pagliano, e stringendo nuovi contatti con personaggi in vista del mondo musicale cittadino come il fondatore e direttore della rivista “La nuova musica” Edgardo Del Valle de Paz, il collega docente di composizione Antonio Scontrino, il pianista Giuseppe Buonamici, il violinista Giovan Battista Faini, il violoncellista Luigi Broglio e il critico musicale Arnaldo Bonaventura. Tutte queste relazioni sono state ben ricostruite e documentate da Francesca Peruccio Sica nel suo saggio Francesco Cilea a Firenze, in cui si menzionano anche le esecuzioni di musiche strumentali del compositore calabrese avvenute nel 1901 alla Società Filarmonica e nel 1903 alla Società del Quartetto, a testimonianza della fama e della stima che gli erano riservate. Ma torniamo alla nostra Adriana Lecouvreur. Per comprendere come Cilea arrivò a scegliere la commedia-dramma di Eugène Scribe e Ernest-Wilfrid Legouvé, forzando anche le diverse intenzioni del librettista Arturo Colautti e di Edoardo Sonzogno, rimandiamo allo scritto di Cesare Orselli Adriana Lecouvreur in breve. Nell’autunno del 1900 troviamo il compositore intento a lavorare al primo atto, a lamentarsi della lentezza di Colautti e in preda all’ipocondria. “Dove ridurmi per lavorare indisturbato? Trovare un posto simpatico per concentrarmi e produrre tranquillo e in piena libertà è sempre stato, per me, un problema assai serio e di ardua soluzione. Non volevo dar fastidio ai vicini e, a mia volta, non volevo essere infastidito. Ero mattiniero: m’alzavo alle cinque. Lavoravo quietamente a tavolino: ma, se si dava il caso, m’attaccavo ai tasti del pianoforte per ore intere, senza interruzione. Avevo bisogno di consacrare tutto il tempo diurno e notturno alla creazione, senza freni nè limiti, con soste brevi: e spesso mi ammalavo”. Per fortuna l’appartamento di via Garibaldi era tranquillo e i vicini di casa, gli amici Martinelli, tolleranti. Sulle malattie di Cilea, reali o psicosomatiche che fossero, vegliava amorosamente la sorella Filomena, giunta dall’Educandato delle Suore della Carità di Caserta e ormai libera dalla tutela della zia paterna, Suor Flavia. Fra Ciccillo e Lina, come si chiamavano in famiglia, c’erano affetto e stima: “In casa mia mi ero sistemato bene con mia sorella, che, diplomata in pianoforte, intelligente, e per la musica sensibilissima, mi era di grande aiuto e conforto”.

A gettare acqua sul fuoco creativo di Cilea erano le lezioni in Conservatorio: “L’insegnamento non mi dava noie: soltanto m’inceppava alquanto non essendo io capace di lavorare saltuariamente intorno all’opera”, ammette il compositore. Ciononostante, non appena ricevuto da Colautti il primo atto, Cilea si dedicò immediatamente a districarne il complicato intreccio: “Incominciai a studiarlo attentamente anche perché sembrava, e forse era, farraginoso, frammentario e difficilissimo a sistemare musicalmente in un complesso organico senza intralciare nel loro logico sviluppo le caratteristiche dei singoli personaggi, col maggior danno per la personificazione artistica di Adriana. Era in quell’atto messa a dura prova la mia capacità, e quello che fu l’assiduo intento della mia vita artistica: facilitare possibilmente le cose difficili e semplificare le complicate”. Non aveva torto, Cilea: riuscire a rendere drammaturgicamente coerente l’incessante brulicare di personaggi e avvenimenti che caratterizza il retropalco della Comédie Française senza eclissare la figura della protagonista, era un’impresa molto complicata. Ci riuscì con abilità magistrale, stagliando la magnetica personalità della primadonna su questo caleidoscopico sfondo metateatrale fin dal suo memorabile ingresso in scena, “Del sultano Amuratte m’arrendo all’imper. Tutti uscite! E ogni soglia sia chiusa all’audace…”, bellissimo esempio di inserimento del “recitato” all’interno di un’opera in musica (lo sarà, in maniera ancora più clamorosa, anche il monologo dalla Fedra di Jean Racine che conclude il terzo atto).

Arrivarono così il Natale e il Capodanno, e con essi l’interruzione delle lezioni in Conservatorio. “Profittai delle vacanze (…) per imprimere il più forte impulso al mio lavoro. Composi di getto fino a tutto il monologo di Michonnet. In compenso mi ammalai gravemente d’influenza con febbri altissime. E cosa strana, nel delirio febbrile vidi e sentii tutto il resto dell’atto. Rimessomi alquanto in salute, partii alla volta di Milano per far udire la musica al Colautti. Egli rimase vivamente sorpreso e colpito dell’unità che avevo saputo dare a quell’atto, senza confonder tra loro le varie parti, né nuocere alla spigliatezza dell’insieme e all’efficacia dell’azione. Sotto la spinta di quell’impressione, entro due giorni mi consegnò il secondo atto con parole di viva, salda fede”. A questo punto del racconto vale la pena aprire una piccola parentesi sull’attendibilità dei Ricordi che vennero scritti da Cilea in due versioni successive: la prima tra il 1944 e il 1945, la seconda nel 1947, quindi molti anni dopo i fatti narrati. È chiaro che la memoria può aver giocato qualche piccolo scherzo al compositore; lo ipotizza anche Orselli in relazione alla ribadita lentezza del librettista: “Una lettera di Galli del 2 ottobre 1900 annuncia che Colautti consegnerà il libretto in una settimana: ma poi, in novembre, è pronto solo il III atto, o una prima stesura, e forse la memoria di Cilea si confonde o esagera un po’ quando scrive che “non mi riuscì di avere il primo che alla fine del 1900, e gli altri di seguito uno per volta, e non a brevi intervalli”. Comunque sia Cilea era un uomo schivo, riservato, poco propenso all’autocelebrazione (“un artista dall’anima solitaria”, appunto) e quindi i suoi Ricordi dovrebbero essere veritieri, fatta salva qualche sporadica concessione alla suggestione letteraria nella quale ci siamo già imbattuti: “…nel delirio febbrile vidi e sentii tutto il resto dell’atto”.

Subito dopo l’incontro con Colautti a Milano, Cilea tornò a Firenze con il secondo atto dell’Adriana Lecouvreur: “Fra una lezione e l’altra all’Istituto, lo abbozzai: e così successe per il terzo quando lo ricevetti; ma poiché la mia salute, dopo l’influenza sofferta, era rimasta alquanto scossa, alla fine dell’anno scolastico fui costretto a sospendere ogni occupazione per andare a riposarmi e curarmi a Sant’Agata sui Due Golfi, presso Sorrento”. Approfittando dell’estate, Cilea andò a respirare aria balsamica in questo splendido borgo della penisola sorrentina, affacciato sul golfo di Napoli a Nord e su quello di Salerno a Sud, reso famoso dallo scrittore inglese Norman Douglas, che ne parla diffusamente nel suo quaderno di viaggio Siren Land (La terra delle sirene) del 1911, e dal poeta Salvatore Di Giacomo, che per quasi vent’anni vi trascorse le vacanze estive. Intanto nelle lettere iniziano a circolare dei nomi di celebri primedonne a cui Sonzogno e Cilea pensavano di affidare la parte di Adriana. Gemma Bellincioni, ad esempio, “bocciata” però da Colautti che, poco carinamente, scrisse: “Alla Bellincioni non c’è più da pensare: è una campana rotta da un pezzo”, suggerendo, qualora l’opera si fosse potuta dare alla Scala (cosa che avverrà soltanto nel 1932), il soprano francese Emma Calvé, “l’unica capace di rendere bene la difficilissima parte”.

Nel frattempo Cilea si era ripreso: “Completamente ristabilito ritornai a Firenze e, prima d’iniziare il nuovo anno d’insegnamento, scrissi di getto, con una passione e un fervore mai prima provati, in due sole settimane, tutto l’atto quarto. Soddisfatto del mio lavoro e contento della rapidità con cui lo avevo terminato, mi accinsi al lavoro di revisione degli atti precedenti e ad orchestrare l’opera”. Colautti, in procinto di assumere la direzione del “Corriere di Napoli”, dubitava di tanta solerzia e il 14 ottobre 1901 chiedeva al compositore: “Hai cominciato ad istromentare? Lo spero, ma non lo credo”. Con due lettere da Napoli del marzo 1902 il tenore Fernando De Lucia, che era stato compagno di collegio di Cilea, si propose come creatore del personaggio di Maurizio ma precisando che avrebbe voluto sentire l’opera o almeno ricevere la parte. Il 20 maggio 1902 il compositore ebbe la visita del suo editore, Edoardo Sonzogno, “che, proveniente da Napoli e diretto a Milano, sostò a Firenze per assicurarsi della mia operosità, affrettare la consegna dello spartito e fissare la data della rappresentazione per la stagione autunnale, al Lirico Internazionale di Milano”. Qualche giorno prima, il 2 maggio, Lorenzo Sonzogno, il nipote di Edoardo, gli aveva trionfalmente annunciato che i protagonisti sarebbero stati Eva Tetrazzini ed Enrico Caruso diretti da Cleofonte Campanini, al quale l’opera aveva fatto “buonissima impressione”. A convincere Caruso, “il più restio ad accettare per un’infinità di ragioni”, erano stati Lorenzo Sonzogno, Campanini e l’agente Gustavo Argenti, ma soprattutto l’argent, vale a dire la prospettiva di un ricco cachet: “Naturalmente persuaderò lo zio ad un maggior compenso perché una stagione di Caruso è oggi d’immenso valore”.

Da questo momento a far pressioni su Cilea ci si misero un po’ tutti: l’editore Sonzogno, Campanini (che doveva far studiare lo spartito alla moglie, la Tetrazzini, la quale trovava la parte molto lunga e desiderava che fosse alleggerito per lei il secondo atto), Caruso, il baritono Giuseppe De Luca e il tenore Enrico Giordani, prescelti per interpretare Michonnet e L’abate di Chazeuil. “Fui quindi obbligato a raddoppiare la lena per poter consegnare, in tempo utile, la riduzione dello spartito per canto e pianoforte e la grande partitura. A tal uopo presi in affitto, da una signora inglese, il Villino Belvedere nella vicina Fiesole, e quivi, nei mesi di luglio, agosto e settembre, compii l’opera iniziata ventuno mesi prima”. La signora inglese era Elisa Illingworth, nata a Leeds nel 1849, residente a Fiesole dal 1889, proprietaria di Villa Belvedere, posta sulle pendici di Monte Ceceri, e di cui il Villino era una dépendance. In primavera e in estate la signora Illingworth lo affittava a turisti italiani e stranieri che desideravano trascorrere le vacanze nell’amenità e nella pace delle colline fiorentine: nel 1902 toccò a Cilea; nel 1910 all’architetto statunitense Frank Lloyd Wright insieme alla compagna Mamah Borthwick Cheney, come ricorda anche la targa apposta sulla facciata nel febbraio 1994 dal Comune di Fiesole. Questo era davvero il verde villino del Principe di Bouillon, immerso nella natura dolce delle strade che dai colli di Fiesole portano a Monte Ceceri e alle Cave di Maiano, arricchito da un bel giardino comunicante con Villa Belvedere ma soprattutto impreziosito da un panorama mozzafiato da cui si poteva ammirare tutta Firenze, placidamente adagiata sulle rive dell’Arno e, nel periodo in cui vi soggiornò Cilea, immersa nella torrida calura estiva. Nel 1928, due anni prima la morte di Elisa Illingworth, grazie a una donazione della marchesa Irene di Targiani Giunti, Villa Belvedere passò alla Croce Rossa Italiana che, nel 1933, in occasione del venticinquennale della fondazione del corpo delle Infermiere Volontarie, la trasformò in Casa di Riposo per le consorelle anziane, in memoria di coloro che erano cadute nella prima guerra mondiale.

Fu proprio in questi mesi trascorsi a Fiesole che Cilea incontrò per la prima volta Gabriele D’Annunzio, la più celebre personalità artistica presente in quegli anni a Firenze. Il compositore pensava di mettere in musica la sua Francesca da Rimini e chiese ad un amico del Vate, Adolfo Orvieto, fratello di Angelo, fondatore della rivista “Il Marzocco”, di presentarglielo per convincerlo a realizzare il progetto. “Il poeta rispose con una lettera molto cortese che subito avrebbe acconsentito se non lo avesse trattenuto il pensiero della riduzione della tragedia, aggiungendo che avrebbe desiderato di aver meco un colloquio amichevole. All’invito aderii immediatamente. D’Annunzio dimorava allora non lontano da me nella famosa Capponcina sulla via di Settignano. Disceso da Fiesole, ebbi con lui un primo favorevolissimo scambio di vedute cui altri seguirono a Firenze, durante una colazione al Ristorante Doney, e a Milano, all’Albergo Cavour”. Questa Francesca da Rimini non si fece mai: D’Annunzio chiese un sacco di soldi e Sonzogno rispose che non se ne parlava nemmeno. Fine del progetto dunque, come di tanti altri vagheggiati da molti compositori quando si parla del Vate. “Chi se ne giovò fu Tito Ricordi, che più tardi fece suoi in blocco, e a condizioni assai vantaggiose, tutti i drammi del D’Annunzio, allora in volontario esilio in Francia e bisognoso di danaro”. E se ne giovò anche Riccardo Zandonai che il 19 febbraio 1914, al Teatro Regio di Torino, presentò la sua Francesca da Rimini su un libretto firmato proprio da Tito Ricordi.

Nel settembre 1902 Sonzogno stava ancora aspettando la partitura completa di Adriana Lecouvreur e Cilea si recò a Milano, scendendo all’Hôtel du Nord, l’attuale Principe di Savoia in Piazza della Repubblica, per orchestrare il quarto atto. Da quanto fin qui ricostruito, possiamo ipotizzare che l’opera sia stata composta - tra Firenze, Fiesole e Milano - secondo questa cronologia:

autunno 1898 - inverno 1899 scelta del soggetto
primavera 1900 inizio stesura libretto
autunno 1900 - inverno 1901 stesura atto I
inverno - primavera 1901 stesura atti II e III
fine estate - autunno 1901 stesura atto IV
autunno 1901 - estate 1902 revisione, orchestrazione,
riduzione per canto e pianoforte

I molti mesi che intercorsero tra la scelta del soggetto e l’inizio della stesura del libretto furono occupati anche da una polemica sul “Mondo artistico” del poeta Enrico Golisciani, che con Cilea aveva già collaborato per l’opera d’esordio del compositore, Gina, rappresentata a Napoli il 9 febbraio 1889, il quale rivendicava per sé e per il compositore Giacomo Setaccioli i diritti sulla commedia-dramma di Scribe e Legouvé. Accadde più o meno come nel caso di Giacomo Puccini e Ruggero Leoncavallo per La bohème: Cilea musicò, Setaccioli musicò, ma questa volta non fu il pubblico a decidere perché l’opera del secondo non venne mai rappresentata. Chi l’aveva commissionata, il tenore Roberto Stagno, era morto nel 1897 e nessun editore o impresario ebbe il coraggio di mettersi contro Edoardo Sonzogno. D’altra parte l’idea di portare sulle scene dei teatri d’opera il personaggio storico dell’attrice Adrienne Lecouvreur non era certo una novità: lo avevano già fatto nel 1856 il compositore Edoardo Vera e il librettista Achille de Lauzières, nel 1857 Tommaso Benvenuti e Leone Fortis, nel 1889 Ettore e Giuseppe Perosio.

Datata 10 ottobre 1912 è una divertente lettera da Napoli di Colautti in cui il librettista apprezza la sostituzione della Tetrazzini, “esimia cantante, ma quasi afona ormai”, con Angelica Pandolfini, “assai intelligente” e in possesso di “discreti mezzi vocali”. C’era poi il problema della lunghezza della partitura; secondo il librettista l’editore Sonzogno minacciava “colla forza dei tagli mostruosi”, soprattutto nel terzo atto, e in particolare, nel balletto, evidentemente pensando che non vi fossero molti teatri in grado di mettere in scena il divertissement. Quindi Colautti raccomandava a Cilea che fossero almeno “conservate tutte e tre le dee, così volendo la favola greca. Altrimenti si farebbe come a Cuneo, dove, volendo dare uno spettacolo economico, si propose di togliere uno dei due Foscari”. La missiva si concludeva con un impegno piuttosto drastico in caso di insuccesso dell’opera: “Io sono pieno di fede e di speranza. Se è un fiasco (tutto è possibile in questo pazzo mondo teatrale!) mi fo tagliare anche i testicoli, per punirmi di codesta illusione. Ma mi sembra quasi impossibile ch’io m’inganni con l’esperienza e la severità che posseggo. Io credo fermamente che questa Adriana sarà il piedistallo della tua gloria e della tua fortuna”. Colautti non s’ingannava; l’enorme successo che l’opera riscosse la sera del 6 novembre 1902 al Teatro Lirico di Milano consacrò definitivamente Cilea e risparmiò al librettista la promessa evirazione.

Adriana Lecouvreur arrivò a Firenze il 18 aprile 1903 al Teatro della Pergola dove l’impresario Luigi Cesari aveva scritturato il soprano Cesira Ferrani, la prima interprete di Manon Lescaut e di Mimì, il tenore Francesco Baldini, il baritono Riccardo Stracciari, il mezzosoprano Irma Monti Baldini, il basso Giovanni Bellucci e, nelle parti di fianco, Mario Armandi, Carolina Bosco, Adele Ponzano, Concetto Paterna e Ubaldo De Ferrari. A dirigere l’opera era un giovane maestro veneto di venticinque anni agli inizi della sua carriera ma che era già stato sostituto di Arturo Toscanini alla Scala: Tullio Serafin. A caldeggiarne l’ingaggio ad Amintore Galli era stato in prima persona l’agente Gustavo Argenti, visto che Serafin si era orgogliosamente rifiutato di presentarsi al potente direttore musicale di Casa Sonzogno in cerca di lavoro. “Il nome di Serafin fa onore a chi lo suggerisce e a chi lo scritturerà”, aveva sentenziato Galli. “Mi gettai a studiare come un pazzo (al solito!); e pochi giorni dopo, presentandomi a Firenze, ero in grado di concertare l’Adriana a memoria”, annota il direttore nei suoi ricordi. E prosegue: “Che cara, dolce creatura, era Francesco Cilea! Era venuto a Firenze per seguire la sua Adriana [Serafin evidentemente ignorava che il compositore risiedesse in città, N.d.A.]. Concertai alla sua presenza; lui mi spiegava punto per punto le sue intenzioni, io ascoltavo, prendevo appunti; e, conoscendo l’opera a memoria, non faticavo davvero a tradurre in realtà i desideri dell’autore”. Facendo tesoro di questi preziosi consigli dell’autore, Serafin riprenderà più volte Adriana Lecouvreur nel corso della carriera: pochi giorni dopo la prima fiorentina al Teatro Comunale di Bologna, nel 1904 al Vittorio Emanuele di Torino, nel 1907 alla Fenice di Venezia, nel 1923 al San Carlo di Napoli, nel 1936 e nel 1943 all’Opera di Roma, nel 1950 a Rio de Janeiro, nel 1951 a São Paulo do Brasil, nel 1957 alla Lyric Opera di Chicago e nel 1959 al Massimo di Palermo, conclusione in bellezza del pluridecennale sodalizio con il capolavoro di Cilea avendo come protagonista Magda Olivero, una delle più grandi “umili ancelle del genio creator” (insieme a Raina Kabaivanska, a Renata Scotto e a Mirella Freni: l’opinione è puramente soggettiva e come tale va considerata).

A Firenze, ricorda Serafin, “cantava Cesira Ferrani, già prima interprete della Manon Lescaut di Puccini: sensibilissima artista! Tanto sensibile che alla prova generale, dopo il monologo del terzo atto, svenne. E non fu facile riportarla in sentimento! Il tenore era un toscano dalla voce dolcissima, cantante di stile [Francesco Baldini, primo Gastone nella Tilda al Pagliano nel 1892, N.d.A.]. La Monti-Baldini era la Principessa; Michonnet, Magini-Coletti: magnifico [un lapsus di Serafin: in realtà era Riccardo Stracciari, N.d.A.]. La sera della prima, al Teatro della Pergola colmo di pubblico, il successo fu incondizionato”. Le parole di Serafin sono confermate dalla cronaca-recensione dello spettacolo apparsa il 19 aprile 1903 sulla “Nazione” che riferisce di un teatro gremito: “Nei palchi, nelle poltrone un pubblico molto aristocratico, gran numero di forestieri, un pubblico difficile all’applauso. Non poche persone non hanno potuto trovare palchi, né posti e dovettero accontentarsi di assistere alla seconda rappresentazione”. Chi invece non mancò alla prima recita fu Gabriele D’Annunzio, il quale alla fine dell’opera salì in palcoscenico per congratularsi con Cilea. Secondo le usanze teatrali dell’epoca, la serata fu punteggiata da bis e chiamate all’autore; erano quelle continue interruzioni che mandavano in bestia Toscanini, il quale - come ricorda Serafin - proprio pochi giorni prima aveva clamorosamente interrotto una recita alla Scala: “Toscanini, la sera del 14 aprile 1903, approfittando di una gazzarra scoppiata in teatro a proposito d’un bis preteso dal pubblico, di “È scherzo od è follia” del Ballo in maschera cantato da Zenatello, posò la bacchetta sul leggio, scese dal podio, se ne andò a casa, e la mattina dopo partì per Genova, dove s’imbarcò per Buenos Aires”. I rapporti fra Toscanini e la Scala, così bruscamente interrotti, si riallacciarono soltanto tre anni dopo, nel 1906, con il divieto della replica dei pezzi imposto dal direttore.

Il giovane Serafin non aveva questi poteri e difatti si legge sulla “Nazione”: “Al prim’atto fu ieri sera molto gustata la poetica melodia di Adriana “Io son l’umile ancella”, detta con sentimento dalla signora Ferrani: e si ebbe una chiamata all’autore. Piacque molto il monologo di Michonnet, (…) cantato benissimo, con la sua bella voce, dal baritono Stracciari e se ne chiede la replica: concessa dalle parole: “E dir che così bene”. Dopo la replica, nuovi applausi! Il Maestro, prima della replica, ha avuto una chiamata. Due chiamate dopo le graziose, scene finali del primo atto”. Nel secondo atto il pubblico apprezzò la Principessa della Monti-Baldini, “che canta con anima e ha voce sonora e colorita”, e chiese il bis dell’aria di Maurizio “L’anima ho stanca” e dell’interludio prima dello scontro fra le due primedonne. Il terzo atto, invece, non fece grande impressione e venne accolto con una certa freddezza. Decisamente migliore l’esito del quarto: bissati il preludio, l’aria “Poveri fiori”, “che la signora Ferrani ha detto con la più calda espressione”, e il duetto fra Adriana e Maurizio. Al termine vi furono varie chiamate per i cantanti, per Serafin e per Cilea, anche se l’esecuzione - nota l’anonimo recensore della “Nazione” - “ebbe qualche esitanza, anche in alcuni de’ principali artisti; un po’ stanchi dalle prove, e i cui organi vocali erano, forse, un po’ turbati dalla rigidità della temperatura di questi due ultimi giorni: ma fu, nell’insieme, molto accurata e lodevole”. Insomma, per essere la fine di aprile a Firenze faceva un gran freddo e questo non giovava alle ugole dei cantanti. Gli interpreti delle parti di fianco erano “degni di lode (…), tutti coscienziosi (…), vivaci nelle loro macchiette. Magnifici gli scenari, in ispecie quelli del terzo atto”. Alla seconda rappresentazione “il pubblico non accorse molto numeroso” ma l’esito fu ugualmente caloroso con molti bis e tante chiamate sia agli interpreti che all’autore.

Le repliche di Adriana Lecouvreur proseguirono alla Pergola fino al 5 maggio ma l’opera di Cilea ebbe l’onore di una recita di gala, il 13 maggio, in onore del re Vittorio Emanuele III e della regina Elena in visita ufficiale a Firenze. Fu una serata straordinaria, “splendidissima - riporta “La Nazione” - per la grande accorrenza del pubblico. Si può dire che vi erano quasi tutte le più eleganti signore dell’aristocrazia fiorentina e della colonia straniera”. I posti erano stati venduti a prezzi elevatissimi: i palchi di primo e secondo ordine a 200 lire, quasi 900 euro di oggi. Ciononostante “non era rimasto nell’ampio teatro un posto vuoto. Anche i posti nel lubbione (id est: loggione, come si usa dire ormai da tempo. N.d.A.) erano stati disputati. In certi palchi di primo o second’ordine si vedevano fin quattro o cinque signore. Indescrivibile la ricchezza, lo sfarzo degli abbigliamenti e dei gioielli”. La via della Pergola era “tutta illuminata da grandi lampadari a viticci”, il teatro rischiarato “a luce elettrica e a cera” e ornato “di piante e fiori a profusione”. I sovrani, impegnati in una cena di gala a Palazzo Pitti, arrivarono dopo l’intervallo fra il primo e il secondo atto che si prolungò oltre il consueto, fino al momento in cui Vittorio Emanuele III e la consorte non fecero il loro ingresso nel palco centrale, accolti dalle note della Marcia reale. Maliziosamente “La Nazione” commentò: “Quando si rialzò il sipario per dar principio al secondo atto la bella artista, signora Monti-Baldini, cantò appunto le parole 'dolcissima tortura è quella dell’attesa...'. Alcuni non poterono raffrenare un lieve sorriso”. I sovrani si trattennero anche per il terzo atto e lasciarono la Pergola venti minuti prima della mezzanotte, ancora una volta salutati dalla Marcia reale.

Nei suoi Ricordi Cilea scrive di una ripresa di Adriana Lecouvreur al Teatro della Pergola nell’aprile 1904 ma che in realtà avvenne al Teatro Pagliano nel maggio 1906. Ne fu protagonista il soprano napoletano Emma Carelli, la quale contribuì - secondo la Gazzetta Teatrale Italiana del 20 maggio - al “successo veramente entusiastico” dell’opera, “da non poter stare a confronto con quello ottenuto tre anni fa sulle scene della Pergola; e il maestro Cilea deve essere grato all’insigne artista della potente creazione che ella fa della parte di Adriana (…). Perché è d’uopo confessarlo: la Carelli nulla trascura della sua parte e, mercé la sua arte incomparabile e la voce bella, calda, potente, assurge ad altezze di espressione non mai raggiunte!”. Per la Carelli, grande cantante ma anche coraggiosa e intraprendente donna manager che negli anni successivi gestì il Teatro Costanzi di Roma insieme al marito Walter Mocchi, quell’Adriana fiorentina fu veramente un trionfo: “applaudita in ogni suo pezzo (…) ha dovuto bissare, per volere unanime, l’aria 'Io son l’umile ancella', e il duo col tenore, ha suscitato ammirazione nel melologo di Fedra, che interpreta da grande artista, e quest’ammirazione ha raggiunto il diapason del fanatismo nell’ultimo atto all’aria 'Poveri fiori', cantata magnificamente, e nella scena della morte, resa dalla Carelli in modo meraviglioso”. Ad interpretare la parte di Maurizio era il tenore salernitano Giuseppe Krismer, “cantante fornito di pregi tali da meritare di stare a fianco alla Carelli e di dividere con lei gli onori della scena. È meritatamente applaudito nel duetto con Adriana, nell’aria 'L’anima ho stanca', che deve replicare, e nel racconto guerresco”. Da questo momento i fiorentini torneranno ad applaudire l’opera soltanto nel 1940, al Teatro Comunale, con Magda Olivero nei panni della tragédienne.

Nel frattempo, mentre Adriana Lecouvreur iniziava il suo cammino in tutto il mondo, Cilea si dedicava ad una nuova opera, Gloria, sempre su libretto di Colautti, “di soggetto medievale italianissimo” e ambientata a Siena. “Per essere interamente padrone di me, e potermi dedicare con comodo e con assoluta libertà alla composizione, credetti doveroso di rassegnare le mie dimissioni da Professore del R. Conservatorio Musicale di Firenze”, incarico dal quale peraltro era già stato collocato in aspettativa per ragioni di salute fin dal gennaio 1903. Il Direttore del Conservatorio Guido Tacchinardi così scrisse al compositore il 9 marzo 1905:

Preg.mo Maestro,
prevedevo la Sua risoluzione: la prevedevo e la temevo; e ora Le esprimo il mio rammarico, poiché Ella sa quanto io la stimi come insegnante e come uomo. Trovo giusto, però, che - come Le detta la ragione e il sentimento d’arte - Ella segua la via che, luminosa, Le si apre dinanzi.
Voglia serbarmi in buona memoria e credermi
Suo aff/mo G. Tacchinardi

Dopo otto anni Cilea si allontanò da Firenze per trasferirsi in un appartamento ai Bastioni di Porta Vittoria, oggi viale Luigi Majno, a Milano. Ma è il destino che contribuirà a rendere ancora più distanti quegli anni fiorentini del compositore calabrese: la partitura autografa dell’Adriana Lecouvreur e i materiali per la prima rappresentazione milanese del 1903 sono andati perduti, forse nel pesante bombardamento che nel 1943 distrusse la sede storica di Casa Sonzogno, in via Pasquirolo a Milano. Cilea revisionò l’opera nel 1930 per una nuova produzione al Teatro San Carlo di Napoli, apportandovi numerosi tagli suggeriti da Piero Ostali, il nuovo patron della casa editrice, ed è quindi possibile farsi un’idea della prima versione composta a Firenze soltanto dallo spartito per canto e pianoforte sopravvissuto al secondo conflitto mondiale.

Il presente saggio è il frutto delle ricerche dell’autore e delle notizie reperite nei seguenti testi: T. Celli, G. Pugliese, Tullio Serafin. Il patriarca del melodramma, Corbo e Fiore Editori, Venezia, 1985; F. Perruccio Sica, Francesco Cilea a Firenze, in La dolcissima effige. Studi su Francesco Cilea, a cura di G. Pitarresi, Laruffa Editore, Reggio Calabria, 1999; Francesco Cilea, a cura di D. Ferraro, N. Ostali, P. Ostali Jr., Casa Musicale Sonzogno, Milano, 2000; Lettere a Francesco Cilea1878-1910, a cura di G. Pitarresi, Laruffa Editore, Reggio Calabria, 2001; C. Orselli, Francesco Cilea. Un artista dall’anima solitaria, Zecchini Editore, Varese, 2016.