L’Ape musicale

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UNA VELA, UN SIPARIO | a colloquio con Lamberto Puggelli

a cura di Alessandro Taverna

Quali sono stati i problemi che ha incontrato affrontando la messinscena del Corsaro?

Non che Il corsaro presenti in sé particolari difficoltà drammaturgiche. Semmai in casi come questi il vero problema consiste nell’individuare la tinta dell’opera, la famosa ‘tinta’ verdiana che caratterizza al fondo ogni titolo di questo musicista. Credo che il racconto sia tutto sommato ingenuo, semplice nella sua struttura. Il corsaro è un’opera estremamente romantica, non a caso il libretto è tratto da Lord Byron, uno dei poeti che ha saputo meglio di chiunque altro esprimere questo romanticismo avventuroso, portandolo a un piano quasi emblematico.

Allora qual è la tinta che ha individuato?

Il corsaro è un’opera che sa di mare, un’opera dove si sente il mare, come lo si avverte - e lì si avverte in maniera molto forte - nel Simon Boccanegra. Fatto curioso, se si pensa a Giuseppe Verdi, un uomo così padano, così terragno, eppure proprio lui ha saputo farci avvertire la presenza del mare come se questo elemento occupasse la sua mente. Mi sono mosso allora alla ricerca di quegli elementi che potevano dare conto della semplicità, dell’ingenuità di questo racconto. Per i riferimenti figurativi mi sono volto in molte direzioni, anche a esempi di pittura più tarda, come possono essere le opere del Doganiere Rousseau.

E poi?

Poi ho tenuto ben presenti alcune preziose osservazioni critiche che ci ha lasciato Gianandrea Gavazzeni a proposito del Corsaro, del suo romanticismo acceso. Ma ho trovato che c’è qualcosa d’altro, qualcosa da contrapporre a questa piena di romanticismo, qualcosa che si ravvisa nella drammaturgia stessa di quest’opera ed è suggerito da questa stessa semplicità, un qualcosa che potremmo definire una forma di straniamento epico. Così nello spettacolo ho cercato di tener conto di questo processo di semplificazione che considerasse a sua volta il sapore di mare di cui ho parlato. Ho scelto il partito di abolire le differenze più superficiali tra una scena e l’altra, per ambientare tutta l’opera su di una nave. Ma è una nave raffigurata in modo che possa rappresentare i due campi contrapposti. Sono i due colori, il rosso o il nero, a suggerire che ci troviamo sulla nave dei musulmani o su quella dei corsari: anche questo elemento cromatico così netto rientra nel discorso della semplificazione.

Ma cosa vedrà il pubblico sulla scena?

All’inizio il pubblico dovrà avere l’impressione di trovarsi su di una nave. Nel corso dell’opera la scena si semplificherà sempre più, rivelandosi alla fine per quello che materialmente è: un palcoscenico vuoto e allora gli attributi rappresentativi si riveleranno come elementi simbolici.

Che cosa intende dire?

È come se l’opera ritornasse a essere il luogo della rappresentazione dell’opera: è la tolda di una nave ma è anche un palcoscenico, tutte le vele altro non sono che sipari di teatro. Potrei citare dai miei appunti quel che individua di volta in volta questa giustapposizione. Una vela o forse un sipario. La tolda di una nave o forse il palcoscenico. Gomene, cime, funi, o forse tiri di una macchina scenica. Su questa giustapposizione si costruisce l’intero arco dello spettacolo, che procede verso questa semplificazione. È una maniera per dar conto dell’accelerazione impressa da Verdi alla sua opera: tutto precipita verso la fine con una rapidità e una forza di sintesi di cui lui resta un maestro ineguagliabile. Così, all’ultima scena c’è solo un palcoscenico nudo, solo una corda con cui il protagonista potrà sparire in alto, da dove l’avevamo visto calarsi all’inizio.

La velocità dell’azione lascia qualche spazio all’approfondimento psicologico? Chi sono davvero i personaggi che si muovono in scena nel Corsaro?

Byron pensava al Corsaro come a una vicenda dal carattere mediterraneo, solare, ma con la musica di Verdi il racconto prende una direzione diversa, sembra un’opera nordica, nebbiosa: nel Corsaro verdiano non si sa da dove vengano o dove vadano i personaggi, non si sa bene quali siano certe premesse e implicazioni psicologiche. Non si può negare che il teatro di Verdi abbia occupato uno spazio considerevole nella sua carriera teatrale. Contano anche le contingenze, ma quel che ne viene fuori è un vero e proprio percorso verdiano.

E il percorso è ancora più denso in questi ultimi anni...

Certo, esiste un margine di casualità nel mio percorso verdiano, perché non siamo noi a scegliere i titoli degli allestimenti. Ma infine si tratta pur sempre di tredici o quindici opere, dovrei fare il conto esatto. All’inizio c’è stato un Attila alla Scala nel 1975, fu la mia prima regia in quel teatro e fu uno spettacolo che provocò un certo rumore e raccolse anche forti consensi. Così negli anni seguenti ho potuto allestire quasi tutte le opere maggiori di Verdi, a Milano e altrove. Per tanto tempo non ho fatto nessun titolo degli anni giovanili ed ecco che, nel giro di appena un anno, mi sono ritrovato ad allestire per la prima volta I Lombardi alla prima crociata a Parma, Luisa Miller a Palermo e adesso Il corsaro di nuovo al Teatro Regio di Parma. È molto interessante riaccostarsi a queste prime opere, perché ci ritrovi tutto Verdi. Sono melodrammi che possono presentare dei difetti, non sono un blocco perfetto, ma sono pur sempre prodotti di una mente geniale.

In trent’anni è cambiata anche la generazione dei cantanti con cui ha lavorato. Dal punto di vista strettamente teatrale si possono dire migliori i cantanti di ieri o quelli di oggi?

Non è facile trovare un’unica risposta a questa domanda. Spezzerei tuttavia una lancia per i cantanti di un tempo che si dice non ‘sapessero stare in scena’, cantanti impegnati soltanto a cantare bene ma noncuranti della recitazione. Posso dire che non è affatto vero e non vale la pena fare qui un elenco di nomi. Certo, ieri come oggi è ancora diffusa l’opinione che fare opera significhi fare solo belcanto. Eppure, mai come con Verdi si tratta di un’opinione errata, poiché egli stesso lo ha affermato più volte: non faccio musica, ma teatro.


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