L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Colasanti racconta Anna Achmatova

Il 28 settembre la prima assoluta dell’opera di Silvia Colasanti su Anna Achmatova

Per la prima volta la Scala commissiona un’opera a una compositrice.

Il libretto è di Paolo Nori, la regia di Giulia Giammona.

Anna Skyrleva dirige Orchestra e Coro dell’Accademia.

Elena Ghiaurov interpreta il personaggio di Anna Achmatova come voce recitante.

Dal 28 settembre al 2 dicembre va in scena in prima assoluta Anna A., la nuova opera commissionata dal Teatro alla Scala alla compositrice Silvia Colasanti su libretto dello scrittore e traduttore Paolo Nori, con la direzione di Anna Skryleva (nelle recite anche Bruno Nicoli e Paolo Spadaro) e la regia di Giulia Giammona con scene di Lisa Behensky e costumi di Giada Masi. L’opera, inserita nella programmazione per il pubblico più giovane ma destinata a un pubblico universale, sarà eseguita da solisti e Orchestra dell’Accademia Teatro alla Scala. Colasanti e Nori hanno concepito un lungo flashback in cui confluiscono parti recitate e cantate. La Achmatova ormai prossima alla fine è interpretata dall’attrice Elena Ghiaurov, mentre nei panni di Anna giovane si alternano Laura Lolita Peresivana e Etīna Emīlija Saulīte. Carlotta Viscovo è Lidija Cukovskaja, l’amica di Anna. Aleksandrina Mihaylova e Naslican Karakaş sostengono le due parti di Nina Berberova e Marina Cvetaeva, Valentina Pluzhnikova quelle di Zinaida Gippius e Nadežda Mandel’štam, Geunhwa Lee quelle di Sergej Gorodeckij e Nikolaj Punin, Wonjun Jo e Akilbek Piyazov quelle di Nikolaj Gumilëv e Michail Bulgàkov, Haiyang Guo eZizhao Chen sono Osip Mandel’štam, Damiano Salerno è la voce del Potere e il Coro dell’Accademia interpreta le madri.

Anna A. è dedicata alla figura della poetessa Anna Achmatova (1889 – 1886), tra le voci più alte della lingua russa. Nata nei pressi di Odessa, in Ucraina, si distingue nei gruppi di poeti acmeisti in cui conosce il suo primo marito, Alexei Gumilëv, con cui ha un figlio, Lev, e da cui divorzia nel 1918. Gumilëv viene fucilato per cospirazione nel 1921. La censura si abbatte sulla produzione poetica di entrambi. Il secondo marito muore di tubercolosi; il terzo, Nikolaj Punin, viene arrestato più volte, come anche Lev. Lei riesce a farli liberare, ricorrendo anche all’aiuto di Pasternák, ma Punin viene nuovamente arrestato e muore in un campo nel 1953. La Achmatova riprende a scrivere nel 1940 e durante la guerra viene inviata in un rifugio sicuro in Uzbekistan insieme a un gruppo di intellettuali non del tutto organici ma che il regime voleva proteggere, tra cui Šostakovič (la Settima Sinfonia di quest’ultimo è ricordata anche nell’opera della Colasanti: “Quando ha risuonato la musica della Settima abbiamo voltato gli altoparlanti verso il fronte. Ci assediate? E noi cantiamo”). Nel 1946 viene espulsa dall’Unione degli scrittori sovietici che la considera “congelata sulle posizioni dell’estetica borghese-aristocratica”. Dal 1949 Lev è in un gulag e la Achmatova fa la coda con le altre madri e mogli davanti alle prigioni di Leningrado per avere notizie. Nel 1955 la riabilitano e poi liberano Lev; nel 1962 pubblica la sua opera più nota, Poema senza eroe.

L’opera della Colasanti, in cui si intrecciano canto e prosa, presenta la poetessa negli ultimi giorni della sua vita, all’ospedale di Domoedovo, confortata dall’amica Lidija Čukovskaja che negli anni della censura aveva memorizzato i suoi versi diventandone segreta custode. Dalla conversazione tra le due donne emergono i ricordi della vita di Anna, i lutti, le persecuzioni ma anche la forza della poesia. Quando le mogli e madri degli scomparsi assiepate con lei davanti al carcere di Leningrado le chiedono se può raccontare quello che stanno vivendo, Anna risponde: “Posso”.

Silvia Colasanti spiega ad Andrea Estero nell’intervista contenuta nel numero di settembre della Rivista della Scala: “Nell’opera ci sono tre situazioni musicali distinte: il racconto quando è pieno di informazioni, notizie, l’ho affidato alle voci recitanti, su una musica evocativa dell’orchestra perché qui ci deve essere la massima chiarezza. Poi c’è la narrazione vera e propria, intessuta sulle relazioni tra i personaggi, che ho risolto con una sorta di “canto di conversazione”, dove l’aspetto melodico è affidato all’orchestra: sarebbe ridicolo far cantare in modo fortemente lirico parole, espressioni della quotidianità. Il canto più pieno e spiegato arriva solo in corrispondenza dalla poesia (di Anna o di Mandel’štam) o da altri momenti della storia che hanno una speciale valenza espressiva ed emotiva. Un buon libretto d’opera, in generale, deve avere poche parole che fissano subito un’immagine poetica, evocativa, che offra l’occasione di un’espansione lirica”.

 L’OPERA IN BREVE

ANNA A.

Anna A. porta in scena frammenti della vita e dell’opera della poetessa e intellettuale russa Anna Andreevna Gorenko (1889-1966), affermatasi con lo pseudonimo di Anna Achmatova. L’opera è stata elaborata a partire dal 2022 e completata nel dicembre 2024, frutto del comune interesse per questa figura da parte di Silvia Colasanti e dello slavista Paolo Nori. Articolato in un atto unico, il dramma si apre nel sanatorio di Domoedovo, dove la poetessa è ricoverata, e alterna le riflessioni che Anna condivide con l’amica Lidija Čukovskaja negli ultimi giorni di vita ai ricordi che riaffiorano dalla memoria, a partire dal suo esordio poetico nel 1911. L’intersezione tra passato e presente è resa attraverso due piani distinti: la cornice in forma di melologo, in cui Anna e Lidija recitano accompagnate dall’orchestra, e le scene del passato, in cui i personaggi si esprimono con il linguaggio naturale dell’opera: il canto. Alle due amiche si accostano infatti Anna del passato, il primo marito, Nikolaj Gumilëv, il terzo compagno di vita, Nikolaj Punin, e diversi amici scrittori che la poetessa aveva realmente frequentato o con i quali era stata in contatto: Osip Mandel’štam e la moglie Nadežda, Nina Berberova, Marina Cvetaeva, Zinaida Gippius, Sergej Gorodeckij, Michail Bulgàkov e Boris Pasternak. Appare anche il personaggio allegorico del Potere, aggiunto nelle ultime fasi del processo creativo, al quale è affidata un’ampia aria prima dell’epilogo, mentre un coro femminile, ribattezzato dalla compositrice “Coro di madri”, appare a più riprese nel dramma. Quest’ultimo rappresenta le donne che durante gli anni del regime stalinista sostavano in fila al freddo fuori dal Carcere delle Croci di Leningrado in attesa di notizie circa le sorti dei propri figli e mariti reclusi, e delle quali Anna, che per 17 mesi ne condivise il destino, si fece voce attraverso il ciclo poetico Requiem.

L’opera porta in scena avvenimenti realmente accaduti, ma la loro rievocazione sotto forma di flashback non cronologicamente ordinati genera un intreccio frammentario e diacronico che ricorda Poema senza eroe, composto a partire dal 1940 econsiderato il capolavoro dell’autrice. Al racconto storico frammentato si contrappone il tempo circolare della dimensione affettiva, sempre tesa e cangiante, che sottolinea l’attualità delle situazioni vissute da Anna e incoraggia la partecipazione emotiva, elemento-cardine della poetica di Colasanti. Non mancano i cortocircuiti temporali, tra cui i momenti in cui Anna del presente e Anna del passato recitano insieme alcuni testi. Alcuni di essi generano significati specifici: quando nel 1933 Mandel’štam si esprime criticamente nei confronti del regime, Anna chiude le orecchie a Lev, il quale, sebbene ormai quasi adulto, è indicato in partitura come “piccolo”, sottolineando così il ruolo protettivo che la donna svolse per tutta la vita nei confronti del figlio e il costante impegno per la sua liberazione. Sebbene appaia fugacemente in scena e non proferisca parola, Lev assume un ruolo centrale nell’opera e si configura come una presenza-assenza. L’attesa angosciosa di Anna per la sua visita in ospedale attraversa infatti tutta la composizione, richiamando in chiaroscuro quella vissuta durante la sua prigionia e conferendo unità e direzionalità al dramma.

L’opera ingloba documenti storici, citazioni e numerosi testi poetici, con particolare rilevanza data alle liriche della silloge Requiem, che ne costituiscono il fulcro poetico. Elaborata in segreto durante gli anni più duri del regime stalinistae circolata in forma clandestina grazie alla complicità degli amici di Anna che ne mandarono a memoria i versi, questa raccolta venne pubblicata solo nel 1963. Anna A. si apre con l’introduzione della silloge, aggiunta nel 1957, declamata e cantata a due voci da Anna del presente e Anna del passato, e termina con le due liriche che concludono il ciclo. Ai suoi versi si accostano quelli di altri poeti russi, come Velimir Chlebnikov e Mandel’štam, di cui viene presentato il celebre epigramma che burla Stalin.

In un raffinato rispecchiarsi del dramma nella poetica di Achmatova, il testo e la veste musicale rievocano il tono colloquiale delle liriche dell’autrice e la musicalità dei suoi versi, messi in musica anche da compositori quali Sergej Prokof’ev e Arthur Lourié. Alla forte tragicità di alcuni episodi s’intrecciano momenti di grottesca ironia, come le scene in cui Mandel’štam e Bulgakov prendono in giro il regime, entrambe in drammatica contrapposizione con l’incombere della figura del Potere, o di grande tenerezza, come gli incontri con Gumilëv che incoraggia Anna a diventare una poetessa agli esordi della sua carriera, e con Mandel’štam a Pietroburgo nel 1921.

Tema centrale dell’opera è il rapporto tra arte e potere. La riflessione sulla condizione degli intellettuali e sull’insensatezza del potere autoritario che uccide «per niente» va quindi oltre il caso specifico. Il Potere incombe sempre in scena e si presenta come un personaggio seduttore, che prevarica quando si avverte il peso della libertà, prestigiatore che ipnotizza e incanta e che rompendo la finzione teatrale si rivolge direttamente agli spettatori dell’opera. Indomita di fronte alla dittatura annichilente si pone Anna, una figura quasi eroica, coinvolta affettivamente ma salda come uno scoglio tra le onde.

Il flusso di ricordi porta in scena un intrigo di tematiche care alla produzione di Colasanti, tra cui il tema della solidarietà fra donne e della maternità già affrontato in Proserpine ein altri lavori, e qui calato nel rapporto col figlio Lev. A percorrere tutta l’opera è però la forza trasformatrice dell’arte, il cui potere eversivo e salvifico si fa canto di un popolo e gesto estremo di libertà e di resistenza, lo stesso che fa sì che una madre distrutta dal dolore riesca ancora a sorridere all’idea che quel dolore inesprimibile possa diventare poesia.

Federico Lanzellotti

dal programma di sala del Teatro alla Scala

 IL SOGGETTO

anna a.

 

Marzo 1966. Ricoverata nel sanatorio di Domoedovo, non lontano da Mosca, la poetessa e intellettuale russa Anna Achmatova sta per morire. Accanto a lei si trova l’amica scrittrice Lidija Čukovskaja, che si sarebbe fatta carico di raccogliere e in seguito pubblicare un ampio nucleo di testimonianze sulla vita della poetessa, critica nei confronti del regime stalinista negli anni delle “Grandi Purghe” e solo tardivamente riabilitata dal regime sovietico. Progressivamente nella mente di Anna riaffiorano i ricordi, generando un doppio piano temporale: da un lato la dimensione presente, in cui la poetessa dialoga con Lidija, dall’altro il passato, da cui riemergono immagini e personaggi, tra cui la stessa Anna da giovane. Il primo ricordo è uno dei più dolorosi: dal marzo 1938 per diciassette mesi la donna si era recata ogni giorno al Carcere delle Croci di Leningrado in attesa di notizie del figlio Lev, a più riprese incarcerato dal regime stalinista. Subito dopo ne appare invece uno felice risalente al 1911, quando il primo marito Nikolaj Gumilëv, padre di Lev e poeta già affermato, aveva incoraggiato la giovane Anna a scrivere. Il quadro successivo porta i due coniugi a una festa da ballo a casa di Zinaida Gippius, dove sono presenti altri intellettuali e scrittori del tempo, tra cui Nina Berberova, Osip Mandel’štam, Sergej Gorodeckij e Boris Pasternak. Lidija ricorda quindi ad Anna il «rito splendido e doloroso» con cui era stata resa possibile la circolazione delle sue opere negli Anni del Terrore: per eludere i serrati controlli del regime aveva imparato a memoria le poesie dell’amica, prima di bruciarle nel posacenere, garantendone una diffusione capillare.

L’apparire della poetessa Marina Cvetaeva evoca, invece, il tema della diaspora degli artisti che lasciarono la Russia sovietica e, al tempo stesso, della resistenza di coloro che rimasero e incorsero nella condanna formalista, la stessa che portò Cvetaeva al suicidio. In un continuo avvicendarsi di ricordi delicati e dolorosi, due immagini emergono dal passato rievocando un tenero incontro con Mandel’štam a Pietroburgo nel 1921 e una serata a casa di Anna nel 1933, in compagnia degli amici Nadežda Mandel’štam e Nikolaj Punin, terzo compagno di vita della poetessa. Approfittando del clima di leggerezza, con irriverente ingenuità Mandel’štam recita un bruciante epigramma in cui condanna Stalin e la sua politica repressiva. Lidija suppone che Lev e Punin siano stati arrestati proprio per aver presenziato alla lettura di quel testo, che aveva provocato la condanna dell’autore, e ricorda come tanti pensatori e amici di Anna, solo tardivamente riabilitati, erano stati uccisi o deportati per ciò che avevano scritto, tra cui lo scienziato Matvej Petrovič Bronštejn, marito di Lidija. Segue la rievocazione della telefonata di biasimo che Stalin fece nel 1933 a Pasternak, il quale, dopo l’arresto dell’amico Mandel’štam, aveva tentato invano di salvarlo, ma temendo la stessa sorte, non si era esposto. Le due donne ricordano quando nel 1935 Anna aveva scritto a Stalin una lettera per chiedere la liberazione di Lev e di Punin, i quali erano stati rilasciati per essere in seguito condannati ai campi di prigionia, dove quest’ultimo sarebbe morto nel 1953. Qui risuona l’amaro commento dell’amico Michail Bulgakov, a cui Anna si era rivolta per chiedere suggerimento, certo che la missiva sarebbe stata letta: in un tempo in cui gli intellettuali vivevano sotto stretta sorveglianza, Stalin sembrava conoscere persino i loro pensieri.

Acconsentendo alla preghiera tormentata di Anna, che si chiede se Lev sia arrivato in ospedale per trovarla, Lidija si allontana, mentre appare il ricordo di Marina Cvetaeva, che le rimprovera le liriche patriottiche scritte in gioventù, tra cui «Dammi molti anni di malattia» (1915), come profezia della sua condizione attuale. Anna del passato intreccia quindi con Mandel’stam un duetto sui temi della morte e degli addii, imperniato sul dialogo tra due liriche con incipit affine: «Ho imparato la scienza degli addii» di Mandel’stam e «Ho imparato a viver con saggezza» da Rosario (1914) di Achmatova. A seguire Lidija ricorda ad Anna quando durante l’assedio di Leningrado le sue poesie erano diffuse per le strade tramite gli altoparlanti per incoraggiare la popolazione alla resistenza e la sua voce raggiungeva tutti, «persino i morti». A queste parole i fantasmi di Pasternak, Bulgakov, Cvetaeva, Mandel’stam riappaiono e intrecciano un coro a quattro voci. Si manifestano quindi le figure grigie che rappresentano i russi rimasti a Leningrado durante l’assedio nazista, tra cui si riconosce il poeta Gorodeckij, il quale subito si unisce alle voci dei compagni e, insieme a Nadežda e Anna del passato, dà vita a un concertato che inneggia al potere salvifico della poesia. L’inno è però interrotto dall’ingresso in scena della personificazione del Potere, che intona un lungo monologo ispirato alla scena del Grande Inquisitore dai Fratelli Karamazov di Dostoevskij. Con tono mellifluo e autoritario, il Potere mette a tacere gli intellettuali, ricorda la propria imperitura presenza nelle comunità degli uomini e, rivolgendosi al pubblico, dichiara i vantaggi del rinunciare al pensiero critico e alla libertà per ottenere un benessere illusorio e un’edonistica spensieratezza.

L’opera si chiude circolarmente con un duplice focus sul rapporto di solidarietà e compassione ‘al femminile’: tra Anna e Lidija, alla quale la poetessa chiede di passare a un più familiare “tu”, e tra Anna e le donne fuori dal carcere, delle quali la poetessa si è fatta voce nel ciclo Requiem. In questo luogo di dolorosa attesa, la donna desidera essere commemorata. All’alba Anna sta per morire. Come a ricongiungersi col proprio passato, si dirige verso la porta e si rispecchia nella giovane Anna, ricucendo la cesura tra ricordo e realtà e concludendo l’opera con un presente, che, pur memore di un passato incancellabile, vuole lanciare un messaggio di speranza verso il futuro.

Federico Lanzellotti

dal programma di sala del Teatro alla Scala


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