Vladimir e il podio

 di Roberta Pedrotti

Nel ventennale dalla scomparsa, avvenuta proprio a Bologna, di Vladimir Delman, un concerto con programma interamente russo è il tributo della città alla memoria del maestro di Leningrado, naturalizzato italiano e profondamente legato alla città petroniana. Al previsto Fedoseyev subentra felicemente sul podio l'autorità meticolosa di Vladimir Ponkin

Bologna, 14 dicembre 2014 - Non tutti i mali vengono per nuocere. Dispiace, e molto, la defezione di Vladimir Fedoseyev, direttore designato per il concerto del Teatro Comunale di Bologna in occasione del ventennale dalla scomparsa di Vladimir Delman, ma una volta tanto l'inciampo si è risolto con la fortuna di avere a disposizione un terzo Vladimir, Ponkin, reduce dalle splendide recite della Lady Macbeth del distretto di Mzensk.

Vedendolo salire sul podio l'associazione immediata è con il frac di Toscanini custodito nella casa natale parmigiana: la sagoma asciutta di un omino che emana una forza, una fermezza e un'autorità impressionanti. Così è anche il gesto di Ponkin, senza nessuna ricercatezza estetica, senza fronzoli, senza lusinghe, nettissimo, inesorabile, lineare, perentorio. Un piacere severo vederlo dirigere con tutta la precisione e la fierezza di una vecchia scuola russa (e sovietica) che non vorremmo passasse mai di moda e ha come ultimo paladino proprio un quarto Vladimir, Jurowski.

Il cambio repentino di bacchetta suggerisce anche un cambio di programma, forse per semplificare le prove in tempi rapidi coniugando al meglio il repertorio del maestro con quello dell'orchestra (che ha suonato in Evgenij Onegin solo pochi mesi fa): certo è che, se pure avremmo ascoltato con piacere la Sinfonia n. 4 In memoria di Michelangelo di Giya Kacheli, il Valzer e la Polonaise dal capolavoro di Čajkovskij è particolarmente indicato per l'occasione, richiamandosi idealmente all'ultima apparizione bolognese di Delman, in una produzione del 1991 resa memorabile anche dalla presenza di Mirella Freni, Paolo Coni, Giuseppe Sabbatini e Nicolaj Ghiaurov.

Ponkin non concede nulla a stucchevoli abbandoni e languido lirismo, ma fa vibrare le corde più intime del tema di Tat'jana intagliandolo, si direbbe, nel ghiaccio boreale, con una cura meticolosa del dettaglio, che si scioglie in danze teatralissime per la spazialità delle dinamiche, per la guizzante precisione con cui i ritmi sono delineati, liberi da ogni ridondanza. E, pure, non manca di spirare l'eleganza un po' provinciale delle feste presso la vedova Larina o la grandiosità di palazzo Gremin, l'incoscienza leggiadra della gioventù e la consapevolezza dell'età adulta, mentre lo spirito del Musikverein viene filtrato attraverso cristalli di neve e sottilissima ambra baltica.

Segue la Suite medievale in Mi maggiore op. 79 di Aleksandr Glazunov, anello di congiunzione didattico fra Rimskij Korsakov e Šostakovič. Sulla scia del lussureggiante maestro, l'autore di Raymonda coglie la natura di questi pannelli di genere senza ambire a un'antichità di maniera. Non pesta i colori nel mortaio ripetendo le tecniche e l'iconografia di Giotto, ma utilizza tele, oli, pennelli del suo tempo per dar forma a un suo proprio medioevo, non filologico ma letterario, non storico ma, potremmo dire, fantasy, con la sua suggestione coerentemente e verosimilmente non realistica. Come ogni genere anche questo comprende capolavori e creazioni effimere: la suite di Glazunov non sarà un caposaldo della letteratura sinfonica, ma, così accurato nella scrittura e nella strumentazione, può ben meritare il suo posto nel repertorio concertistico, soprattutto se affidato a bacchette acute e dominanti come quella di Ponkin.

Il meglio viene, però, inevitabilmente nella seconda parte con il vero pezzo forte della serata, quell'impressionante Prima Sinfonia che Šostakovič diciannovenne presentò già perfettamente formata al suo esame di composizione in Conservatorio. Pensare al confronto con i tormenti del giovane, timido  Čajkovskij nel licenziare la sua Prima Sinfonia, da poco udita nella stagione del Comunale e così densa di intuizioni lampi di genio e incertezze, non va a detrimento, ovviamente, di nessuno dei due titani russi, ma illumina in maniera piuttosto eloquente personalità e percorsi diversi, non privi - per usare un eufemismo - di accidenti. Resta il fatto, raro in un esordio, che la Prima di Šostakovič sia un capolavoro, sia compiuta e complessa, articolata con proprietà, ricca ed eloquente con giusta misura, ardua nell'esecuzione ma non meramente virtuosistica. Ponkin le rende giustizia, guidando l'orchestra come un fiero e ferreo generale cui nulla sfugge e il cui rigore non è sinonimo di rigidità, bensì di una musicalità cristallina, minuziosa, una lettura profonda e analitica, chiara, fluida, tagliente e arguta com'era quella dello Šostakovič operista appena applaudito al Comunale.

I concerti sinfonici programmati nelle sere domenicali non sono mai i più affollati, ma, dopo un istante di concentrato silenzio, gli applausi sgorgano copiosi e accolgono con Ponkin tutte le prime parti e le sezioni che il maestro siberiano fa alzare singolarmente e conduce – talora con ordine imperioso e ironico fin nell'invitare all'inchino – al proscenio. La sostanza del grande musicista riconosce il valore del lavoro collettivo, ma non perde mai l'autorevolezza e tiene stretto, fin nel minimo sguardo, lo scettro del comando, sintetizzando l'essenza del mestiere del direttore. Omaggio perfetto, dunque per un maestro russo di nascita e di scuola che, naturalizzato italiano, segnò come pochi la vita musicale del nostro Paese, sia con le sue intense collaborazioni con i teatri di Bologna o Torino, sia con la fondazione dell'Orchestra Verdi di Milano, splendida realtà e paradosso pulsante di come una delle più attive e prolifiche istituzioni concertistiche europee e possa essere anche una delle più penalizzate dai finanziamenti statali, che ne pongono regolarmente (e in maniera surreale) a rischio l'esistenza.