Primedonne nel retroscena

 di Roberta Pedrotti 

Arturo Colautti

Primadonna

a cura di Paolo Patrizi

Roma, Elliot Edizioni, 2014

pagine 280

ISBN 9788861925830

Ci sono dei romanzi la cui fortuna sembra riposta, a lungo termine, nell'amorevole custodia della nicchia del pubblico melomane. Oggi, quando sfuma la tradizione dei classici ottocenteschi per i più giovani, non saranno gli adolescenti a ricordare Walter Scott per Ivanohe, ma più facilmente gli amanti del belcanto, cercado le rare edizioni della Sposa di Lammermoor.

Così, benché la carriera di librettista sia stata, tutto sommato, un ripiego e un'appendice ai molteplici impegni giornalistici, letterari e politici di Arturo Colautti (1851-1914), se oggi riprendiamo in mano i suoi scritti è per lo più perché lo ricordiamo autore dei versi di Adriana Lecouvreur, Fedora o di Paolo e Francesca di Mancinelli.

Primadonna è il romanzo di una vita: la sua gestazione assorbì Colautti per lunghi anni fino a che la morte non lo lasciò incompiuto e postumo, destinato a una prima pubblicazione disordinata e raffazzonata cui Paolo Patrizi per l'editrice Elliot ha di recente posto rimedio con un'accurata revisione che ripristinava anche l'ordine logico dei capitoli. Alcune incongruenze, dovute all'estenuata lavorazione e alla mancanza di una revisione finale, sono ben segnalate e argomentate in nota.

È il romanzo di una vita, però, anche perché profondamente autobiografico. La corrispondenza fra Arturo Colautti e il suo protagonista Carlo Coletti è evidente, anche se ben dissimulata, e rende meglio comprensibile anche l'atteggiamento ambivalente verso Giulia, la povera moglie letteraria per la quale non riusciamo a non provar compassione, nonostante l'evidente fastidio e l'epiteto reiterato di Santippe ricordino costantemente l'infelicità del matrimonio reale di Arturo.

Quel che però più affascina il pubblico moderno frequentatore di ambienti musicali e teatrali, di artisti, agenti e giornalisti, è la modernità e la vivacità di un ritratto fedelissimo preso dal vero. Da un vero che era tale ai tempi del Teatro alla moda di Benedetto Marcello, ai tempi in cui Macrobio nella Pietra del paragone rossiniana cantava il via vai di maestri, mamme e prime ballerine nella sua redazione. Dai tempi delle Convenienze e inconvenienze teatrali fino ad oggi. Tutto il sottobosco di redattori onesti e corrotti, di critici intoccabili con la loro corte di cantanti deferenti, di profittatori, di ricatti sessuali, di favori familiari prende vita come nostro contemporaneo, perché tale è e Colautti ha il pregio di avercelo mostrato un secolo fa con penna acutissima. Le miserie di oggi son le stesse di allora, sembra di riconoscere i volti dietro le maschere di De Rubris, di Violini o Puffignani, e basterebbe solo porre loro nomi noti di nostri contemporanei. Quella quotidianità che potremmo leggere in un saggio o in una biografia, inserita nel romanzo, ci rivela con la massima forza la sua prossimità.

I capitoli ambientati nel Caffè del Teatro o nella redazione del Sistro sono gustosissimi, ma ancor più sorprendono i sogni di gloria modernissimi di Carlo, che progetta una rivista che sfrutti la velocità crescente dei mezzi di comunicazione (nel suo caso il telegrafo) e il fascino delle immagini. Non si tratta di preveggenza, ma della natura stessa del Quarto potere, che Colautti intese sì bene da ritrarla già un secolo fa come sarebbe stata, immutata e esponenzialmente cresciuta nei mezzi, oggi.

Il romanzo interessante non merita attenzione solo per l'aspetto corale e per l'ambientazione. Colautti tratta un soggetto e dei temi non rari al suo tempo, ma nella forza del contesto e nella partecipazione conferita dall'ispirazione autobiografica il percorso dell'uomo e del giornalista Carlo Coletti trova spunti e soluzioni interessanti, fino a un finale perfetto. Forse reso tale per il lettore moderno dalla cesura imposta dalla morte dell'autore, ma perfetto. Da apprezzare, poi, l'ironia e il realismo che traspaiono anche nelle scene di genere più lacrimevoli, cosicchè anche quando pare che si paghi il tributo a un gusto datato con madri piangenti e infanti languenti, il bozzetto del baritono timoroso del contagio o della conclusione fra l'insensibile medico e la sensibile – ma professionale – prostituta alleggeriscono la lettura e la rendono più intrigante per il lettore moderno.

Se poi il lettore moderno è musicofilo, allora godrà ancor di più la prosa fitta di metafore canore e armoniche, godrà dei riferimenti palesi o celati a opere, compositori e musicisti, del ricorrere della polemica fra alfieri della tradizione belcantista e dell'avvenire wagneriano, o ancora di allusioni e suggestioni più sottili, delle diverse incarnazioni di Musetta o dei mazzolini di violette che proprio nella penna del librettista di Adriana tornano come sciagurati pegni d'amore.

Di più è meglio non rivelare per non togliere al lettore il gusto del romanzo.

Si potrà però salutare con piacere l'occasione di gettare nuova luce e rivalutare – o, almeno, meglio delineare – la figura di Colautti, talora vituperato per certo dannunzianesimo ritorno dei suoi libretti (particolarmente infelice quello dantesco per Mancinelli) e su cui ha gravato un'appropriazione di regime quale “fascista ante litteram” forse ricercata all'epoca in buona fede dalla figlia adottiva, ma certo impropria per un intellettuale morto prima che l'Italia entrasse nel primo conflitto mondiale e che ebbe l'unica colpa, da italiano dalmata, di un vigoroso patriottismo e irredentismo.

Inserito nella temperie del suo tempo, Colautti come romanziere crea comunque una figura di Femme fatale decisamente atipica, quasi deliberatamente creata dalla fantasia di Carlo, e dimostra di saper calibrare i registri, fra satira e tragedia, e di sfumare la voce narrante nel rendere i punti di vista dei diversi interlocutori, insinuandone le prospettive anche al di fuori dei discorsi diretti, con tecnica piuttosto scaltrita. Il rapporto fra il singolo e la società sembra già emanciparsi dalle voluttà dannunziane e dalle mode letterarie per gurdare a temi che saranno portanti nel secolo nascente.

Non si griderà per questa pur piacevole lettura al capolavoro riscoperto, ma si potrà ben dire che la figura di Arturo Colautti è assai più interessante di quanto non ci abbiano fatto credere finora i suoi versi musicati da Cilea o Giordano. “Bella tu sei come la mia bandiera”, da bizzarra dichiarazione di un nobile a un'attrice, spira ancora di fremiti autobiografici e fa il paio con il sogno di giornalismo politico coltivato dal critico musicale Carlo Coletti, uomo dai mille difetti, insensibile verso la moglie e roso da insoddisfazioni profonde e sogni impossibili, ma anche uomo dallo straordinario slancio ideale, visionario, utopistico. Come era, o almeno si sentiva, questo intellettuale irredento, giornalista e letterato per vocazione, librettista per necessità. Un uomo del suo tempo che del suo tempo ci ha restituito un ritratto straordinariamente simile al nostro.