Dei mottetti è il fin la meraviglia

 di Valentina Anzani

Al termine del convegno “Musica per la Salute”, l’Accademia degli Astrusi e il suo direttore Federico Ferri hanno tenuto un concerto nella Cappella Farnese di Palazzo d’Accursio: ospite d’onore è stata Elena Cecchi Fedi, soprano di sopraffina arte retorica e virtuosistica.

Bologna, 17 dicembre 2014 – Due sono i filoni, intrecciati, che formano il programma: i concerti da chiesa del Sei-Settecento (e tra essi in particolare quelli concepiti per le feste del Natale, caratterizzati dal movimento cullante e dai lunghi bordoni delle “pastorali”) e gli stupefacenti mottetti a voce sola concepiti per i grandi soprani virtuosi dell’età del Barocco. Del primo gruppo fanno parte il celebre e superbo Concerto grosso op. VI n. 8 di Arcangelo Corelli, il meno celebre ma non meno superbo Concerto grosso op. VIII n. 6 di Giuseppe Torelli, nonché una prelibata rarità, il Concerto op. I n. 10 di Lorenzo Gaetano Zavateri: tre partiture dove hanno modo di distinguersi anche i valenti violinisti soli, Claudio Andriani e Maurizio Cadossi, prodighi di accenti e diminuzioni.

Del secondo gruppo fanno parte tre partiture, ben note o introvabili a seconda dei casi, tutte caratterizzate da difficoltà esecutive estreme: è dunque raro poterle ascoltare singolarmente dal vivo, ed è ancor più raro godere di un soprano in grado di sostenere, per sesto grado tecnico ed emotivo, la loro esecuzione consecutiva. Ai mottetti in particolare si rivolge il presente commento, mentre tutto il programma va lodato per il suo presentare i brani non in sbrigative trascrizioni dalle fonti originali, ma in edizioni critiche spesso commissionate ad hoc e mirate a ripulire errori di tradizione e spiegare prassi esecutive dimenticate: ciò costituisce un esempio lampante dei virtuosi rapporti che l’Accademia degli Astrusi, orchestra di strumenti originali residente a Bologna, intrattiene con i musicologi per una riproposta storicamente informata delle partiture scelte.

L’importanza di una tale comunione d’intenti è evidente soprattutto nel famoso mottetto Saeviat tellus inter rigores di Georg Friedrich Händel, imponente capolavoro giovanile che al soprano richiede estensione enorme, agilità di forza, abbandoni estatici e rigorosi duetti con l’oboe: tutte cose da far tremare i polsi, quando al conforto della sala d’incisione si sostituisca il senza-rete dell’esecuzione dal vivo. Come se ciò non bastasse, l’edizione oggi in uso corrente del mottetto si è rivelata una collezione di fraintendimenti testuali: nel concerto bolognese molte sono state le novità assolute, cioè i ripristini secondo l’autentica volontà dell’autore, sia nel testo letterario (che finalmente ha ritrovato il suo senso in alcuni passi) sia in quello musicale (dove sono tornati al loro posto la giusta distribuzione delle parole, i segni di ornamentazione, nonché l’intera orchestrazione di un’aria finora creduta per i soli voce e basso continuo: gli studi e i risultati si devono a Francesco Lora, che al mottetto aveva già dedicato parole nella Cambridge Handel Encyclopedia).

Quando poi la conoscenza degli studiosi, la brillante dedizione degli strumentisti (in testa l’oboe solista di Paolo Pollastri) e il gagliardo entusiasmo del direttore, Federico Ferri, hanno la fortuna di coniugarsi con il canto di un’interprete d’eccezione, il risultato non può che essere superlativo: il soprano Elena Cecchi Fedi associa alla riservatezza della persona un patrimonio vocale d’assalto, dove le semicrome sono sgranate millimetricamente senza mai perdere tensione e intonazione, dove le arie d’espressione trovano un aereo abbandono nel contempo pieno d’orgoglio, e dove il rischio estremo è disprezzato in nome del voler dare il massimo a tutti i costi, senza sconti a sé stessa; il lunghissimo e articolatissimo trillo di due battute tra Re e Mi sopracuto, nelle variazioni del da capo della prima aria, lo dimostra a oltranza e lascia di sasso l’uditorio.

Non di minore impegno erano gli altri due mottetti in programma: il famoso Nulla in mundo pax sincera di Antonio Vivaldi (pirotecnico soprattutto nell’«Alleluia» conclusivo, attaccato speditissimamente) e il vertiginoso Aestuat mundi mare di Giacomo Antonio Perti (probabilmente scritto a quattro mani con l’allievo Giambattista Martini). In questa seconda partitura, di squisito gusto galante e con pretese virtuosistiche considerevoli, la Cecchi Fedi e Ferri sfoggiano ammirevole erudizione quando, per ciascuna delle due grandi arie tripartite, predispongono le cadenze in gerarchia al termine di ogni sezione (cadenza di medio respiro al termine di A, cadenza di breve respiro al termine di B, cadenza di ampio respiro al termine di A’: al giorno d’oggi, di norma, è molto se una sola cadenza frettolosa prende l’ultimo dei tre luoghi). Al soprano in particolare si deve il gusto dell’improvvisazione, nonché l’ars oratoria nello scolpire o soppesare i recitativi e l’intero testo latino, fino al perfetto dosaggio del gioco dinamico, espresso nelle emozionanti messe di voce emesse anche su note estreme della gamma.

Dopo l’incontro in Händel, la triplice brillantezza del canto della Cecchi Fedi, dell’oboe di Pollastri e della direzione di Ferri, nonché dell’orchestra tutta slanciata a piena voce (magnifica è l’esuberanza del suono dell’organo aperto, spesso erroneamente relegato a timido e quasi impercettibile sostegno: alla testiera, del resto, sedeva lo specialista Matteo Messori), è tornata in un pezzo di congedo concesso a furor di popolo: la sfarzosa antifona Cantantibus organis per il vespro della festa di santa Cecilia, un gioiello di Alessandro Scarlatti, come sigla di un percorso ideale ed esaltante lungo tutta l’Italia barocca.