Il riscatto della favola dimenticata

 di Carla Monni

Dopo 14 anni dal suo debutto in prima nazionale a Cagliari, torna al Teatro Lirico, a chiusura della Stagione Lirica e di Balletto 2014, l’opera comico-fantastica in quattro atti e sette quadri di Pëtr Il'ič Čajkovskij, Gli Stivaletti.

Leggi la recensione della recita del 28/12/2014 con la prima compagnia

Cagliari, 27 dicembre 2014 – Dopo ben 14 anni dalla prima rappresentazione de Gli Stivaletti (Čerevički), il Teatro Lirico di Cagliari ripropone l’opera comico-fantastica di Pëtr Il'ič Čajkovskij, tratta da La notte prima di Natale, novella inclusa ne Le Veglie alla fattoria presso Dikan’ka di Nikolaj Gogol’, una serie di racconti ambientati nella natura che circonda le rive del grande fiume ucraino Dnepr, in cui si aggirano personaggi reali e fantasiosi insieme, come cosacchi fascinosi e piacenti contadine, diavoletti dal muso allungato, streghe malvagie e graziose rusalke. Gogol’ romanza il mondo del villaggio di Dikan’ka: luogo stregato e mitico, ricco di amori contrastati, avventure bizzarre e situazioni spassose, il tutto concepito con un pizzico di umorismo grottesco e raffinato.

Il soggetto della novella, riadattata dal poeta progressista Jakov Polonskij, fautore della poesia più pura e artefice di una lirica in cui predomina una visione costante della natura, è squisitamente comico. Čajkovskij, dopo Friedrich Schiller e Aleksandr Puškin tra gli altri, fu pronto a cimentarsi nel mondo fiabesco e popolare di un altro poeta russo, affascinato dall’originalità, dalla profonda poesia e dai bellissimi versi del drammaturgo. Composta nel 1874 inizialmente con il titolo Il fabbro Vakula, l’opera fu rielaborata nel 1885 con il titolo de Gli Stivaletti. Ancora una volta, al pari degli altri lavori fantastici čajkovskijani, l’autore mostra il volto di San Pietroburgo, la città russa per eccellenza più affascinante dal punto di vista artistico-culturale. Come ha fatto anche Gogol’, il compositore crea un mondo tipicamente hoffmanniano dove la realtà incontra l’immaginazione, e in cui converge una narrativa plurima, a metà tra il fiabesco, il comico, il grottesco, l’avventuroso, l’horror. Il tutto viene trasportato poi nella brillante capitale del Nord e nel piccolo villaggio ucraino di Dikan’ka, dove si svolge l’azione e in cui si estendono tutta la magia e il mistero del folklore russo e ucraino, tra zar e zarine, principesse ed eroi maltrattati.

Sullo sfondo di una notte stellata con una 
enorme falce di luna si estende, per la seconda volta a Cagliari, la ricchissima scenografia e gli sfarzosi costumi ideati da Vjacheslav Okunev, affiancato da Irina Vtornikova per le luci e da Nadezda Kalinina per le coreografie. A unire le due differenti realtà (Dikan’ka/San Pietroburgo), lo scenografo e il regista Yuri Alexandrov mirano a raccontare in maniera semplice quanto spettacolare la favola gogoliana. Optano in primis per un elemento scenico conduttore, ovvero il famoso uovo Fabergé, che, come una matrioska che si scompone in pezzi, svela senza troppi scrupoli i due mondi: nell’uovo blu è custodito il microcosmo del villaggio, mentre quello bordeaux contiene lo sfarzo della corte di Caterina II. L’enorme uovo che procede al centro della scena fa da contenitore multiforme per le vicende dei personaggi, e inoltre permette, tra un quadro e l’altro, il cambio degli innumerevoli paesaggi: l’interno delle case 
dei protagonisti con finestrelle, semplici 
arredi e oggetti essenziali; il villaggio dove la folla in festa canta e balla fra le case che pendono dal cielo; l’ambiente di corte settecentesco dove dame e cavalieri, con indosso vestiti regali, sontuosi copricapi piumati e maschere decorate, si spostano sulla scena con delicate movenze; o ancora i balletti – interpretati dalla compagnia del Kiev Opera Ballet – di cui si respira una ventata improvvisa di folklore, quello russo 
danzato da giovani ballerine e quello cosacco danzato da uomini con appropriati 
costumi, tinteggiati con intense pennellate di rosso vivo. Spiccano inoltre il 
giallo dorato degli intarsi, dei broccati, dei candelabri e ovviamente degli stivaletti tanto ambiti, l’azzurro intenso della notte e dell’acqua, i fregi dei costumi delle donne popolane e gli abiti delle dame, arricchiti dal settecentesco panier, che appaiono un vero e proprio sfavillio di stoffe.

Per quanto il libretto polonskijano manchi di quella ironia e freschezza che invece caratterizzano la novella gogoliana, è la 
musica di Čajkovskij che colma il ritmo spesso poco incalzante del testo. L’orchestra, diretta da Donato Renzetti, sia nei brani esclusivamente strumentali – Ouverture 
e intermezzi – sia nell'unione con il canto è densa di sfumature policrome e sonorità che riecheggiano il clima del grand opéra francese. Vengono utilizzati diversi strumenti per suscitare atmosfere suggestive: si pensi all’uso dei corni nell’ouverture, a disegnare un’ampia 
melodia, che richiama i caratteristici motivetti russi, accompagnata dal leggero pizzicato dei violini. La musica čajkovskijana, concepita da accenti folcloristici, descrive appieno l’incantevole fiaba, ricca di inflessioni liriche, ma posate, e disperate arie assai contenute. Ne è un esempio l’Aria di Oksana, in cui la frivola protagonista, interpretata dal soprano Viktoria Yastrebova, dal fraseggio e dalla vocalità lancinanti e dalle mille sfaccettature, viene introdotta dal clarinetto solo, annunciatore della solitudine della fanciulla, tema tanto caro al Romanticismo. A queste si alternano i ritmi vivaci delle danze e i toni maliziosi e buffi. L’Allegretto del primo atto, in cui il Diavolo (Bes) – vero protagonista delle Veglie gogoliane, sempre pronto ad architettare trappole e astuzie ai danni degli abitanti di Dikan’ka irrompendo all’improvviso nelle loro vite – espone i suoi rancori verso il fabbro Vakula, ha un retroscena comico grazie alla veloce sillabazione del testo, di cui la qualità vocale del baritono Gevorg Hakobyan è riuscita a marcarne le potenzialità farsesche. Non può non saltare alle orecchie l’emissione vocale superba e piena del mezzosoprano Nicole Piccolomini, che interpreta la madre del fabbro, Solocha, strega di notte e comare di giorno, le cui arie e i duetti sono intrisi di carica erotica. Al contrario la vocalità del tenore Ivaylo Mihaylov, che impersonifica il personaggio di Vakula, e che si fa conoscere poco alla volta attraverso gli struggenti ariosi e i duetti con l’amata Oksana, ben si adatta a rappresentare il giovane innamorato, ma manifesta difficoltà nelle note più acute, dove tende spesso a spingere.

L’opera, più che lirica, si presenta come opera d’assieme, in linea con la poesia narrativa gogoliana: la musicalità del singolo, soprattutto nella scena finale, si fonde magnificamente con quella corale. Il canto è spesso affidato, non a caso, a 
bellissimi cori – preparati dal maestro Gaetano Mastroiaco – più volte fuori campo, che introducono lo spettatore nell’esuberante vita del villaggio ucraino. Ne sono un esempio le koljiadki, in cui si amalgamano toni e registri diversi, cantate dal coro nell’arioso finale del secondo atto. Significativi inoltre sono i duetti, come quello dell’anziano cosacco Čub, personaggio dall’aspetto imponente e amante del mangiare e del bere, e il suo compare Panas, interpretati rispettivamente dal basso Arutjun Kotchinian e dal tenore Gregory Bonfatti, che si estendono su un tappeto di ardite dissonanze emanate dai flauti per rappresentare i crepitii della bufera incombente.

Tutto al Teatro Lirico di Cagliari sembrava fondersi per creare un’atmosfera magica e fiabesca. C’è infatti da chiedersi perché un’opera come questa sia rimasta per tanto 
tempo sepolta nel dimenticatoio o più che altro non abbia avuto una lunga storia scenica. È probabile che nell’Ottocento Gli Stivaletti avessero mostrato tutto il lusso, il campanilismo e il patriottismo – evidente per esempio nella scena con il Serenissimo, interpretata dalla voce baritonale di Nicola Ebau – rappresentati nell’opera con una certa ironia satirica e vista come scomoda agli occhi delle autorità del tempo. In ogni caso rimane una favola dal sapore antico e incantevole, che avvicina ancora oggi lo spettatore all’immensa cultura della grande Russia. Il regista Alexandrov ha costruito uno spettacolo come una grande fiaba per adulti. Sebbene infatti oggi viviamo in un ambiente profondamente diverso, il linguaggio delle fiabe è tuttora vivo e ricco di significato: è vero, quei racconti si riferiscono a tempi lontani, ma il messaggio che contengono – di felicità e successo raggiunti per meriti propri e per l’aiuto altrui – è universale. Si pensi alla crisi del rapporto tra uomo e donna (Vakula/Oksana) o alle differenze sociali tra gli umili e i potenti (popolani del villaggio/nobili della reggia imperiale), temi ancora diffusi nella società attuale. Inoltre Gli Stivaletti è un'opera in continua trasformazione: muta non solo la coinvolgente messinscena, ma anche l’animo dei personaggi che entrano in gioco. E così la fredda Oksana si trasforma in donna amorosa e nel finale duetta affettuosamente con Solocha, ormai madre angosciata e non più strega convulsa; mentre lo sventurato Diavolo, per dirla secondo l’analisi del linguista Vladimir Propp, si rivela un aiutante dell’eroe (Vakula) nella sua ricerca dei fatali stivaletti.

Al Teatro Lirico, come nel lontano 1887 al Teatro Imperiale Bol’šoj di Mosca, citando lo stesso compositore: “Sono scrosciati applausi assordanti. […]. Doni, ghirlande, chiamate, ovazioni e quant’altro ce ne sono state più che a sufficienza. […]. Ad ogni modo tutto è andato molto bene”.