Verdi da Milano a Parigi

di Roberta Pedrotti

Percorso sinfonico dal Verdi degli esordi milanesi a quello dei due debutti parigini, con un rifacimento e una nuova commissione. Così Riccardo Chailly con la Filarmonica della Scala apre il Festival Verdi del bicentenario. Un successo travolgente che fa ben sperare per il definitivo rilancio, in quest'occasione cruciale, della manifestazione e di tutta l'attività del Regio di Parma.

PARMA, 30 settembre 2013 - Il cartellone fitto, i nomi importanti e quelli emergenti per opere e concerti sono lì a dirci che Parma non vuole farsi trovare impreparata nel Festival verdiano del bicentenario. Vuole dimostrare che si può e si deve ricominciare dopo lo crisi per essere finalmente una delle capitali della musica europea. Il cammino è appena iniziato e il lavoro da fare è ancora molto, per costruire, ricostruire e confermare, ma certamente questa edizione cruciale del Festival si è aperta sotto ottimi auspici con Riccardo Chailly a capo dell'orchestra Filarmonica della Scala. Il programma, fra sinfonie e musiche per danze, percorre a grandi passi i primi anni di carriera di Verdi da Milano a Parigi fino al limite cronologico del 1855, anno dei Vêpres Siciliennes. La Sinfonia di questi ultimi è il brano più celebre in una locandina che privilegia la coerenza tematica sulla popolarità a tutti i costi: un vero concerto da festival, anche senza inediti o filologiche riscoperte (che speriamo comunque di trovare in futuro, quale vera ragion d'essere d'una manifestazione di questo tipo). Si apre dunque con le sinfonie delle prime due opere del Maestro, Oberto conte di San Bonifacio (1839) Un giorno di regno (1840), scritte entrambe per la Scala: non può darsi debutto più appropriato nel 2013 e omaggio migliore da parte dell'orchestra milanese. Trattandosi di pagine d'esecuzione concertistica non troppo consueta, ascoltarle da una formazione sinfonica può risultare un po' straniante rispetto all'organico più snello che, coerentemente con lo stile e la prassi in cui videro la luce, ritroviamo normalmente in teatro. La collocazione sul palco e non in buca conferisce ulteriore risalto acustico, che Chailly e i professori d'orchestra sfruttano appieno in un'ottima esecuzione, accurata nelle dinamiche, rifinita nei dettagli. Non sarà l'esordio insieme cauto e scalpitante del ventiseienne Verdi il brano che ne rivelerà tutto il talento, ma la tinta cupa, solenne, il fremere del dramma sono sbalzati con cura affettuosa e grande concentrazione, pronti a schiudere le porte del genio sull'arco del mese del Festival. La contrapposizione con la Sinfonia del Giorno di regno è quantomai efficace, soprattutto per chi si ostina a negare valore a quest'opera gustosissima e impegnativa per gli esecutori, che ha l'unico torto di uscire dalla penna di un giovane autore che di lì a poco s'imporrà come genio del dramma mentre il genere buffo s'è avviato al crepuscolo. Non sentiamo la guizzante trasparenza d'ascendenza rossiniana, con questo organico e questa acustica, ma le radici belcantiste e l'esperienza sinfonica di Chailly hanno buon gioco a tradurre lo spirito dell'opera in un gioco accuratissimo di dinamiche, agogiche e colori.

Il concerto però prende quota definitivamente e il clima si scalda con il preludio da Jérusalem, primo cimento parigino (1847) e rielaborazione dei Lombardi alla prima Crociata (1843), altro titolo nato alla Scala, quindi ideale trait d'union nel percorso tracciato in questa serata inaugurale. La cifra poetica è rigorosissima e per questo particolarmente intensa; la pagina emerge come degna sorella dei preludi di Attila e Macbeth, pressoché contemporanei. Magnifica davvero, per il fraseggio ispirato e il particolare colore fosco e traslucido colto dall'orchestra. I Ballabili sono inevitabilmente di qualità non altrettanto alta e sanno un po' più di convenzione, ma chiudono comunque in gloria la prima parte del concerto con un'esecuzione debitamente brillante, piena di spirito, ma pure coerente con il rigore e la rifinitura che sono la cifra dell'intera serata. Dopo l'intervallo ci accoglie una Sinfonia dei Vêpres Siciliennes: siamo definitivamente giunti da Milano a Parigi, dove Verdi, compiuta la prima fase della sua carriera con la Trilogia popolare, compone la prima opera commissionata ex novo per il pubblico francese. La forma classica dell'ouverture si dipana come in un'unica arcata cesellata finemente affinché lo slancio venga dal dettaglio, dall'intimità della musica; dunque l'impeto non supplisce ai limiti tecnici travolgendo ogni cosa né, tantomeno, che la cura minuziosa resta mero calligrafismo, soluzioni miopi o effettistiche che offuscherebbero la scrittura verdiana e che una lettura come questa di Chailly spazza via serenamente. Ci permette così anche di apprezzare il lungo divertissement dal terzo atto: splende di tante preziosità, ironie, d'un linguaggio leggero e brillante che godrà di notevole fortuna in Francia e Mitteleuropa. Senza pretese poetiche fuori luogo (se non fosse disimpegnato non sarebbe un divertissement: le danze delle streghe del Macbeth sono anche drammaturgicamente altra cosa) non capita spesso di sentire La quattro stagioni così vive, scattanti, ricche di colori e immagini, così allegramente fisiche. L'inaugurazione si chiude così ufficialmente in un clima festoso che sfocia inevitabilmente in ovazioni interminabili. Il bis è uno solo, la Sinfonia dalla Forza del destino. Verdi che da San Pietroburgo, dove l'opera era nata, torna a Milano, dove la rinnova inserendo la celeberrima pagina introduttiva, il cerchio si chiude. E si chiude magnificamente, con un'esecuzione che conferma il crescendo della serata: ampio respiro sinfonico, scrupolosa cura musicale, ispirazione poetica, cantabilità, abile uso dei contrasti all'interno di un discorso unitario. Un boato d'applausi. Ora si comincia. È il festival del bicentenario e Parma deve onorare Verdi e con Verdi, finalmente, riaffermare se stessa.