La notte e il funambulo

di Roberta Pedrotti

Per il ciclo Il nuovo e l'antico del Bologna Festival un concerto in cui il novecento sovietico ed ex sovietico la fa da padrone: Giocattoli musicali e Il funambolo di Sofjia Gubajdulina e le Sette romanze su poesie di Aleksandr Blok di Dmitrij Šostakovič. Terza fra cotanto senno, una prima assoluta di Alessandro Solbiati. Esecutori impeccabili il Trio Magritte e il soprano Lorna Windsor.

BOLOGNA 26 settembre 2013 - La stagione 2013/2014 sarà, a Bologna, l'anno dei russi, come conferma anche la stagione sinfonica del Comunale, appena presentata. In Italia sarà l'anno, in particolare, di Sofja Gubajdulina, che proprio domani a Venezia riceverà un meritatissimo Leone d'oro alla carriera, prima donna, fra i musicisti, insignita del riconoscimento già assegnato a Petrassi, Berio, Cerha, Manzoni, Lachenmann, Kurtág, Rihm, Peter Eötvös, Pierre Boulez. Parallelamente all'ombra delle due torri la onora il Bologna Festival, ponendo la sua opera, e in generale la scuola sovietica del XX secolo, fra i cardini del ciclo Il nuovo l'antico. Titolo ben scelto, evocativo di contrapposizioni e parallelismi fra le tradizioni pre tonali e post tonali, ma anche di riflessioni sul senso stesso di queste parole, sull'attualità e l'inattualità, sul rapporto con radici e tradizioni, prospettive e orizzonti futuri. Nuova e antica è anche la sede stessa dei concerti: l'Oratorio di S. Filippo Neri, pesantemente danneggiato durante la guerra e restaurato negli anni '90 integrando le originali decorazioni settecentesche con strutture lignee e in nudi mattoni, senza mascherare gli interventi con un falso stilistico. Cornice perfetta, dunque, anche se l'acustica ecclesiastica è in genere un po' ridondante, pensata per far sentire tanto più che per far sentire alla maniera nitida e analitica di una sala da concerto. Nulla ha potuto comunque pregiudicare il godimento di un programma cameristico perfettamente assortito, collocato sullo sfondo d'un ovale vuoto dove si proiettavano solo le ombre enigmatiche delle mani di putti tardobarocchi. L'apertura è consacrata alla Gubajdulina, la seconda parte a Šostakovič; terzo fra cotanto senno, prima dell'intervallo, Alessandro Solbiati presenta un suo brano in prima esecuzione assoluta. Lui stesso, presente in sala e responsabile dell'introduzione ai vari pezzi in programma, parla del suo Notturno secondo per violino, violoncello e pianoforte come di un brano che riflette il suo particolare amore per Bartòk e Schoenberg, oltre alla sua propensione per sciogliere alla fine serenamente le atmosfere più cupe e angosciose. Senza dubbio l'ombra dei modelli incombe evidente e questo trio sa un po' di maniera, faticando a prendere il volo, stretto com'è fra capolavori in confronto ai quali appare inevitabilmente un po' goffo e, nonostante sia anagraficamente il più nuovo, il meno fresco. Un altro mondo si era aperto con i Giocattoli musicali della Gubajdulina, raccolta di quattordici schizzi pianistici completata nel '69, quando l'autrice aveva trentotto anni e già mostrava la sua piena maturità artistica affrontando un tema classico come quello dell'album per tastiera dedicato a temi infantili. Riecheggia la tradizione occidentale dei secoli precedenti, da Mozart e Haydn a Schumann, ma anche quella slava di Čajkovskij, di Musorgskij (la Baba Yaga e i pulcini nei loro gusci dipinti per un'esposizione non sono lontani) fino a Prokof'ev è ben presente con tutta la simbologia, anche perturbante, legata al mondo della fiaba. E non manca una lucida consapevolezza delle sonorità e degli strumenti evolutisi al di fuori del blocco sovietico, non ultimo il jazz, senza che il suo stile cada nella trappola dell'eclettismo. Anzi, nella varietà espressiva riesce a imporre la cifra personale di un linguaggio unitario, riconoscibile, ben strutturato. Tale è anche dopo un balzo in avanti di ventiquattro anni, per quanto dal relativo classicismo, dall'equilibrio formale e dalla sintesi dei Giocattoli ci si trovi proiettati in un mondo completamente diverso. È inevitabile che sia così, perché l'artista, comunque la viva che decida o meno di rappresentarla, è immerso nella sua epoca, nella sua società, nella sua storia. Nel 1993 un artista russo, tanto più se sulla sessantina, si trovava per forza di cose catapultato in un mondo radicalmente mutato nel giro di pochi anni. Che lo ritenga un cambiamento positivo o negativo, che desideri rappresentarlo o che ne venga piuttosto influenzato indirettamente, poco importa. Nell'ascoltare Il funambulo per violino e pianoforte è difficile non pensare a quanto fosse, e sia tuttora, attuale il senso di precarietà trasmesso in modo quasi fisico da questa composizione. Non ci riconosciamo, dunque, nell'interpretazione proposta da Solbiati, per il quale il virtuosismo del violino rappresenterebbe la tradizione paganiniana mentre il pianoforte preparato il nuovo e l'avanguardia (non più tali, a dire il vero, all'epoca della composizione). L'impressione è piuttosto che l'autrice utilizzi semplicemente questi strumenti in quanto tali. Scompone il pianoforte fra percussione sui tasti e manipolazione diretta delle corde, lo scinde in due voci autonome con un preciso effetto teatrale, in cui le corde del piano diventano quelle su cui il funambolico violino compie le sue evoluzioni e ogni oscillazione, ogni movimento delle une o dell'altro ha un riflesso, un'eco o una reazione reciproca. Mentre il percuotersi di tasti e martelletti segna il tempo, il cammino concreto e implacabile della terra. Di Šostakovič si è eseguito il ciclo delle Sette romanze su poesie di Aleksandr Blok op. 127 (1967), un percorso notturno che è soprattutto un viaggio mentale, fatto di incubi, inquietudini, oscurità e speranze, raccoglimenti. Un percorso che l'autore dipana delegando via via l'accompagnamento della voce, alternativamente, a uno o due strumenti, fino a farli riunire in organico completo solo nell'ultimo brano, Musica. Šostakovič non interpreta la poesia, non intona i versi, non li riveste di suono: la sua musica è quella poesia. È quella tensione che viviamo senza prender fiato, scandita dall'alternanza spasmodica dei movimenti (moderato, adagio, allegretto, largo, allegro, largo, largo) e dei timbri. L'esecuzione è profondamente sentita e scandaglia la parola e il fonema penetrando al cuore della partitura: il soprano Lorna Windsor è artista carismatica e intelligente, il trio Magritte un eccellente complesso cameristico formato da solisti formidabili. La violinista Yulia Berinskaya, infatti, aveva già impressionato con un virtuosismo trascendentale, sovrumano nel Funambulo, brano in cui si era distinta anche la duttilità e la sensibilità tecnica della pianista Emanuela Piemonti, già impeccabile e acuta nella lettura dei Giocattoli musicali. Non da meno il violoncellista Relja Lukic. Poche alternative per un bis che preveda originariamente l'organico al completo. Sarà il canto polacco rielaborato da Beethoven "Auf, auf, ihr Freunde", fuori programma, a chiudere la serata in bellezza, ricordandoci che nell'arte il nuovo e l'antico dialogano con il presente e non invecchiano mai.