Fattore Bignamini

di Roberta Pedrotti

 

Brilla, nel Simon Boccanegra del Festival Verdi 2013, la presenza sul podio di Jader Bignamini, direttore emergente ch'è oggi ben più di una promessa sia per le qualità tecniche e musicali sia soprattutto per l'autentico, innato istinto verdiano. Il gusto, il senso del teatro e della parola cantata dimostrati da Bignamini impongono una lettura soggiogante e relegano in secondo piano i limiti dei cantanti, sostenuti anzi amorevolmente.

PARMA, 6 ottobre 2013 - È la bacchetta che fa la differenza. È Jader Bignamini che consacra dal podio Simon Boccanegra, prima produzione operistica del Festival Verdi 2013, come uno dei momenti più importanti delle celebrazioni del Bicentenario. Nulla di eccezionale ci sarebbe stato offerto, con tutta probabilità, dal resto della locandina se non ci fosse stato alla guida un concertatore capace di sorreggere ed equilibrare ogni elemento con un senso del canto e del teatro che ha pochi paragoni. Preparazione e consapevolezza tecnica, musicale, intellettuale sono alla base della formazione di ogni buon direttore, ma nel grande direttore ciò che subito si riconosce è un carisma, un talento, un istinto qual è quello messo immediatamente in luce da Bignamini. Che è sicurissimo, precisissimo, impeccabile nel delineare ogni minimo dettaglio ritmico o dinamico, nel cesellare ogni minuta sfumatura del capolavoro verdiano, ma, soprattutto impone una visione teatrale soggiogante, assolutamente perfetta nel dosaggio della tensione. Non c'è scelta che non sia consequenziale e legata alla parola scenica, nulla che non appaia necessario. Bignamini, che pure nasce come clarinettista e ha svolto la maggior parte del suo cursus honorum in ambito sinfonico, ha l'istinto verdiano, oltre a essere un ottimo musicista e ad avere un gesto chiaro e autorevole. Il suo Boccanegra non somiglia a nessuno, suona naturalissimo, incalzante, doloroso, vivido come sorto direttamente dal segno scritto e dalle intenzioni dell'Autore.

Ascoltarlo è una di quelle esperienze che danno un significato all'idea stessa di andare a teatro, magari per rivedere per l'ennesima volta un'opera che conosciamo a menadito e di cui possediamo già dischi storici e magnifici. Il salto di qualità imposto dalla bacchetta è evidente in ogni aspetto dello spettacolo, dalla resa eccellente dell'Orchestra Toscanini, capace d'arcane suggestioni, suoni impalpabili, fremiti solenni e battaglieri, alla stessa messa in scena di Hugo de Ana, cui giova senza dubbio il passo teatralissimo della concertazione. Sembra, anzi, quasi che il vero regista sia Bignamini, tanto più che l'allestimento si conferma uno dei meno ispirati del regista, scenografo e costumista argentino. Indubbiamente bella da vedere e ben studiata la teoria di pannelli mobili che evocano i vari ambienti, così come i costumi sui toni del grigio, del rosso e del blu sono il trionfo dello stile tipico di De Ana, ma la recitazione pare per lo più lasciata all'iniziativa, sovente stereotipata, dei singoli interpreti, mentre le scene di massa sono concepite come una serie di tableaux vivants privi di reale coesione narrativa e drammaturgica, completamente delegata a Bignamini. Fortunatamente tanta responsabilità è ben riposta e con un gusto sobrio quanto nobile e incisivo il concertatore sa offrire, per fare solo un esempio, una scena del Consiglio toccante e avvincente come è raro ascoltare. Una guida così sicura e così sensibile al senso della parola e del canto è il sostegno più prezioso per tutto il cast, che riesce così a esprimersi al meglio in perfetto equilibrio fra le rispettive personalità e peculiarità. Non mancano i limiti individuali; per esempio una certa usura si può percepire nella vocalità di Giacomo Prestia, Fiesco, soprattutto negli estremi della tessitura, ma la qualità di una voce di autentico basso e la souplesse dell'interprete esperto compensano le difficoltà.

Roberto Frontali non sarà impeccabile musicalmente, né un interprete magnetico e fantasioso, ma la sua professionalità e la frequentazione del ruolo garantiscono una degna resa del Doge già corsaro e una pronta adesione al gesto di un direttore che sa far sì che tutto sempre funzioni al meglio servendo la drammaturgia musicale. Così ha modo di valorizzare la sua notevole vocalità anche il tenore messicano Diego Torre, al suo debutto italiano proprio con un ruolo insidioso come quello di Gabriele Adorno: ci auguriamo solo che la dovizia e la facilità dei suoi mezzi possano crescere e raffinarsi gradualmente, senza bruciarsi troppo presto in impegni prematuri. Tributato un plauso all'interessante Paolo Albiani di Marco Caria, dallo squillo timbrato, al capitano assai ben cantato di Antonio Corianò e ai validi apporti di Lorelay Solis, ancella, e Seung Pil Choi, Pietro, così come al coro preparato da Martino Faggiani, dobbiamo purtroppo riconoscere in Carmela Remigio l'elemento più debole del cast. Amelia/Maria appare come un personaggio lontano dal suo temperamento e dalle sue peculiarità vocali, tanto che la musicalità e la volontà di dare colore alla frase non ottengono i risultati sperati, mettendo anzi più che altro in evidenza i limiti di una tessitura non ideale, la mancanza di una reale cavata lirica e, più in generale, una visione riduttiva del personaggio. Ciò che nel fraseggio poteva infatti segnare l'efficacia adolescenziale della sua Adalgisa si trasforma in una sorta di bamboleggiamento nel delineare una figura forte e matura com'è quella della figlia perduta del Doge, giovane e innamorata, ma non una fragile fanciulla, bensì una giovane donna che s'intende d'affari politici, tratta i potenti alla pari e si libera da sé dai rapitori. Sicuramente sono altri i personaggi in cui, oggi, un'artista come la Remigio può esibire le sue qualità migliori. La bacchetta, però, fa la differenza, i cantanti non sono soli, esiste un comun denominatore, un punto di riferimento e un motore che permette di smussare quanto possibile le difficoltà e di porsi al servizio del dramma e della musica. E così lo spettacolo finisce per rivelarsi una delle migliori produzioni di Simon Boccanegra degli ultimi anni. Non poteva darsi esito migliore per una celebrazione di Verdi che è anche un omaggio alla memoria di Bruno Bartoletti, che tenne a battesimo questo allestimento di De Ana nel 2004. E ora, se non fosse bastata l'eco delle sue prove con l'Orchestra Verdi di Milano, che i direttori artistici si contendano la presenza di Bignamini.