Di ladroni attorniato

di Roberta Pedrotti

 

Tornano a Parma dopo quarant'anni d'assenza I masnadieri, una delle opere più complesse e affascinanti di Verdi, primo confronto diretto con Schiller dopo l'ispirazione solo indiretta nella Giovanna d'Arco. Bella e intelligente la messa in scena di Leo Muscato, e convincente il cast maschile capitanato da un Roberto Aronica in forma smagliante. Non all'altezza del trasporto e delle melanconie belcantistiche di Amalia, invece, il soprano Aurelia Florian.

Non esiste un Verdi minore, e se anche esistesse certo non comprenderebbe I masnadieri. Opera difficile, oscura, nella quale è difficile provare simpatia o pietà per uno dei due antagonisti, al cui confronto comunque anche le vittime sbiadiscono, null'altro che innocenti da immolare e contrapporre al titanismo demoniaco dei due fratelli Moor. Speculari nella loro violenza, nel loro conflitto morale e nel loro rapporto sovversivo con la società, Carlo e Francesco sono due facce di una stessa medaglia, due intellettuali che hanno pervertito ideali e sentimenti precipitando se stessi e gli altri nella rovina. Il primo è e resta un idealista, un umanista che però si realizza in un impeto rivoluzionario violento e alla fine solo distruttivo e autodistruttivo; il secondo ha ambizioni superomistiche, abdicando a ogni umano senso, in un'ansia dionisiaca di autorealizzazione non meno fatale. Uno Streben fremente e mortale anima entrambi, anche se il loro romanticismo demoniaco volgerà in diverse sfumature nelle rispettive rovine, con il miraggio di Faust (soprattutto di quello utopista e cinico dell'episodio di Filemone e Bauci) da un lato, del Nietzsche futuro dall'altra. Per dar forma di melodramma a questo dualismo nero, Andrea Maffei, da letterato traduttore principe di Schiller e non da librettista – mestiere che disprezzava ma che richiede una ben specifica competenza – pena non poco. Il risultato è un testo involuto, denso, ambizioso, zeppo di intellettualismi tipici dei circoli culturali milanesi almeno dai tempi del Berchet e del Di Breme; tuttavia è anche un testo perfettamente funzionale alle intenzioni verdiane, che parte da forme consolidate (come le cavatine dei tre personaggi principali) per svilupparsi in una drammaturgia quasi sperimentale, per quadri paralleli che delineano le parabole dei due fratelli, per nodi drammatici di rara potenza (per tutti la scena dell'incubo apocalittico di Francesco e del suo confronto con il pastore Moser), con un'ispirazione musicale raffinatissima anche nel dipingere il grottesco, l'orrido, lo spaventoso. Non si troveranno forse melodie immediate e accattivanti, bensì un mondo ombroso, funereo, privo di speranze quanto febbrile di disperata volontà. Fortunatamente la produzione proposta dal Festival Verdi del bicentenario non si è adagiata, come spesso è capitato su questo palcoscenico, per la messa in scena su un'appariscente e variopinta oleografia fine a se stessa, ma ha offerto un esempio intelligente di teatro moderno, non privo di sottili allusioni politiche e psicologiche. Leo Muscato sceglie un'ambientazione fra il naturalistico e il simbolico, evocando senza troppa precisione il XIX secolo più che il XVIII, le foreste mitteleuropee, i cimiteri notturni in un unico impianto scenico di Federica Parolin, con un palco ligneo centrale che diviene l'unica speculare ribalta per la speculare tragedia dei fratelli Moor, attori loro malgrado nel teatro della vita. Le luci di Alessandro Verazzi sono perfette nel suggerire atmosfere e isolare dettagli, nel sospendere il tempo o, viceversa, accentuare il realismo; così i costumi di Silvia Aymonino sono efficaci sia che si tratti della decadente corte dei Moor, sia del mondo irregolare e anarchico dei masnadieri, fra i quali troviamo anche figure femminili: anzi, è proprio una ragazza, nella locanda all'inizio dell'opera, fra i più entusiasti promotori della masnada, interessante corrispettivo e contraltare attivo di Amalia, vittima sacrificale della passione e della violenza dei giovani Moor.

Purtroppo proprio la giovane amante di Carlo concupita da Francesco si è rivelata l'elemento debole di un cast, invece, nel complesso notevole. Aurelia Florian - beniamina del pubblico locale che l'ha, per così dire, adottata - non possiede infatti né l'istinto musicale né la tecnica per intonare gli estatici e melanconici cantabili in cui coesistono astrazione belcantistica e trasporto sensuale (basti confrontare la carnalità dei versi che la giovane dedica a Carlo con quelli angelicati intonati dal tenore al pensiero dell'amata). Il legato è precario, la mezzavoce e le fioriture trascinate e stiracchiate, le agilità poco precise, e si tratta di problemi non da poco se si considera che la parte fu concepita per una belcantista di rango come Jenny Lind, che entusiasmò Verdi proprio per le sue virtù d'eccelsa e sensibile vocalista che avrebbero dovuto contrapporsi al male allignante in tutte le altre figure dell'opera. Decisamente una prova insufficiente, non compensata da qualche discreto suono centrale nei momenti più drammatici. Molto meglio, si diceva, il cast maschile, capitanato da un Roberto Aronica in forma smagliante. E basterebbe questo, in una parte massacrante e articolata come quella di Carlo Moor, a dare la misura di una prova notevolissima. Val la pena però soffermarsi sull'incisività del fraseggio, sulla bellezza virile del timbro, sulla facilità in tutta la tessitura, sulla moderna sensibilità nell'approccio al personaggio. Più che un appunto, un consiglio: per farsi udire e risultare perentorio Aronica non ha certo bisogno di spingere e un ulteriore lavoro per ammorbidire il cantabile potrebbe consentirgli esiti ancora migliori nel legato di pagine come “Di ladroni attorniato”. Il baritono Damiano Salerno, Francesco Moor, non dispone di uno strumento formidabile, ma la pasta chiara tendente al tenorile non risulta spiacevole, né storicamente inappropriata, anzi enfatizza ancor più il legame sottile fra i due fratelli. Il fraseggio anche nel suo caso è accurato, la parola ben scandita, l'espressione incisiva senza tradire lo stile e il buon gusto con eccessi grandguignoleschi. Una prova musicalmente precisa e pulita che evidenzia ancor più la lucida follia demoniaca di Francesco. Piace anche Mika Kares, giovane finlandese dai mezzi promettenti d'autentico basso, capace di intonare con sentita eloquenza il racconto di Massimiliano “Un ignoto, tre lune or saranno”, anche se la timida puntatura finale, non essendo il registro acuto ancora sufficientemente rifinito, avrebbe potuto essere evitata. Pur essendo Arminio figura di secondo tenore affatto marginale, anzi fondamentale, Antonio Corianò è risultato troppo fioco nei momenti d'assieme e il veterano Enrico Cossutta, nei brevi interventi di Rolla, è parso molto più incisivo, oltre che teatralmente pregnante. Debole per timbro, emissione e musicalità il Moser di Giovanni Battista Parodi. Ottimo, viceversa il coro del Regio preparato da Martino Faggiani. Sul podio il terzo nome nuovo proposto dal Festival quest'anno dopo Jader Bignamini e Sebastiano Rolli si è rivelato anche il meno interessante: Francesco Ivan Ciampa avrebbe infatti potuto trarre ben altro partito da quest'opera, a cominciare dal preludio con il suo assolo di violoncello. Genericamente corretto, non ha offerto particolari stimoli, lasciandosi piuttosto andare a qualche eccesso bandistico e ha fatto emergere troppo spesso in primo piano dalla Filarmonica Toscanini fiati e percussioni senza troppi giochi di colori, dinamiche e chiaroscuri. Questi limiti non hanno fatto volare alto lo spettacolo come avrebbe potuto – soprattutto con altro soprano – ma non hanno comunque pregiudicato la buona resa dettata da alcune ottime voci maschili e da una messa in scena davvero convincente e avvincente. Gran successo finale, in gran parte meritato, per un'opera splendida e forse ancora sottovalutata.