di Roberta Pedrotti
Secondo titolo in scena per il Circuito Lirico Lombardo, Otello rappresenta una sfida impegnativa, che mette tutti duramente alla prova. Convince solo la concertazione di Giampaolo Bisanti; l'allestimento di Stefano De Luca e Leila Fteita, fra ingenuità, problemi tecnici e buone intuizioni, pone al centro dell'azione lo Jago di Alberto Gazale, che è anche l'interprete più valido di una compagnia piuttosto debole, guidata dall'Otello problematico di Walter Fraccaro.
BRESCIA, 27 ottobre 2013 - Gnek gnek gnek. Una vela lucida, fra il glauco e l'indaco. Gnek gnek gnek. Un vessillo. Una pedana circolare rotante. Gnec gnek gnek. Un cigolio sinistro si addice al delitto, un rumore implacabile e persistente è l'immagine stessa della follia allucinata e può ben tradurre in suono l'idra fosca, livida che del suo velen se stessa attosca. Non è però l'ideale per un dramma in musica nel quale il mondo sonoro è già così ben delineato in partitura e avrebbero dovuto correre ai ripari il regista Stefano De Luca e la sua scenografa Leila Fteita per impedire che il loro impianto scenico funestasse con inesorati stridori buona parte dello spettacolo. Tanto più perché, nel concetto, la struttura geometrica essenziale rappresentava un'ottima soluzione, di grande potenzialità teatrale con il giusto gioco di luci, movimenti e recitazione di singoli e masse. Né dispiaceva che, al primo impatto, lo spettacolo apparisse come tranquillamente tradizionale, con qualche elemento simbolico e astratto, e i costumi della stessa Fteita si sono fatti apprezzare per il disegno d'epoca elegante e sobrio. Piuttosto hanno lasciato perplessi alcuni errori nella gestione degli spazi, come la fuga di Jago verso sinistra inseguito dagli armigeri per la via più lunga verso destra, e una genericità dell'azione animata da alcune soluzioni con maggior ambizione d'originalità e simbolismo, soprattutto per quanto riguarda la figura centrale dell'alfiere. Il protagonismo di questi come motore e principio dell'azione è particolarmente enfatizzato e, dinamico e istrionico all'eccesso non solo amoreggia con la morte in persona, ma schernisce apertamente alle spalle Otello nel suo addio alle "sante memorie". Sotto il profilo strettamente teatrale Alberto Gazale era anche, e di gran lunga, il migliore del cast, attore eccellente, figura perfetta di guerriero gagliardo e scattante con la faccia “da galantuomo”, come ebbe a scrivere lo stesso Verdi. Nel suo recitar cantando, però purtroppo il primo vale però assai più del secondo e se l'interprete si conferma artista di primo livello, la voce non è parsa più quella dei giorni migliori. Resta il bel timbro e resta l'arte di rifugiarsi anche nel declamato con garbo e a tempo.
Musicalmente l'allestimento si regge così pressoché unicamente sulle spalle di Giampaolo Bisanti, che offre invero una prova molto interessante, con bel piglio drammatico, cura dei dettagli, una rifinitura personale che sbalza sfumature, incisi strumentali e frasi cantabili. L'orchestra dei Pomeriggi musicali si comporta bene e anche il coro, fatta salva qualche sbavatura nei momenti in cui la scena, fra stridori e velari che offuscano il rapporto visivo fra palco e podio, rendeva più problematico l'assieme. Non a caso il momento forse migliore della serata è il concertato del finale terzo, e non a caso in più momenti si ha l'impressione di ascoltare un Otello per sola orchestra (con cigolìo obbligato, ahimé), dato che di canto c'è davvero poco. Pochissimo, anzi, quando si parla di Walter Fraccaro, Otello brutale, dalla musicalità barbarica tutta effetti senza causa, portamenti, approssimazioni di solfeggio e intonazione, suoni spinti in corone plateali, dinamiche e colori ridotti oltre il minimo, testo strapazzato in vari modi, con lettere omesse e vocali alterate per esigenze d'emissione o variazioni tout court. La sua Desdemona è Daria Masiero, il cui strumento parrebbe naturalmente di soprano lirico, ma costretto a simulare – senza che questo ruolo, peraltro, lo esiga nemmeno particolarmente – lo spessore di un lirico spinto. Così la voce perde di qualità, risulta spesso intubata e di forza, faticando a fraseggiare come si conviene, per esempio, il duetto “Dio ti giocondi o sposo”, mentre si trova più a suo agio nella Canzone del salice. Giorgio Pelligra è un Cassio ancora acerbo, Raffaella Lupinacci è Emilia e Saverio Pugliese Roderigo; una grave indisposizione incide pesantemente sulla prova di Antonio Barbagallo come Montano, Alessandro Spina è un buon Lodovico e Luca Vianello è l'Araldo.
Alla fine applausi per tutti, in particolare per Gazale. Il loggione è parso nel complesso più freddo, palchi e platea più calorosi, anche inclini (in una visione dell'opera più atletica che artistica) all'applauso a scena aperta per la puntatura che ha coronato un'esecuzione piuttosto claudicante di “Dio mi potevi scagliar”.