Il riscatto di Stiffelio

di Giuseppe Guggino

Premiato da una massiccia affluenza di pubblico l'omaggio a Verdi del Teatro Massimo Bellini di Catania con Stiffelio, una delle opere più interessanti e meno frequentate della produzione del Bussetano. Dopo un avvicendarsi di nomi in locandina, la direzione e la regia sono state affidate rispettivamente ad Antonino Manuli ed Ezio Donato, con buoni risultati. Più alterna, invece, la resa del cast vocale, capitanato da Roberto Iuliano e Dimitra Theodossiou.

CATANIA, 27 ottobre 2013 - Nel percorso verdiano di scandaglio dell’animo umano che parte da un Re spietato in delirio di onnipotenza come è Nabucco per portare sino ad un povero illuso un po’ avanti negli anni che cerca maldestramente di mettersi in gioco, Stiffelio, forse ancora più della Luisa Miller, rappresenta l’opera di svolta, e per più di una ragione. Scritta nel 1850, in tempi contenuti e con risparmio di energie, giacché destinata a una piazza minore quale era il Teatro Grande di Trieste, per di più in concomitanza con la gestazione febbrile e sovraeccitata di Rigoletto, per Verdi costituisce un fertilissimo terreno di sperimentazione, di prova in cui, chiusa la stagione quarantottesca di galera, si possono affinare soluzioni e spunti che ritorneranno nella trilogia popolare, nei Vêpres siciliennes, e finanche in Otello. Non oberata, almeno per in questa fase, dalle urgenze civili e patriottiche, l’attenzione della penna verdiana può spostarsi – e in maniera estremamente felice, visto il risultato finale – sul dramma interiore di un uomo che è marito tradito (Rodolfo Müller) ma, al contempo, pastore protestante (Stiffelio), indotto dalla dottrina cristiana a un travagliato e radioso perdono della fedifraga ma pentita moglie (Lina) in un finale un po’ sbrigativo (e, difatti, sarà l’unico numero a non confluire integralmente nel rifacimento dell’opera che Verdi tenterà a sette anni dal concepimento iniziale). Il risultato è una partitura di bruciante teatralità (il finale II con il salmo che risuona dall’interno altro non è che l’ennesima riconferma della genialità di Verdi come uomo di teatro, ancor prima che come musicista), non del tutto omogenea nella qualità dei numeri, ma con alcuni colpi d’ala di prim’ordine – specie nei due duetti dell’opera in cui si percepisce che il vertice assoluto della Traviata non è che dietro l’angolo; parecchi spunti tematici dei duetti ricordano quelli di Gilda e Rigoletto, il quartetto del Rigoletto o il grande duetto Violetta-Germont, mentre decisamente datati sono i momenti cabalettistici o la parte baritonale scritta per il padre di Lina (Stankar). Certamente un retaggio del passato estraneo alla drammaturgia verdiana, solita a condensarsi su pochi protagonisti, è il peso del secondo tenore (Raffaele) con cui Lina consuma il tradimento e che canta un arioso di sfida con Stankar e rimpolpa il quartetto del II atto. Anche la ricercatezza dell’orchestrazione è approfondita, lasciando davvero ben poco spazio all’accompagnamento triviale che contraddistingue ad esempio Nabucco, in favore dell’uso di strumenti obbligati nel duetto del divorzio (l’oboe che ricalca la linea di canto di Stiffelio e il corno inglese quella di Lina) oppure l’inusuale concertino di archi che accompagna l’aria del II atto di Lina, quasi un tentativo di riprodurre la sonorità della viola d’amore.

Opera però negletta, accolta già freddamente alla prima rappresentazione assoluta, scomparsa totalmente dalle scene fino a un repêchage tardivo in quel di Parma nel 1968 e, da allora, depositaria di un’attenzione impari rispetto al suo valore intrinseco, beneficia in questi giorni di un’interessante proposta al Teatro Bellini di Catania che la programma come intelligente (e, tutto sommato, riuscito) omaggio nell’anno del bicentenario della nascita del compositore. Nonostante il cambio in corsa di stagione sia di direttore sia di allestimento (determinato da un’ormai cronica instabilità della governance del Teatro che in questa torre di babele procede più per inerzia, anziché su rotte ben definite), tanto il podio di Antonino Manuli quanto l’allestimento quasi semiscenico (con il coro sul fondo in abito da concerto) si rivelano scelte efficienti e oculate. A Manuli, già cornista dell’orchestra, si può obiettare la scelta di tempi talvolta troppo lenti, ma nel complesso il rapporto tra buca e palcoscenico è ben funzionante e la resa sonora, complice la buona Orchestra del Bellini, è notevole anche nei i tanti passi scoperti che l’opera presenta (la tromba nella sinfonia o l’oboe e il corno inglese nel duetto del divorzio). Ezio Donato, regista proveniente dalla prosa, gestisce benissimo il libretto operistico rendendo tutto perfettamente comprensibile (anche l’uccisione di Raffaele che sarebbe fuori scena: un eccesso di zelo), e cura molto bene la gestualità dei cantanti riuscendo perfino a rendere plausibile il finale la cabaletta di Stankar (molto affine musicalmente al pezzo analogo del Conte di Luna) con una sorta di malore che necessita l’allentamento della rendigote: sano realismo di teatro, quindi, senza inutili e cervellotiche complicazioni. Sul versante solistico l’opera si regge quasi completamente sulle spalle di Stiffelio (parte pensata per il celebre Gaetano Fraschini) che deve alternare momenti di grande cantabilità (la barcarola di sortita o lo splendido avvio del duetto del divorzio) a invettive temperamentose (il tempo di mezzo dell’aria e la successiva cabaletta), condurre i finali d’atto (specie la maledizione nel finale primo) per di più con frequenti incursioni nel registro grave. Queste recite trovano in Roberto Iuliano un elemento di forza per natura generosa, impegno, slancio e convinzione; qualche menda di tipo tecnico, però, lo porta a degli eccessi (censurabili anche nel gusto) che provano non poco la linea di canto così da farlo giungere a “Opposto è il calle” nel terzo atto, forse il momento più bello dell’opera, completamente esausto. E in quello splendido duetto non arriva in soccorso neanche il soprano Dimitra Theodossiu che esibisce per tutta l’opera un costante debito di mezzi per affrontare Lina; già nell’introduzione pare accennare gli interventi e risolvere a l’ammuino* due passi di roulades ascendenti, per poi passare ad una preghiera in cui il legato appare a dir poco macchinoso, oltre che costantemente falsettante (cantato per di più in proscenio in una particolare posizione dove anche le prese di fiato risultavano udibili in sala), e purtroppo la sua prova procede su questo binario sino alla fine. Senza infamia e senza lode lo Stankar di Giuseppe Altomare, funzionale Mario Luperi come Jorg (eccettuato qualche suono da basso particolarmente sgraziato), e un po’ troppo grezzo e spinto il Raffaele di Giuseppe Costanzo. Ottimo il Coro, come di consueto preparato da Tiziana Carlini, ormai colonna di riferimento del teatro catanese. Successo convinto per tutti in una recita andata sold out (davvero difficile reperire un biglietto prima dell’inizio dell’opera) e, per un titolo negletto sebbene di Verdi, è un bel segno!

* fare confusione in modo che non si faccia niente di produttivo