I vespri suonano per noi

di Antonio G. Ruggeri

 

Ottima scelta, per l'inaugurazione della stagione del Teatro Valli, I vespri siciliani nell'allestimento creato per il 150° dell'unità d'Italia da Davide Livermore, che scelse la via non facile dell’attualizzazione mettendo in scena alcune delle molteplici e irrisolte contraddizioni del popolo italiano. Sotto la sicura direzione di Stefano Ranzani s'impongono le voci gravi di Simon Lim e Mansoo Kim, ma si fa apprezzare anche Sofia Solovyi, inadeguato invece il tenore Michal Lehotsky

REGGIO EMILIA, 10 novembre 2013 - I vespri siciliani al teatro municipale Valli di Reggio Emilia inaugurano la stagione d’opera 2013-2014 nell’occasione del secondo centenario della nascita di Giuseppe Verdi. Mettere in scena questo titolo, primo vero confronto verdiano nel 1855 col grand opéra parigino di stampo meyerbeeriano è sempre stato anche per i teatri e i festival più noti una sfida fra le più ostiche ed onerose. Sia che si decida di allestire la versione originale francese o in alternativa quella italiana (con la traduzione in verità piuttosto deficitaria di Arnoldo Fusinato), l’impegno richiesto all’esecuzione è notevole: cinque atti, grandi scene d’assieme, balletto rigorosamente non prima del terzo atto (qui omesso), strumentazione articolata e non ultime parti vocali complesse e spinose per i cantanti protagonisti e in certo modo anche per i ruoli secondari. Come buon punto di partenza va dato merito al teatro di Reggio, in collaborazione con Modena ( recite il 22 e 24 Novembre) e Piacenza ( recite il 29 Novembre e 1 Dicembre), di aver alzato il sipario sul già riuscito e fortunato allestimento firmato da Davide Livermore nel 2011 al Teatro Regio di Torino per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Pregevole quindi riproporre questa lettura anche per celebrare il compleanno di Verdi, il cui teatro ha un forte valore simbolico per la nostra stessa identità nazionale e per la trasmissione di quei valori etici e civili a cui ogni popolo dovrebbe tendere. Ennesima dimostrazione della sua grandezza teatrale, Verdi si fa ammirare anche per il suo genio musicale che richiede in ugual modo al direttore d’orchestra una prova molto impegnativa. E’ necessaria infatti grande capacità di sintesi tra i ricercati legami col teatro francese e slanci di veemenza risorgimentale non tralasciando cantabilità romantica, puntualità e raffinatezza.

Il maestro Stefano Ranzani, già esperto della partitura non ha deluso queste aspettative, realizzando un’efficace lettura verdiana. Fino dalla sinfonia ha assecondato con pertinenza lo sviluppo drammatico-musicale di tutti i temi che si ripresenteranno nell’opera, mostrando di saper cogliere con ricchezza di colori l’eleganza della pagina (soprattutto nei momenti in cui le sezioni orchestrali suonano più scoperte), senza perdere in energia ritmica e vigore nei passi più trascinanti. Ranzani sceglie una direzione solenne, grandiosa, ma mai greve piena di contrasti nei piani sonori; disegna in questo suo taglio monumentale sia episodi di crescente tensione teatrale, sia atmosfere rarefatte, quasi in punta di bacchetta. L’ottima orchestra della Fondazione Arturo Toscanini ha ben risposto alle richieste della direzione realizzando con l’introduzione strumentale dei IV atto uno dei momenti musicalmente più emozionanti della rappresentazione . Anche il rapporto buca-orchestra è parso equilibrato grazie alla sensibilità del maestro che ha sostenuto le voci dando loro il dovuto spazio, ma anche cercando coesione e omogeneità nei momenti di difficoltà.

Sofia Soloviy è la Duchessa Elena; il giovane soprano ucraino perfezionatasi in Italia con Raina Kabaivanka - storica esecutrice di questo ruolo e presente alla recita - possiede voce nitida, sempre a fuoco, di bella pasta morbida e ombreggiata, ma di natura schiettamente lirica. Caratteristica questa sulla carta non del tutto sufficiente per risolvere la complessa vocalità di Elena, modellata ad hoc a Parigi per la voce di Sofia Cruvelli e tra le più difficili scritte da Verdi per soprano detto poi convenzionalmente drammatico d’agilità.

La Soloviy intelligentemente non si arrischia a spingere e ingrossare la voce oltre quello che la propria natura le consentirebbe, mantenendo sempre una linea di canto compostissima, abbastanza sfumata e costantemente dosata lungo tutta l’opera. Tratteggia così solo in parte le ricche sfumature psicologiche del personaggio, limitando l'impeto e la forza nelle perorazioni pubbliche a favore sempre di un lirismo sì vibrante, ma delicato e contenuto, quasi compassato. Risulta così più efficace e quindi apprezzabilissima nei momenti amorosi e privati, come emerge più evidentemente nel IV atto. Qui la Soloviy sigla un “Arrigo ah parli a un core” degno di nota e un duetto raffinato e musicalmente coinvolgente. Qualche indurimento in acuto non ha inficiato un pregevole bolero eseguito con rigore e puntualità. Una prova tutto sommato positiva dove il soprano riesce a giocare al meglio le sue armi.

Non serve chiedersi invece se e in quale misura il tenore slovacco Michal Lehotsky sia riuscito ad adattarsi alla complessa scrittura di Arrigo, nella quale forse più che in ogni altra Verdi ricerca legami con la tradizione francese, rendendola pertanto così anomala e disagevole che neppure i più grandi vocalisti sono riusciti a risolverla del tutto. In una parte affatto estranea alle sue corde, Lehotsky fin dalle prime battute dà l’idea di una voce che si avventura totalmente sul palcoscenico: il timbro piuttosto gutturale è poco attraente e i limiti tecnici rendono l’emissione forzata e la linea vocale raffazzonata. Fraseggio e musicalità non possono così che essere abbozzati e non l’aiuta certo una presenza scenica piuttosto legnosa. Porta a termine fortunosamente la recita e la “siciliana” tagliata della prima strofa e chiusa con un sovracuto poco azzeccato conferma la totale inabilità nel gestire le difficoltà del ruolo.

 

Nessuna riserva invece per le voci gravi, i rivali politici sulla scena, senza dubbio i migliori in campo. Il baritono Masoo Kim, Monforte, subentra in corso di prove al previsto Claudio Sgura, mentre Simon Lim, Procida, rimpiazza improvvisamente l’indisposto Roberto Scandiuzzi (impegnato in quei giorni anche con Aida a Parigi), chiamato in scena il giorno stesso della rappresentazione. Grande ovazione per lui dopo una ben cantata “Oh tu Palermo” dove dispiega una voce ampia, scultorea, ricca di suono, da autentico basso verdiano, di sicuro impatto ed effetto. Sostenuto da buona tecnica non ha nessun problema a risolvere le esigenze del pezzo trasmettendo, complice la morbidezza d’emissione, nobiltà, compostezza e al tempo stesso solennità. Nella successiva cabaletta “Santo amor che in me favelli” mostra un soffio di prudenza, ma nelle scene seguenti, grazie anche a una dizione scandita ed energica, conferisce alla declamazione quell’incisività indispensabile per la resa del personaggio, ambiguo, senza scrupoli e risoluto. Nel quartetto “ Addio mia patria” si impone con slancio sulla voce dei sui colleghi e negli atti conclusivi con canto schietto e fraseggio variegato, incarna con una tale forza e immediatezza il fanatismo del patriota siciliano che il pubblico non può che dimostragli sincero entusiasmo.

Masoo Kim nonostante la giovane età riesce a far risaltare i vari aspetti della figura di Monforte, rendendo al personaggio un’insolita vitalità a cui però all’occorrenza non mancano autorità e asprezza o, al contrario, sensibilità paterna che condividono l’inquietudine esistenziale di Filippo II o di Rigoletto. Costruisce così un tiranno che si scopre padre impegnando al meglio il proprio mezzo vocale: sicuro, chiaro, di bel colore e timbrato in tutta la gamma (a parte un registro grave meno pronunciato che prudentemente non forza), con l’abilità aggiunta di una dizione nitida e una pregevole cura della parola.

Mette così in rilievo il recitativo della sua aria, dando colore poi alle bellissime frasi legate che, nonostante dei fiati un po’ corti, cerca di addolcire per far risaltare ancora di più l’espressione del padre respinto. Canta con passione e incisività i due importanti duetti col tenore, e il pubblico, coinvolto, lo ripaga con la giuste acclamazioni.

Fra le parti di contorno una menzione particolare va al Danieli di Oreste Cosimo che canta molto bene e già con personalità espressiva. Ben centrati anche gli altri comprimari, nessuno escluso, che mettono in luce anche un senso della scena e della recitazione degno di nota: Alessandro Busi (Béthune), Cristian Saitta (Vaudemont), Elisa Barbero (Ninetta) ,Jenis Ysmanov (Tebaldo), Costantino Finucci (Roberto) e Riccardo Gatto (Manfredo). Gli artisti del coro diretto da Martino Faggiani oltre a essere degli ottimi attori offrono una prova musicale davvero buona. Nell’opera sono protagonisti quasi quanto i personaggi principali e il complesso Claudio Merulo di Reggio Emilia ha dato vita ai tormenti del popolo oppresso o all’arroganza degli occupanti con molta partecipazione.

Tutti gli interpreti aderiscono senza incertezze e perplessità all’idea registica di Livermore rilegge in chiave attuale Vespri Siciliani. L’ambientazione originale del libretto è nella Sicilia del Duecento, ma Verdi oltre a rivolgersi all’Italia dell’Ottocento parla trasversalmente fuori dal tempo: il passato conversa col presente e il regista fotografa l’Italia di oggi, dando vita ad uno spettacolo travolgente, personale e di forte impatto teatrale. Con la forza di una denuncia morale e sociale il popolo siciliano-italiano è rappresentato vittima di una mafia intesa come fenomeno globalizzato e quindi integrato in ogni aspetto della società che appare chiusa, indecisa, facile da manipolare; si cercano protezioni, scorciatoie e favori a svantaggio di diritti e libertà. Una mafia quindi vista come fenomeno complesso che trae linfa da collusioni politico-istituzionali e dall’uso della forza , che deve essere sradicata prima di tutto da una base culturale in cui anche i media corrotti e l’informazione viziata hanno un ruolo fondamentale. Livermore di scena in scena ci fa rivivere e specchiare in episodi o aspetti dolorosi della storia del nostro paese con un'emozione teatrale tangibile: dalla violenta accusa di Elena nella prima aria, che ricalca il discorso-denuncia della vedova Schifani ai funerali del marito, al ricordo della strage di Capaci ricostruito con crudo realismo come sfondo a “ O tu Palermo”. Il richiamo poi evidente a certi politici dell’Italia attuale fanno di Monforte un leader colluso con la criminalità organizzata che identifica, ome il regista stesso afferma, un fascismo-mediatico che impone una visione falsata della realtà tramite un sistema televisivo corrotto. L’invadenza, il cinismo e l’assoggettamento al potere dei giornalisti e dei commentatori politici è cosi evidente che non possono non essere ritratti che in maniera caricaturale; il matrimonio del figlio ritrovato Arrigo non può altresì che essere sfruttato da Monforte in campagna elettorale per fini politici e gli sposi, vittime ormai loro stessi del sistema, non possono che partecipare al programma “ Realissimo” della TV trash, contornati da ragazze immagine, tronisti, ballerini e presentatori di tendenza. Ma Livermore è ancora più audace e ci guida nel III e nel V atto all’interno dell’emiciclo del Parlamento ormai luogo di ambiguità e corruzione. Qui durante il finale “Oh Patria adorata” la proiezioni di un video con figure simbolo degli ultimi 150 anni dell’ Italia culturale, sportiva, politica, pubblicitaria e filmica è di sicura presa emotiva e suggella questa lettura di teatro politico e civile. Davanti ai soprusi e alle costrizioni il popolo oppresso trae la forza di reagire nel primo articolo della Costituzione italiana che appare proiettato alle spalle dell’aula di Montecitorio. Così prende coscienza del proprio potere compiendo simbolicamente i Vespri. In linea con questa visione le scene di Santi Cettineo sono di grande effetto nel restituire le suggestioni degli ambienti e in cui si inseriscono molto bene anche i costumi di Giusi Giustino . Spettacolo carico di significati quindi, particolarmente curato e innovativo, che rende giustizia a Verdi, che emoziona e conquista il pubblico.