Mozart e Salieri sulle orme di Gluck

di Francesco Lora

Al Theater an der Wien va in scena la riforma gluckiana, così come recepita nell’Idomeneo di Mozart e nelle Danaïdes di Salieri. Il primo spettacolo, diretto da Jacobs, è fortemente condizionato da una regìa fuorviante, mentre il secondo, diretto da Rousset, è risolto con un’esecuzione concertistica di riferimento

VIENNA, 15 e 16 novembre 2013 – Nella capitale austriaca, il Theater an der Wien supera gli altri teatri per finezza di programmazione, ed è dunque un paradiso per intenditori: il piccolo festival formato dalle sei recite dell’Idomeneo, re di Creta di Mozart (13-24 novembre) e dall’esecuzione in concerto delle Danaïdes di Salieri (16 novembre) ne è l’ennesima e benvenuta dimostrazione. Le due opere sono collegate da un fil rouge che non è di certo, o non è in primo luogo, la leggendaria rivalità tra i due compositori. Bisogna guardare al di sopra delle loro teste, ossia a Gluck, alla sua riforma del melodramma e alla recezione di questa presso i compositori più giovani: senza il modello di Gluck, il vocabolario di Mozart e Salieri sarebbe stato ugualmente meno ricco; senza la riforma di Gluck, Idomeneo e Les Danaïdes sarebbero stati ugualmente impensabili. Accomunano le due partiture un soggetto mitico ed esente da azioni secondarie, la pregnanza del canto d’espressione, la rilevanza data agli interventi del coro; infine – ma molto altro andrebbe detto ancora – le nuove risorse esibite nell’orchestra e nella strumentazione: la melodia edenica e il ghiribizzo rococò si alternano ad arte alle tinte lugubri delle trombe con sordine e al pianto dei legni; per non dire della veemenza scatenata in scene tempestose, accusatorie, catastrofiche: l’inferno spalancato da Salieri nel finale delle Danaïdes supera l’immaginazione di Gluck stesso, ed è ancor più tremendo e flamboyant di quello nel finale del Don Giovanni. Le due partiture, al contrario, sono separate dalle circostanze di genesi. Con libretto italiano aperto a eco metastasiane, Idomeneo andò in scena a Monaco di Baviera nel 1781; il suo successo fu buono, ma non tale da procurare la ripresa in altri teatri pubblici; l’autore – Mozart! – non smise tuttavia mai di considerarlo il proprio capolavoro. Con libretto francese stilato a partire da un libretto di italiano di Calzabigi (il co-ideatore della riforma del melodramma), Les Danaïdes andò invece in scena a Parigi nel 1784: Gluck in persona favorì il buon esito, prima dichiarando di aver composto egli stesso metà delle musiche, poi – quando un enorme successo era già stato incassato – rivelando che l’unico autore era Salieri. Fatta l’esperienza monacense o parigina, le carriere di Mozart e Salieri proseguirono poi a Vienna. Ed è da Vienna e dal Theater an der Wien che si va a dire della loro esperienza monacense o parigina, tramandata attraverso due spettacoli di segno dispari.


 

All’Idomeneo non ha giovato la regìa di Damiano Michieletto. Siamo alle solite: il regista, anziché farsi mediatore presso il pubblico di un testo teatrale esistente, chiuso e definito in un preciso orizzonte culturale, lo prende a pretesto per farne un lavoro autoreferenziale, nel quale la relazione con libretto, musica, esecutori e pubblico diventa accessoria, non richiesta, fors’anche sgradita. Il regista si isola in un processo di decostruzione: vorrebbe far piazza pulita del mito e delle sue logiche, e far scendere i personaggi dal loro rango principesco e dalla loro alta morale: Idomeneo dovrebbe passare da re tracotante e straziato a ometto schizofrenico, Idamante da eroe innamorato a bulletto pentito, Ilia da principessa prigioniera a piccola fiammiferaia, Elettra da esule ambiziosa a donnetta facile. Con quale mira etica, non si sa: così raccontato, Idomeneo ritrae forse le miserie dell’uomo di ogni tempo, ma non ha più alcunché da insegnargli, in tendenza opposta a poesia e musica eloquentissimi. Vedere attori e masse sempre intenti a malmenarsi, insozzando i costumi di Carla Teti nella scena di Paolo Fantin (una distesa di terra sparsa di stivali di gomma), rende infine la cifra dello spettacolo, che stomaca nei primi minuti per l’inutile truculenza delle immagini e annoia poi per quanto resta.

Spiace constatare l’allineamento dei musicisti alla pretestuosità della regìa. Per quanto tutti i cantanti manifestino impegno, il flebile Idomeneo di Richard Croft manca di autorevolezza regale, paterna e virtuosistica (le altere agilità di «Fuor del mar ho un mare in seno» scadono a nevrotici sfoghi tra sé); l’Idamante di Gaëlle Arquez, a dispetto del buono smalto, mostra segni di stanchezza vocale già nell’aria di sortita; l’Ilia di Sophie Karthäuser si consacra alla mestizia e disconosce i toni radiosi e sognanti che pure le si chiederebbero (per esempio in «Zeffiretti lusinghieri»); l’Elettra di Marlis Petersen, infine, scende a torbidi patti con note gravi e acute, dovendo nel contempo esibirsi in spogliarelli, lanci di parrucca ed esilaranti rivoltamenti in pozze di fango. Il più giustamente applaudito è l’Arbace di Julien Behr, evanescente di emissione ma elegante nel porgere. Una consolazione si trova nella piccola parte del Gran Sacerdote di Nettuno: Mirko Guadagnini si presenta infatti affaticato e fibroso, ma dà a tutti una lezione di accento drammatico all’italiana, con dizione scolpita e dovizia di sfumature. La locandina annuncia infine, senza tema di rossore, che la Voce di Nettuno canta in absentia: la machina del deus è infatti un amplificatore che diffonde la traccia di un CD. Nossignori, no.

Con René Jacobs sul podio della Freiburger Barockorchester e dell’Arnold Schönberg Chor, infine, ci sarebbero le premesse per un capolavoro di concertazione. Puntualmente, la lettura del direttore belga si ammira per pulizia, ritmo, gusto descrittivo e maniacale preparazione della compagnia di canto: nei recitativi le appoggiature tornano tutte al loro posto, anziché finir rinnegate per mera ignoranza di ovvietà; e già questo equivale alla riscoperta di buona parte dell’opera. Proprio nei recitativi figura, però, anche un tradimento stilistico: ai cantanti è richiesto di deporre la declamazione coturnata e di avvicinare i brani a un parlato confidenziale o sovreccitato, ritmicamente e melodicamente deforme in ambo i casi; ciò ben si combina col teatro di regìa di Michieletto, ma con esso costituisce una presa di distanza dalla verità testuale e storica. Alcuni minuti di applausi al chiudersi del sipario: ma il pubblico viennese è pronto a ben altro calore, ed essi paiono pochi perché si possa parlare di un successo.


 

Un successo trionfale è invece spettato alle Danaïdes, spettacolo nato grazie all’instancabile attività del centro veneziano di musica romantica francese Palazzetto Bru Zane: dopo il debutto nel Theater an der Wien, seguono a stretto giro l’incisione discografica e due repliche nell’Opéra royal di Versailles e nell’Arsenal di Metz (27 e 29 novembre). Ottimi gli auspicii. Il primo: l’esecuzione in forma di concerto esonera pubblico e critica dallo stress di seguire e valutare una regìa non all’altezza dell’opera; e tale è la forza narrativa della partitura da Salieri, da non far mai rimpiangere la mancanza di un’azione visibile. Il secondo: la direzione è affidata a Christophe Rousset, il più raffinato ed erudito tra i musicisti-filologi francesi, ambidestro nel suo stile nazionale come in quello italiano, abilissimo dunque nel mettere a fuoco un Salieri a cavaliere di due scuole operistiche. Per queste Danaïdes la sua orchestra colorata di pastelli e soffiata nel cristallo, Les Talens Lyriques, è stata affiancata dai cantori del Centro di Musica barocca di Versailles, i quali ne condividono l’impalpabile e struggente materia sonora. Non si potrebbero dunque ascoltare airs e divertissements – ossia le brevi arie e i quadri corali-coreutici tipici della tradizione francese – più soavemente zuccherosi, alla Fragonard, o più festosamente pomposi di quelli mossi da Rousset.

Ma Les Danaïdes è anche altro rispetto all’estrema estetizzazione rococò mutuata, per esempio e sul campo, dall’Écho et Narcisse di Gluck. Nella sua brevità (due ore scarse), l’opera di Salieri ha per oggetto il fosco mito delle cinquanta figlie di Danao, maritate ai cinquanta figli di Egitto con l’ordine paterno di ucciderli: la sola Ipermestra disubbidisce e salva il suo Linceo, cui spetterà poi vendicare i fratelli. In musica, ciò si traduce in momenti di frenesia e veemenza inauditi: ed ecco che Rousset sa trarre in modo inedito dai Talens Lyriques tarterei turbini di zolfo strumentale, in impetuoso ed esaltante contrasto con il delicato contorno. Una compagnia di canto sorprendente fa il resto dell’ottimo lavoro. Il soprano Judith van Wanroij ha voce piccina e acidula, ma dai toni queruli dell’atto I a quelli eroici del V la sua Hypermestre accampa un’evoluzione psicologica e gode di una varietà espressiva entrambe rimarchevoli. Magnifico interprete è anche il basso-baritono Tassis Christoyannis, che a dispetto dell’acuta tessitura di Danaüs conserva sempre accento autorevole e colore uniforme. La tessitura diventa acutissima nella parte da haute-contre di Lyncée, e Philippe Talbot vi si muove a sua volta con disinvoltura tecnica, luminosità timbrica e pregnanza espressiva fuori dal comune. L’alta qualità non viene meno neppure nelle parti di fianco, dove il soprano Katia Velletaz come Plancippe e il baritono Thomas Dolié come Pélagus fanno valere timbri personali e piglio espressivo. Entusiasmo del pubblico e attesa dell’incisione discografica, mentre già il 27 novembre si potrà seguire la diretta televisiva da Versailles (dalle pagine Culturebox e Medici TV).