Violetta, malata immaginaria

di Roberta Pedrotti

 

Violetta muore senza aver forse mai amato e senza esser mai stata traviata. Muore autodistruggendosi senza aver mai incontrato realmente il male di vivere. Dmitry Tcherniakov per l'inaugurazione della stagione scaligera e la chiusura ideale delle celebrazioni verdiane a Milano firma una Traviata in cui il contesto etico e sociale è dichiaratamente annullato. Così facendo anestetizza la carica dirompente di quest'opera e la grandezza titanica della protagonista, e l'allestimento più che parlare ai contemporanei sembra tornare alle censure e alle omissioni di un tempo. Notevole la prova - e l'impegno - di Diana Damrau. Assai personale e ricercata, seppur in linea con la messa in scena, la concertazione di Daniele Gatti.

MILANO, 22 dicembre 2013 - La grandezza di un capolavoro consiste anche nel saper parlare a ogni tempo e non esaurire mai il suo significato; il valore dell'interprete anche nel cogliere le sfumature che permettano all'opera di interessare il pubblico contemporaneo. Per questo siamo perfettamente d'accordo con Dmitri Tcherniakov, regista della Traviata che ha inaugurato la stagione scaligera, quando afferma che l'opera non è “una meravigliosa illusione del passato” ma che debba trovare una chiave per coinvolgere noi uomini del 2000; lo siamo meno quando afferma che oggi siamo sentimentalmente più complessi rispetto ai nostri avi di un secolo e mezzo fa, per nulla nel momento in cui teorizza la totale esclusione del contesto etico e sociale dal dramma di Violetta per poter mantenere vivo e attuale l'interesse verso la sua vicenda.

Certo, è difficile sostenere che oggi il contrasto fra morale pubblica e privata, la mercificazione del corpo, il culto del denaro e dell'apparenza non possano essere tematiche attuali o che nessun padre batterebbe il ciglio vedendo il figlio convivere con la più celebre e chiacchierata mantenuta della capitale. E anche se fosse, non è possibile dare evoluzione credibile a una psicologia senza un ambiente che la condizioni, rispetto al quale debba reagire: senza la benché minima riflessione sul mestiere di Violetta (sia o meno quello della lorette parigina di metà Ottocento, comunque deve giustificare l'appellativo di “traviata”, il senso dell'espiazione, il peso di un passato continuamente rievocato e rinfacciato) e sul contesto che la circonda tutta la vicenda perde di significato. Banalmente, una relazione nata quasi per caso finisce, inspiegabilmente, per l'intervento di un padre che arriva, chissà perché, a fare sermoni privi di senso a cui, chissà perché, si dà retta. Forse è solo un pretesto, perché i due non sono mai sembrati più di tanto innamorati e la donna sembra un'ipocondriaca convinte d'esser depressa e che quindi si distrugge a forza di superalcolici e psicofarmaci. In ogni caso, una vicenda poco interessante, perché eludendo l'elemento di scandalo della vicenda senza sostituirlo con un altro equivalente l'allestimento di Tcherniakov si pone sullo stesso piano dei mascheramenti settecenteschi o delle rassicuranti crinoline che hanno nel tempo offuscato la forza e l'attualità del soggetto.

Anche il fatto che i personaggi non siano mai soli e che anche nei monologhi abbiano sempre un interlocutore fisico, oltre a sfumare ogni tentativo d'introspezione, ci priva d'ogni momento d'intimità con loro e ci allontana ulteriormente da un'azione che scorre davanti ai nostri occhi ben celata da una quarta parete mai nemmeno scalfita.

“Non si possono disfare le trame tradizionali, come Clitennestra uccisa da Oreste o Erifile da Alcmeone, ma il poeta deve avere capacità inventiva e utilizzare bene la tradizione.” Nell'applicare questo assunto della Poetica aristotelica all'interpretazione di un'opera potrà essere una variabile il confine fra ciò che non si deve disfare e lo spazio lasciato all'inventiva, ma nel caso della Traviata il nucleo non sarà certo nella cornice storica, quanto nel rapporto di una donna di straordinaria forza e intelligenza con la società che la circonda. Questo è il nodo fondamentale della tragedia e il motivo scatenante della catastrofe: se manca La traviata crolla. Perde interesse. Se le cene eleganti chez Valery e chez Bervoix sono tali solo di nome esclusivamente perché i convitati sono abbigliati con pessimo gusto e senza alcun riferimento stilistico significa che non è stato interpretato il mondo di apparenze, ipocrisie, volgarità e raffinatezze in cui giganteggia la personalità di Violetta. E non possiamo provare simpatia, nel senso etimologico di partecipazione empatica, per personaggi dimidiati, privati di un contesto – quale esso sia – che dia ragione delle loro azioni e dei loro pensieri; dunque non possiamo provarne pietà, non possiamo temere la catastrofe. Non parliamo di una diversa prospettiva estetica, perché, si tratti di mymesis o di straniamento, il teatro richiede coerenza e compiutezza che ci permettano di confrontarci con Medea come con Meckie Messer, in modo diverso ma non meno intenso. Questa Violetta, per quanto immersa in una quotidianità vicina a noi, è semplicemente mal costruita, debole, teatralmente insignificante.

Anche dal punto di vista tecnico ci aspettavamo molto di più da Tcherniakov, che cura soprattutto i dettagli, con alcune immagini ben trovate (per esempio Violetta che fissa inebetita il telefono in attesa di una chiamata che non arriverà mai, o che si avvolge come in un bozzolo nel suo piumino, ma perfino la tanto vituperata nevrosi di Alfredo abbandonato che ritorna meccanicamente alle faccende domestiche interrotte) ma isolate, slegate da una costruzione drammaturgica che sappia renderle veramente convincenti, oltre che con scarso senso musicale nella gestualità e nell'azione. Talora si riconoscono echi irrisolti di Decker (il coro di Zingarelle e Mattadori, che per il tedesco aveva però ben altra coerenza e pregnanza allucinata) o Carsen (l'utilizzo delle fotografie, cui il canadese aveva dato ben altro peso drammaturgico), ma nulla colpisce il segno, la profondità del testo più che mascherata sembra ignorata.

Violetta, abbiamo detto, non funziona, per quanto Diana Damrau canti splendidamente, con una voce di normale calibro lirico leggero gestita con intelligenza e perizia tecnica di fronte a ogni difficoltà, per quanto s'impegni per far aderire il fraseggio alle indicazioni di Tcherniakov, trasformando per esempio “Ah fors'è lui” in un racconto in cui ridacchia della corte romantica del giovanotto appena conosciuto e pare ben più propensa alle follie che non a languori sdolcinati. Se questo sia un atteggiamento di facciata per esorcizzare un coinvolgimento emotivo o se sia la reale natura della protagonista, infatti, non è dato sapere, e non per demerito d'attrice della bravissima Damrau, quanto per un secondo atto del tutto irrisolto che crea un buco drammaturgico fra la sguaiata padrona di casa del primo atto e la depressa suicida dell'ultimo. Tcherniakov pare aver voluto rappresentare la depressione come morbo dei nostri tempi quale la tisi lo fu del XVIII secolo, ma noi vediamo solo una malata immaginaria che non ha l'aria d'aver incontrato il male di vivere, quanto d'essersi solo un po' fusa il cervello fra vizi ed eccessi.

Alfredo, arrogante, impulsivo, infantile e francamente antipatico, funziona meglio, ma suscita solo fastidio per la sua superficiale immaturità, né Piotr Beczala ci entusiasma con il suo canto rigido e talora spinto, in linea senza dubbio con questa visione del personaggio, ma non esente da incrinature musicali. Del pari Željko Lučić, che avrebbe voce splendida e naturalmente perfetta per Germont, è oggi piuttosto affaticato e incappa in suoni fissi e poco intonati quando la tessitura e la temperatura drammatica s'innalzano: il suo è poi il personaggio più maltrattato dalla regia, semplicemente inutile sotto il profilo drammatico e drammaturgico. Per contro acquisisce un peso inedito l'Annina di Mara Zampieri, che diviene giocoforza la protagonista ombra dell'intero spettacolo: cameriera, confidente, amica, guida, maîtresse, si avvicina maggiormente alla Prudence del romanzo (solitamente assimilata a Flora) e costituisce, anche grazie al carisma scenico dell'artista, la più riuscita e convincente costruzione di questo spettacolo, forse l'unico elemento che ricorderemo come degno di nota. Impallidisce al suo confronto la pur fisicamente abbagliante Flora di Giuseppina Piunti. Parimenti trova maggior spazio, nel secondo atto, il Giuseppe di Nicola Pamio, complice e quasi padre adottivo della coppia contrapposto in qualche modo a Germont (anche se la sua presenza durante il colloquio di questi con il figlio suona un tantino invadente). Curati nella gestualità, ma opachi nella psicologia e nei reciproci rapporti gli altri, il Barone di Roberto Accurso, il Marchese di Andrea Porta, il Gastone di Antonio Corianò, il domestico di Flora di Ernesto Petti e il commissionario di Ernesto Panariello. Andrea Mastroni è il dottor Grenvil cui è resa la gloria della frase finale, ma in un'edizione integralissima come questa, in cui Daniele Gatti ha studiato nel dettaglio ogni variazione e ha ben dichiarato nel programma di sala la ragione delle sue scelte, come quella di optare nel finale per l'orchestrazione più acuta e spettrale della prima versione dell'opera, è spiaciuto non ascoltare anche le brevi frasi dei due Germont. Musicalmente se ne è sentita la mancanza, fra tanta completezza,e anche teatralmente ha enfatizzato l'inutile andare e venire di questi due fantocci muti.

Per il resto, rendiamo al concertatore milanese il merito di una lettura minuziosa, studiatissima, ricca di preziosismi e soluzioni ricercate anche suggestive – si vedano certi rubati nel primo Preludio – ma come non riesce a infondere anima a questa Traviata, a sfuggire a una certa qual grevità di passo e freddezza di fondo, senza convincere sempre fino in fondo di scelte dinamiche ardite, per quanto comprensibili. Lo scatto della cabaletta di Germont, per esempio, vuol essere chiaramente il brusco risveglio dal torpore dell'idillio, ma suona comunque sproporzionato ed eccessivo.

La concertazione, come il canto, non si disgiunge dalla regia, e la rappresentazione come opera collettiva in cui ogni elemento, con le proprie peculiarità (ché traspare evidentemente come Gatti non si sia sottomesso a Tcherniakov ma abbia lavorato approfonditamente con lui) concorre per un fine comune è senza dubbio l'elemento più autenticamente moderno di questa Traviata. La strada è stata percorsa insieme con convinzione e a passo sicuro, ci sono stati inciampi e scorci suggestivi, ma era la strada sbagliata. Una strada che ha deliberatamente evitato di attraversare il cuore dell'opera e di leggerlo in luce nuova per noi contemporanei.

Alle repliche il pubblico, numerosissimo, ha comunque salutato lo spettacolo con applausi assai calorosi.