L'alba di Luisa

di Roberta Pedrotti

Giunge a Ferrara la Luisa Miller realizzata con i giovani preparati da Leo Nucci e Donato Renzetti per il progetto comune del Concorso Voci Verdiane di Busseto e della Scuola dell'Opera Italiana di Bologna. Un arduo cimento, ma nel quale si sono messi in luce anche talenti promettenti e in cui abbiamo apprezzato la cura della parola e della pronuncia chiara e precisa. Affettuosa ed esperta la direzione di Renzetti, mentre Nucci come regista ha deluso le aspettative.

FERRARA, 10 gennaio 2014 - L'iniziativa è bellissima e dimostra le straordinarie potenzialità della collaborazione e dell'interazione fra diverse istituzioni musicali attente alla crescita dei giovani attive in Emilia Romagna. Le forze in campo sono quelle del Concorso Voci Verdiane di Busseto (il cui direttore artistico, Cristina Ferrari, è a capo anche della programmazione del Teatro Municipale di Piacenza), della Scuola dell'Opera Italiana di Bologna (legata amministrativamente alla Fondazione ATER, artisticamente al Comunale felsineo), dell'Orchestra giovanile Luigi Cherubini, del Comune di Busseto e dei teatri di Piacenza, Ferrara e Ravenna. Si sono selezionate alcune giovani voci per un articolato laboratorio finalizzato alla produzione di un'opera che, dopo la prima en plein air in piazza a Busseto, è approdata a Piacenza e Ferrara prima di arrivare anche a Ravenna. Il titolo scelto, Luisa Miller, non può dirsi certo il più idoneo per degli esordienti, anche se non è la prima volta che per tenere a battesimo giovani talenti si compie questa ardita scelta. Senza dubbio ha giovato ed è stata ben valutata la possibilità di esibirsi in teatri dall'acustica particolarmente favorevole alle voci, così come la presenza amorosa sul podio di un maestro esperto come Donato Renzetti, che non ha rinunciato alle tinte accese del dramma, ma ha saputo alleggerire gli accompagnamenti quando necessario, assecondare il canto, sostenere e aiutare gli interpreti anche senza rinunciare all'integralità delle riprese delle cabalette.

Il docente principale, per quanto riguarda il percorso seguito dai cantanti, era Leo Nucci, curatore anche della messa in scena, ma oltre a lui e a Renzetti, altro responsabile per i maestri collaboratori, val la pena di citare almeno i maestri Fabrizio Cassi, Carla Delfrate e Matteo Pais, oltre a Salvo Piri, assistente di Nucci per la regia. Nelle prove di tutti i cantanti è parso evidente come, più che inseguire la chimera della voce verdiana, il progetto didattico si sia concentrato sul nucleo dello stile e dell'interpretazione del grande compositore: la parola. Davvero lodevole e impressionante la chiarezza di dizione raggiunta da tutti gli interpreti – nella recita cui abbiamo assistito a Ferrara tre italiani, un kazako, un coreano e una cinese – e ancor più in evidenza per l'assenza ormai rara di soprattitoli. Così non subivamo la tentazione di lascia cadere l'occhio pigro sul libretto proiettato, ma più che appellarci alla memoria potevamo godere il dramma pendendo dalle labbra degli interpreti sulla scena. Al di là di qualche occasionale ma ben perdonabile sbavatura musicale, questo ci è sembrato il più interessante frutto del laboratorio e più fecondo seme, insieme con l'esperienza di una vera produzione professionale, gettato per il futuro.

Luisa Miller, abbiamo detto, è un titolo che fa tremar le vene ai polsi anche ai cantanti più esperti, che richiede perizia virtuosistica e intensità drammatica ed esige, al pari di Don Carlo, un sestetto protagonistico eccellente (vi comprendiamo senza esitazione anche Federica, impegnata in soli due numeri, ma drammaticamente cruciale). Sarebbe pertanto quantomeno ingeneroso e sproporzionato valutare questo cast di giovanissimi con il metro che applicheremmo ai colleghi più noti, e apprezziamo piuttosto i potenziali espressi, in primis quello del tenore kazako Medet Chotabayev [guarda l'interviste]. Vocalità davvero interessante per pasta, colore, per istinto d'artista, capace di gestirsi ed emergere anche in una parte complessa come quella di Rodolfo. Resta la curiosità di riascoltarlo in ruoli più schiettamente lirici, che mettano in luce le sue doti senza il rischio di dover spingere. Silvia Pantani, Luisa [guarda l'intervista], ha un registro acuto squillante e si destreggia con disinvoltura, senza forzare, per quanto le si addicano decisamente più le frasi elegiache dei passi accesi e tendenti a dramma. Approfondendo un po' la coloratura la riascolteremmo volentieri anche in qualche ruolo belcantista, oltre che puramente lirico.

Dopo l'esordio in extremis a Reggio Emilia come Monforte nei Vespri siciliani sembra invece che questo Verdi sia il nume tutelare della carriera di Mansoo Kim; s'impegna molto per interpretare il vecchio Miller senza limitarsi a cantare, e se saprà affinare sempre più fraseggio e musicalità potrà offrire buone soddisfazioni.

Da segnalare anche il basso appena ventunenne Cristian Saitta, dotato d'uno strumento davvero notevole, forse l'elemento di maggior spicco del cast dal punto di vista della pura qualità naturale, che domina il quartetto del secondo atto, nel quale risultano ben udibili sola la sua voce e quella della Pantani. Nonostante l'indiscutibile impegno è parzialmente tradito dalla sua aria di simpatico ragazzone e dall'inesperienza, e il suo Wurm non è perverso e luciferino come si potrebbe desiderare, ma pure interessantissimo. Se saprà amministrare e raffinare come si deve questa rara voce di basso, schietta, robusta ma ancora un po' grezza, magari frequentando un po' di belcanto (“Vi ravviso, o luoghi ameni” e “Cinta di fiori” possono essere una palestra perfetta), potrà aprirsi la strada a una luminosissima carriera.

Più deboli il Conte di Walter di Gianluca Lentini e la Federica di Junhua Hao. Il primo necessita ancora di maturazione fisica e tecnica per essere correttamente valutato nelle sue potenzialità, la seconda presenta intatti i problemi timbrici, di fiato, proiezione, sostegno e disuguaglianze che avevamo già riscontrato nella sua avventurosa e prematura Amneris parmigiana di un paio d'anni fa.

E se quel che s'intende del lavoro di laboratorio è solo da lodare, come abbiamo detto, e se la cura della parola scenica è risultata encomiabile, la regia vera e propria di Nucci e Piri non ha convinto: cantanti al proscenio, mosse stereotipate, masse trascurate (gli sgherri del conte che si guardano intorno incerti nel finale primo ispirano quasi tenerezza), trovate risibili, come la morte degli amanti assistiti da Miller vista a mo' di “Pietà a tre”, o l'idillio campagnolo che si apre nello stesso momento, in contraddizione con un finale cupo e disperante come non mai, senz'ombra nel testo e nella musica di sereno respiro catartico. Ma del conflitto sociale e generazionale che fa di quest'opera un capolavoro ben più profondo d'una semplice storia d'amore contrastato, nella regia di Nucci poco o nulla si ravvisa; il mattatore della scena dietro le quinte si trasforma nel timido custode d'un teatro nato vecchio. I costumi di Alberto Spiazzi non sono troppo belli, e nel caso di Luisa e dei contadini risultano un po' stucchevoli; viceversa le scene di Rinaldo Rinaldi, Maria Grazia Cervetti presentano spunti interessanti nell'elaborazione pittorica, su agili pannelli, di scorci macchiaioli o di dettagli di scuola caravaggesca. Tuttavia l'intuizione non è poi sviluppata con un legame drammaturgico con l'azione e rischia di rimanere una citazione fine a se stessa.

Buon successo, anche se il teatro non era esaurito, e ce ne dispiace. Nell'augurarci che questo progetto di sinergie regionali possa ripetersi, consolidarsi ed espandersi in futuro con esiti sempre migliori non possiamo non auspicare anche una risposta di pubblico sempre più numerosa ed entusiasta, come meritano l'impegno e la passione degli artisti e di chi lavora con loro.