Con gli occhi di Macbeth

di Roberta Pedrotti 

Torna alla Pergola, dove esordì nel 1847, la prima versione del Macbeth verdiano e il regista Graham Vick ne coglie lo sguardo allucinato, la disperata e delirante solitudine alimentata dalla perversione del potere. Una visione teatrale potente ottimamente sostenuta dalla direzione analitica di James Conlon e dalle prove attoriali del cast.

FIRENZE, 22 giugno 2013 - La prima versione del Macbeth può essere considerata da due punti di vista, della micro o della macro struttura, delle varianti interne ai singoli numeri o delle intere pagine soppresse, sostituite, inserite, come gli splendidi balletti. Nel primo caso, per il duetto del primo atto, l’apparizione di Banco e il secondo incontro con le streghe, i diciotto anni che separano il Macbeth fiorentino da quello parigino segnano anche una nettissima evoluzione nel trattamento drammaturgico delle forme e della stessa frase musicale. “Fatal mia donna, un murmure” è nel 1847 non più di uno schizzo, di un abbozzo di quel che sarà nel ’65, quando Verdi saprà emanciparsi completamente da tutte le rigidità formulari che ancora ottundono e gravano la prima versione e così è anche per le altre modifiche microstrutturali che fanno apparire il primo Macbeth come il Prigione michelangiolesco in attesa di liberarsi dal marmo. Per il resto, al di là di una riscrittura completa di “Patria oppressa” (e parziale della stretta successiva all’aria di Macduff), che comporta un netto miglioramento e ne fa un tragico e solenne inno di dolore universale, dove non rielabora e fa evolvere il materiale originario, il discorso si fa più complesso e non è corretto tanto parlare di qualità della composizione, quanto di mutata prospettiva drammaturgica. Infatti “Trionfai, securi alfine” non possiede un grammo del fascino e della complessità di “La luce langue”, né si tratta di un brano di qualche bellezza, ma con il suo carattere assertivo accentua la violenza acritica e spavalda della Lady, incrollabile fino al sonnambulismo, mentre nel ’65 il personaggio costruisce serpentinamente, scena per scena, una tormentata discesa agli inferi parallela alla graduale ascesa al potere. In quest’ottica, nel ’47, la Lady non aveva parte nel terzo atto: quel che aveva da dire al marito per scatenare la sua feroce bramosia di potere l’ha già detto negli atti precedenti e dunque non tornerà a incitare Macbeth allo sterminio della famiglia di Macduff con il duetto “Ora di morte e di vendetta”, lasciandolo invece solo ad esplodere nella furiosa “ Vada in fiamme, in polve cada”. Il loro rapporto non è più continuo e dialettico, si consuma nello spazio del duetto e del banchetto; Macbeth acquista centralità crescente a discapito della moglie e nel finale l’attenzione è tutta per lui, con il grande monologo “Mal per me che m’affidai”, pagina che compie la riflessione di “Pietà, rispetto, onore” e fa della psiche del tiranno il fulcro ultimo del dramma, quando il gusto francese, più politico che individualista, preferirà dare una prospettiva più universale nel vituperato – a torto – finale corale e accentuare la dimensione ciclica e propagandistica del potere che inghiotte, nello spazio di un paio di battute, anche i suoi apparenti titani. Talvolta, proprio in virtù della bellezza e dell’importanza drammaturgica della pagina, soprattutto nei paesi anglosassoni si è preferito concludere l’opera con il monologo primigenio, mantenendo però fino alla scena della battaglia di Birnam la lezione successiva, con una cesura stilistica e drammaturgica evidente. Nel teatro di Verdi ogni partitura, ogni versione ha una sua unitarietà e precisa tinta inalterabile.

Tre lustri or sono Graham Vick mise in scena per la Scala il Macbeth del ’65 opprimendo e inghiottendo ogni personaggio con un gigantesco cubo, emblema impassibile del potere. Oggi, trattando la versione del ’47 cambia giustamente angolazione e si concentra sugli uomini e in particolare su Macbeth. Anzi, dopo aver rappresentato con cura agghiacciante il mondo dell’alta società scozzese nei primi due atti (vedere così ben sviluppato il rapporto padre-figlio fra Banco e Fleanzio e soprattutto l’affettuosa, familiare confidenza che intercorreva fra questi e i coniugi Macbeth prende direttamente alla gola al pensiero dei delitti che stanno per essere macchinati e consumati), negli ultimi due atti cambia di registro e nell’apparente realismo la prospettiva si distorce gradualmente nel delirio perverso del protagonista. Quelle streghe prostitute incontrate per caso nel primo atto (fra loro, evidentemente, dei travestiti poco curati che giustificano la battuta di Banco “Dirvi donne vorrei, ma lo mi vieta quella sordida barba”) incarnano la propensione inconscia e inconfessata di Macbeth alla trasgressione, il suo degrado morale, la sua ricerca di sicurezza fuori dal mondo patinato in cui vive. Torneranno, striscianti, drogate, come allucinazioni grottesche, incarnazione della deriva della mente del nuovo re, del suo turbamento, del suo carattere borderline. L’immagine successiva dell’uomo che canta “L’ira mia, la mia vendetta pel creato si diffonda. Come fiera il cor m’innonda, come l’anima m’assal.” brandendo un mitra e sterminando innocenti e fuggiaschi è chiaramente un delirio di violenza e onnipotenza, una furia allucinata che non ha più nulla di realistico, come non lo ha l’eccesso nichilista di sparare anche alla Dama che annuncia la morte della Lady. Vick ricrea il senso del grottesco caro al romanticismo che riscopriva Shakespeare e ne fa strumento di ironia, di introspezione psicologica, lente deformante della realtà, ironica e crudele, paradossalmente ancor più autentica.

Non solo, così, le prove attoriali dei cantanti e dei coristi sono eccezionali, ma contribuiscono anche a una lettura musicale più attenta e convincente. È il caso soprattutto di Luca Salsi, che recitando questo Macbeth ambiguo e tormentato, vero e attuale, canta anche con un’attenzione ai dettagli e ai colori, con una musicalità che non ricordavamo in altre sue prove recenti e che invece segnerebbe per lui la strada verso il definitivo, atteso passaggio da voce semplicemente di natura privilegiata a grande artista. Qualche suono risulta ancora un po’ artificioso, compiaciuto (e con qualche alterazione nelle vocali) ma la sua prova resta complessivamente notevole e lascia sperare in un futuro sempre più roseo. I giorni migliori della vocalità ferina di Tatiana Serjan sembrano invece trascorsi, la stanchezza qua e là si fa sentire e l’impervia “Trionfai, securi alfine” presenta un virtuosismo assolutamente non alla sua portata, tuttavia la figura elegante e la lunga frequentazione del ruolo le permettono di uscire a testa alta dal cimento, chiudendo senza problemi anche il sonnambulismo. Marco Spotti s’inserisce bene nello spettacolo come Banco giovanile, padre affettuoso (presumibilmente vedovo), nobiluomo stimato e cordiale più che autorevole e saggio generale, grande del regno. Anche il canto va in questo senso e se non ci ammalierà la bella cavata verdiana, con mezzi doviziosi e trascolorare di sfumature, il disegno drammaturgico complessivo resta coerente e avvincente. Forse anche il Macduff di Saimir Pirgu potrà sembrare un po’ leggerino, ma le dimensioni del teatro lo favoriscono, la voce piena ha uno squillo piacevole, ben smaltato, che tende a perdere qualità e proiezione nel piano, ma senza pregiudicare l’efficacia della sua prova. Bello, poi il rilievo dato al Malcom di Antonio Corianò, giovanotto che in tanti piccoli dettagli nel primo atto Vick rende sospettato credibile, quanto inverosimile regicida. Il suo rigore militare, nell’ultimo atto, sa di maturata dignità sovrana, ma anche di una certa qual vanità gradassa e superficiale. Bravi Elena Borin nei panni della Dama (severissima, ma forse già amante di Malcom) e Gianluca Margheri, che conferma come Medico l’ottima impressione destata in altri ruoli minori e ravviva il desiderio di ascoltarlo in altri cimenti. Alessandro Calamai (domestico), Carlo di Cristoforo (sicario), Giovanni Mazzei e i piccoli Sara Sayad Nik e Lorenzo Carrieri (le apparizioni) completano la locandina insieme con il coro, di cui ribadiamo la bella prova.

A reggere le fila musicali di un disegno teatralmente tanto articolato è dal podio James Conlon, che mai come in questa occasione mi ha convinta in una lettura verdiana. Riportare Macbeth nel teatro dove esordì, in quella stessa primigenia versione, per le celebrazioni del bicentenario dell’autore è una responsabilità stilistica non indifferente, un’impresa degna di un grande festival quale, nonostante tutto, il Maggio Fiorentino deve continuare a essere, e Conlon sa essere elegante e drammatico, barbarico e misurato, sa dosare i colori mantenendo la pulizia e la trasparenza delle sezioni, sa sfruttare la peculiarità acustica di un teatro piccolo ma un po’ secco, di una buca forse perfin troppo profonda per creare un Macbeth tesissimo, terso ma sfumato, perfino profumato di brume nordiche, crudele ma anche, in qualche modo, classico e belcantista. Non si perde una parola nel canto (perlomeno degli italiani per nascita o formazione, non proprio per la Serjan) che quindi, con la musica e il gesto si fa teatro. Direttore e regista guidano il cast per regalarci una delle più interessanti recite verdiane di questo tormentato bicentenario, e lo fanno non solo là dove Macbeth nacque, ma anche in un festival sul quale pende la spada di Damocle della liquidazione. Non possiamo che auspicare che la riparazione nelle giuste modalità dei danni compiuti dagli amministratori nei tempi passati sappia trasformarsi in una vera rinascita.