Le ombre della brughiera

di Roberta Pedrotti

Jessica Pratt, la Lucia di Lammermoor per antonomasia dei nostri giorni, torna finalmente alla Scala, dopo l'esperienza dell'Accademia, proprio con il titolo donizettiano. Al suo fianco si apprezzano le qualità in continuo affinamento tecnico e stilistico di Piero Pretti. Nonostante la presenza di un'autentica primadonna e di un tenore di valore ad assicurare le sorti della coppia protagonista, però, questa Lucia non entusiasma. Colpa della concertazione di Piergiorgio Morandi, greve e insensibile alle esigenze del belcanto e allo spirito della partitura. Un triste esempio di come la Renaissance donizettiana, perfino in presenza di interpreti moderni perfettamente in grado di coniugare tecnica, gusto e stile, abbia ancora molta strada da fare, soprattutto, ma non solo, nel campo della concertazione.

MILANO, 16/02/2014 - Donizetti sembra faticare a trovar casa nei maggiori teatri italiani, dove torna non troppo di frequente e con una rosa di titoli troppo ridotta rispetto alla ricchissima produzione del Bergamasco e alla moltitudine di capolvori misconosciuti o di possibilità filologiche.

Alla Scala, dopo la splendida Lucrezia Borgia del 2002, eccoci, per esempio, a contare una Lucia, un Elisir, una Maria Stuarda, con un Don Pasquale e delle Convenienze e inconvenienze teatrali allestite con l'Accademia. Una Favorite in lingua originale, un Belisario, una Maria di Rohan o un Polito sembrano chimere o appannaggio di circuiti cosiddetti minori in vena di progetti ambiziosi.

Al contrario, questa Lucia di Lammermoor proposta al Piermarini nella produzione del Metropolitan di New York appare emblematica dell'empasse stilistica e filologica in cui versano spesso gli allestimenti donizettiani, come dimostrano i tagli che tuttora vediamo affliggere la partitura ancora nel 2014. Non numeri interi, si badi bene, se non nel caso della scena che segue la pazzia, ma riprese di strette e cabalette, battute di trasizione (per esempio quelle prima della ripresa di “Verranno a te sull'aure”: “Questo scritto sempre viva la memoria in me terrà – Cara! Sì, sì, Lucia”) o nelle code dei vari numeri, oltre, naturalmente, al verso “Ma di Dio la mano irata” nella maledizione di Egardo, che pare impossibile riuscire a sentir cantato in teatro. Ovviamente il problema dell'accompagnamento della cadenza con flauto o glassharmonica (pure impiegata a Milano nel 2006) nemmeno si pone, né tantomeno – e ci pare più grave – quello di proporre una vocalizzi differenti da quelli non donizettiani cristallizzati dalla tradizione.

A questo si aggiunge la gravità della bacchetta di Piergiorgio Morandi, del tutto privo di fantasia, di senso del canto e, soprattutto, del belcanto, incapace di cogliere lo spirito della partitura, la tinta peculiare di questo primo romanticismo gotico e maledetto. Sembre voler sbrigare in fretta i momenti lirici per poi impantanarsi nelle strette, chiassose ma prive d'autentico slancio. Così perfino le tragiche vicende d'odio e d'amore dei Ravenswood e degli Ashton, che sulla carta costituiscono un modello esemplare di impeccabile drammaturgia musicale, perdono d'incisività e di efficacia, trascinandosi stancamente nello stesso fraintendimento che permette di strapazzarne gli equilibri con una pletora di microtagli. Né l'orchestra appare precisa e ispirata come si vorrebbe (mania inveterata, ancora, di sottovalutare la strumentazione del primo Ottocento italiano!) e il coro, parimenti, si presenta decisamente distratto e ondivago.

In questo contesto si trova perfettamente a proprio agio l'Enrico di Massimiliano Cavalletti, che letteralmente aggredisce la parte con uno fare grossier che lascia a dir poco interdetti, anche perché non si tratta di un mero dato stilistico, ma di un approccio che interferisce non poco sulla musicalità, rozza imprecisa e talora in debito d'intonazione, e sull'emissione, non sempre gradevole. Paradossalmente però, nell'acustica capricciosa del Piermarini post restauro, dal palco stampa di proscenio la sua voce gonfia e spinta risulta privilegiata – almeno in termini di decibel – rispetto al gioco di colori di belcantisti più scaltriti.

L'accompagnamento plumbeo e inerte di Morandi, unito alla sonorità della sala, spreca almeno in parte il gioco perlaceo e cristallino di colori e dinamiche cui Jessica Pratt ci ha ha ormai abituato e che tuttavia riesce sempre a rinnovare di recita in recita.

Il soprano australiano si conferma la Lucia di riferimento dei giorni nostri, per gusto, chiarezza, sensibilità, perizia virtuosistica, unità d'intenti artistici e di mezzi tecnici e, gemma pressochè isolata nella sua moderna pertinenza di belcantista, avrebbe certo meritato per il suo autentico debutto scaligero, dopo l'esperienza accademica delle citate Convenienze e inconvenienze teatrali, ben altro contesto e ben altra valorizzazione. Fuoriclasse condotta da un nocchiero maldestro capace di rendere infido un mare amico, non è certo sua la colpa se una produzione nel complesso povera di stimoli stenta a prendere il volo, a riprova del ruolo fondamentale ma troppo spesso sottovalutato della concertazione in questo repertorio.

Lo conferma anche il fatto che oltre a una primadonna di vaglia come la Pratt avevamo un tenore solido e affidabile ad assicurar le sorti della coppia protagonista. Piero Pretti, infatti, non sarà un artista di elettrizzante fantasia, ma è adeguatamente espressivo, canta bene e con gusto, facendo onore a un ruolo simbolo dell'eroe melodrammatico romantico, non a caso destinatario del grande finale dell'opera. La dizione poi è di chiarezza esemplare, il testo scolpito con appassionata nobiltà: un vero piacere per questo repertorio, oltre che conferma della bontà del metodo di un artista di serietà e professionalità rare.

Juan Francisco Gatell, come spesso capita ai tenori di lingua spagnola, nasaleggia un po' troppo, ma almeno a vantaggio della proiezione della voce e di una definizione appropriata della proterva, innata antipatia di Arturo.

Il resto del cast non entusiasma: Sergey Artamanov, che pure abbiamo sentito di recente assai impegnato nel primo Ottocento italiano, ha vocalità ancora non ben definita, acerba nella cavata e nella declamazione, se non guidato e sostenuto da una bacchetta più sensibile. A Barbara Di Castri (Alisa) sarebbe stato opportuno imporre un bel tacer almeno nella stretta del primo atto della seconda parte; Massimiliano Chiarolla è un Normanno insolitamente timido e insipido.

L'allestimento importato da New York non presenta particolari invenzioni registiche da parte di Mary Zimmerman; i personaggi si muovono come d'abitudine con solo alcuni tratti di (relativa) originalità come l'apparizione dello spettro della fonte durante il racconto di Lucia, premonizione dell'intervento dello stesso fantasma della giovane Ashton che accoglie in un tenero eterno abbraccio l'amante suicida. L'ambientazione ottocentesca è però azzeccata con i suoi richiami all'atmosfera di Cime tempestose – anche se di erica non s'è vista traccia – e un'identificazione abbastanza chiara e non peregrina fra Enrico e Hindley, Lucia e Catherine, Edgardo e Heathclift, Arturo ed Edgar Linton, con la decadenza di casa Earnshaw e le feste dei Linton. I costumi di Mara Blumenfeld servono bene al disegno generale, come le scene di Daniel Ostling e le luci di T.J. Gerckens, che apprezziamo soprattutto nell'ampio spazio vuoto pensato per il finale, delimitato solo da un arco e dalle sagome in controluce di un albero spoglio e di un sepolcro.

Alla fine il pubblico ha accolto gli interpreti al proscenio con condivisibili distinguo: incoronata trionfatrice Jessica Pratt, sommerso da una salva compatta di bu Piergiorgio Morandi.

foto Brescia/Armisano