La Tosca liberata

di Roberta Pedrotti

Tosca vola alta, al Comunale di Bologna, grazie alla direzione non men che magnifica di Jader Bignamini, che trasforma una ripresa di un titolo di repertorio in un'interpretazione memorabile. Sugli scudi l'orchestra stabile del teatro, in forma smagliante grazie alle amorevoli cure del concertatore, che pure non trascura un aureo rapporto con le voci, il palcoscenico, il teatro. Purtroppo non sempre all'altezza il cast ascoltato alla prima.

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[intervista a Jader Bignamini]

BOLOGNA, 20 febbraio 2014 - “Vissi d'arte”: un inciso prezioso del fagotto, il canto del violoncello, commosso e carnale, l'estasi perlacea dell'arpa. Ci si perde, quasi, nella capacità analitica di trarre il dettaglio cameristico dall'orchestrazione pucciniana, nella virtù sintetica di non farne un calligrafismo fine a se stesso, ma un logico momento di un ben articolato discorso teatrale e musicale. Jader Bignamini è infatti un direttore teatralissimo, ma non, come talvolta avviene, per un qualche semplice talento pratico nel gestire effetti e tempi drammatici; la sua è una visione molto più profonda, da musicista abile e intelligente che sa perfettamente come realizzare la visione drammaturgica dell'autore, rispettando stile e spirito della partitura con un gesto preciso e volitivo, sensibile e rigoroso. Conosce le ragioni della scena e del canto, che non risulta mai soverchiato dalla straordinaria cura strumentale, anzi, esaltato proprio perché iscritto in un disegno musicale perfettamente controllato. Così se il soprano, proprio nella sua aria, ha qualche sbandamento nel solfeggio, il concertatore è abilissimo nel tamponare i danni minimizzando la sensazione di inseguimento fra buca e palco. Qualunque cosa avvenga non manca mai uno sguardo d'insieme, una fluidità dei tempi, delle dinamiche e dei colori che risultano sempre naturali e consequenziali.

Bignamini, non previsto nel cartellone originario e felicemente scritturato a ridosso della produzione in sostituzione del nome inizialmente annunciato, si conferma bacchetta in grado di fare la differenza, uno dei musicisti più completi, solidi e interessanti oggi in circolazione. Il suo primo atto conosce la leggerezza dei momenti di commedia, ma senza calcare la mano sulla caricatura del sagrestano, sulle bizze gelose di Tosca o sulle monellerie dei cantori, bensì giocando di cesello sui colori, sui rubati, sui pesi, in modo da far risaltare ancor più – e senza dover ricorrere a effetti esteriori – l'attesa e infine l'ingresso di Scarpia. O, ancora, cogliendo una tensione severa, plumbea, tagliente, in un crescendo davvero agghiacciante per un Te Deum fra i più impressionanti mai ascoltati.

Si potrebbe proseguire a lungo, citando il dipanarsi sottile di tensioni e distensioni nel secondo atto, l'atmosfera brumosa, soffocante, senza luce o speranza, dell'alba romana, il palpitare dell'orchestra che rende ancor più angoscioso e quasi surreale il momento dell'esecuzione, per poi coniugare la folgorante immediatezza e l'assoluta precisione nel finale (eseguito integralmente con tutti gli interventi interni degli sbirri).

Possiamo immaginare una Tosca diversa, ma difficilmente una meglio concertata: non sembra ardito nemmeno il confronto con De Sabata, perché nella differenza profonda di due letture personali, possiamo riconoscere la stessa perizia, la stessa cura nel portare alla luce e sbalzare i valori della partitura, in definitiva la stessa intelligenza, la stessa attenzione, la stessa grandezza. De Sabata era forse più tagliente, Bignamini più sensuale e lirico, entrambi profondamente drammatici, coerenti e capaci di rivelare, parimenti, mille sfumature e sfaccettature.

L'opera si regge così saldamente sulle spalle del direttore, che fa splendere ancora una volta l'immagine di Puccini grande musicista e drammaturgo moderno, non solo autore di belle melodie commuoventi e di tragedie strappalacrime. Si regge anche sul solido allestimento rinnovato da Gianni Marras (con Andrea Oliva a riprendere le luci e Paola Crespi a rivisitare i costumi) sulla base di quello storico e ben noto di Alberto Fassini con scene e costumi di William Orlandi, chiaro, elegante e ben realizzato.

I cantanti, alla prima, convincono meno, per quanto sostenuti e compensati nei loro limiti dal podio eccellente che sa far dire al canto collettivo della scena e dell'orchestra ciò che manca alla singola voce. Ainhoa Arteta (Tosca) è dotata, oltre che di bella figura, di una voce importante, di ottime potenzialità e qualche intuizione non disprezzabile, ma non sorretta da una tecnica adeguata, con un sostegno alterno che pregiudica più di una volta la linea di canto, con qualche oscillazione, goffaggine dinamica e musicale di troppo. Male, poi, Raymond Aceto, che dallo Zaccaria nel Nabucco fiorentino è passato, in meno di un mese, a vestire i panni baritonali del barone Scarpia; panni per lui, un puro basso, assai scomodi, quando non decisamente impossibili. La voce suona dura, opaca, poco o nulla proiettata, chiaramente affaticata, la dizione arruffata e in queste condizioni non è possibile esprimere una qualsivoglia idea musicale o intenzione espressiva; la nobiltà, la libidine, la violenza, l'insinuazione, la galanteria, il sadismo, la sottigliezza che, miscelati in dosi diverse a seconda della personalità dell'interprete, sono ingredienti imprescindibili per ogni Scarpia degno di questo nome risultavano completamente assenti.

Il migliore risulta essere, dunque, il Cavaradossi di Stefano Secco, in grado di esibire una dizione chiarissima e una voce ben proiettata – anche se non particolarmente duttile – che ha acquisito anche una maggior brunitura nei centri.

Eccezion fatta per il Sagrestano insufficiente di Alessandro Busi (ed è un vero peccato, perché, complice Bignamini, l'ingresso “Sommo giubilo, Eccellenza!” avrebbe potuto esser da antologia, se la voce non risultasse così stanca e sfibrata), i comprimari sono tutti efficaci, dal partecipe Angelotti di Alessandro Svab, allo Spoletta squillante di Cristiano Olivieri, dallo Sciarrone rigoroso ma umano di Luca Gallo al carceriere sonoro di Michele Castagnaro, fino al pastorello di Valentina Pucci. Il coro (adulti e bambini) dà il meglio di sé, come l'orchestra, condotta a livelli di rara precisione, duttilità e intensità.

Il pubblico delle prime, si sa, non è dei più calorosi, ma il successo è pieno e siamo convinti che crescerà (con i dovuti distinguo) nel corso delle recite: sono ben tre le compagnie che si alterneranno e quando si può contare su una tale chiarezza e profondità di lettura, su una narrazione musicale di tale splendore, finezza e vitalità l'opera nel suo complesso non può che trionfare, anche in presenza di qualche voce meno a fuoco.