Riso amaro

di Roberta Pedrotti

Per l’inaugurazione della stagione lirica del Grande di Brescia, L’elisir d’amore va in scena con un cast di giovani di talento brillanti e ben affiatati, ma la concertazione disastrosa di Andrea Battistoni spreca l’occasione di uno spettacolo da ricordare.

BRESCIA, 13 ottobre 2013 – L’umorismo giocoso dell’Elisir d’amore è venato di per sé di malinconia agrodolce, ma, in questo caso, il retrogusto è stato decisamente più che amaro per un’occasione perduta, anzi, sprecata. Uno spettacolo in potenza delizioso, con un cast emergente di grande qualità e un allestimento ricco di spunti originali, è stato infatti gravato dalla pesante zavorra della direzione di Andrea Battistoni, che già a ventisei anni sembra essersi perso completamente per strada.
La partitura è letteralmente aggredita con impeto esteriormente bellicoso, fra clangori e pesantezze che strangolano il canto e disperdono l’atmosfera lieve, sorridente o melanconica, che dovrebbe essere cifra dell’opera. Le imprecisioni non si contano (il finale primo è davvero avventuroso), così come gli andamenti a singhiozzo che costringono il soprano a una vera e propria estenuante lotta con l’orchestra nella grande aria del secondo atto. La stessa greve rigidità spegne sia la cavatina di Dulcamara sia “Adina credimi” e tutto si trasforma in una corsa incoerente, scalmanata e furibonda nella quale, inevitabilmente, anche l’orchestra scivola spesso. Di fronte a questo disordinato muro di suono il palcoscenico fa ciò che può, e non è poco, anche se l’ascolto di quella che sarebbe una delle opere più universalmente, incondizionatamente godibili, diviene una sofferenza, non solo per lo scempio del capolavoro donizettiano, ma anche per la penosa prova imposta ai cantanti. L’impressione era che il direttore non avesse la minima contezza di ciò che avveniva sulla scena, né tantomeno del senso del canto, del respiro, delle dinamiche e del fraseggio per la voce come per gli strumenti.

Purtroppo, se lo sbandamento totale viene da un podio approssimativo e antimusicale, tutto lo spettacolo ne risente anche quando sulla scena ci sono divi di esperienza consumata. Tanto più, quindi, siffatta sconcertante concertazione risulta dannosa in una produzione dedicata a voci giovani e giovanissime, con tre debutti assoluti nei ruoli principali. Cantava per la prima volta Nemorino, infatti, anche Enea Scala, che pure era sicuramente, a dispetto dell’età ancor giovane, il cantante più scafato e conosciuto in locandina. In virtù della sua esperienza è riuscito a far fronte agli ostacoli dell’ostile bacchetta e ha imposto una sua personalissima visione del personaggio, affatto lontana dal tenero e ingenuo contadinotto di tradizione. Il suo è un ragazzo innamorato, irruente e spavaldo, pronto ad affrontare subito il suo rivale, ma cosciente dell’inferiorità della sua educazione (non è comunque analfabeta) e quindi capace anche di timori e insicurezze. Un approccio notevole e foriero, soprattutto con altri direttori, di grandi soddisfazioni, perché la parte si adatta benissimo alla sua vocalità e il fraseggio è sempre vario e accurato, con i giusti accenti di poesia. Non stupisce che uno dei momenti migliori della recita sia stato il duetto con il Belcore di Francesco Paolo Vultaggio, che invece, nella sua ancor giovane carriera, aveva già avuto modo di affrontare il miles gloriosus donizettiano. Bella e franca vocalità baritonale, perfetta per questo repertorio, offre una caratterizzazione ben misurata nel solco della tradizione e assolutamente efficace, alternando tra l’altro da una recita all’altra il rivale di Nemorino e il dottor Dulcamara. Quest’ultimo era impersonato nella recita cui abbiamo assistito da Biagio Pizzuti, appena venticinquenne e in possesso di promettentissime doti interpretative e musicali. Della condotta scellerata dei tempi e dei pesi sonori nella sua cavatina s’è accennato, ma il gusto dei recitativi e soprattutto il duetto con Adina lasciano intravedere anche nel suo caso ottime prospettive per future riprese di questo ruolo e di altri più schiettamente baritonali. Stesso discorso per l’Adina di Lavinia Bini, voce piacevole e interprete brillante troppo spesso costretta a spingere e affannarsi, eppure capace di render giustizia con temperamento e musicalità alla capricciosa fittaiuola e far assai ben sperare per il futuro. La frizzante Giannetta di Dorela Cela completava un cast cui, nella comune difficoltà, vanno riconosciuti, oltre alle indubbie e interessanti qualità individuali, anche un affiatamento complice che molto ha contribuito al salvataggio dello spettacolo.

Solisti e coro (preparato da Dario Grandini) erano intensamente coinvolti dall’allestimento di Arnaud Bernard, cui va il merito di aver saputo guardare all’Elisir d’amore da una prospettiva diversa dal solito, non tanto per l’ambientazione non certo inedita (la pianura Padana nel secondo dopoguerra), quanto per l’assenza dei soliti cliché e, anzi, alcune gustose sottolineature, sia nella già citata caratterizzazione di Nemorino (che al suo ingresso ricorda un po’ Henry Winkler in Happy Days), sia nelle allusioni al cinema e alla TV. Dulcamara utilizza infatti spezzoni di Carosello per pubblicizzare il suo Elisir e altrove brandisce una videocamera comeL’uomo delle stelle di Tornatore, fra contadini e mondine d’ispirazione neorealista nei costumi di Carla Ricotti. L’idea di base avrebbe potuto risultare meglio approfondita e l’azione, brulicante e talvolta un po’ troppo frenetica, più godibile, se temperate in accordo con un podio meno aggressivo e claudicante.
Al termine dello spettacolo il pubblico bresciano si conferma maturo e giusto: applausi scroscianti per i cantanti, festeggiati con calore anche in corso d’opera, e contestazioni decise per Battistoni, senza il quale un Elisir scalpitante d’energia e di potenzialità avrebbe potuto rivelarsi uno spettacolo da ricordare negli annali del Grande.