Divini cantori tra le mura di Versailles

di Valentina Anzani

Un cast di eccezionale bravura fa rivivere l’Artaserse di Vinci: Max Emanuel Cencic e Franco Fagioli portano il pubblico al delirio in un allestimento dalle molteplici chiavi di lettura e dai diversi piani narrativi, che propongono una riflessione metateatrale niente affatto scontata, anzi avvincente e seducente come poche.

VERSAILLES, 18 marzo 2014 - Nel febbraio 1730 due Artaserse furono allestiti in due dei teatri maggiori d’Italia. Il libretto di Metastasio era stato messo in musica da Leonardo Vinci per il Teatro delle Dame di Roma e da Adolf Hasse per il S. Giovanni Grisostomo di Venezia. Protagonista della produzione romana era Carestini, l’unico cantante in grado di competere per bravura e magnetismo sul pascoscenico con il celeberrimo Farinelli, che era stato scritturato per l’opera omonima di Venezia. L’Artaserse di Vinci e Metastasio, partitura nata in questo clima di rivalità tra teatri e cantati, e dunque esemplare per difficoltà e bellezza, è stata fatta rivivere con un cast eccezionale e una imperdibile regia nel 2012 all’Opéra Royal di Lorraine-Nancy. Questa stessa produzione è stata ripresa per tre repliche tra il 19 e il 23 marzo scorsi sul palco del teatro dello Château de Versailles.

Al centro del libretto troviamo le conseguenze dell’assassinio del sovrano persiano Serse per mano di Artabano e dei macchinamenti di quest’ultimo per cercare di far salire al trono suo figlio Arbace, il quale è però onesto e non intende tradire il legittimo erede e amico Artaserse. Alla fine Artabano è scoperto ed esiliato, Arbace e Artaserse sono riuniti alle rispettive amanti, Mandane e Semira.

L’orchestra del Concerto Köln si presenta in organico ridotto ma il prezioso cast regge in modo straordinario alle perigliose difficoltà della partitura, guidati da un Diego Fasolis esigente ed energico. Franco Fagioli, superbo interprete del protagonista Arbace e Max Emanuel Cencic (Mandane) si spartiscono il podio di bravura, ma gli altri non sono da meno. Al comparire di Vince Yi, interprete del ruolo eponimo di Artaserse, si prova quello stesso dubbio più volte espresso dai viaggiatori settecenteschi sulla identità sessuale del cantante che si ritrovavano ad ascoltare: la sua voce è brillantissima, e par davvero un soprano donna.

Valer Sabadus è una Semira elegante, Yuriy Mynenko (Megabise) non sfigura. Le qualità vocali di ognuno sono accompagnate da un controllo minuzioso dell'azione scenica, curata da Natalie van Parys, che rende fluidi ed eleganti sia movimenti delle masse sia i piccoli gesti dei singoli personaggi. Molto apprezzate la recitazione e l’espressività fisica del tenore Juan Sancho (Artabano), che forse esagera quando, durante i recitativi più bisognosi di enfasi, si abbandona a un parlato in tono rabbioso, così come le frasi più acute risultano eseguite in modo poco coerente con lo stile dell’epoca: troppo urlate, necessiterebbero di maggiore delicatezza.

L’atteggiamento del regista Silviu Purcarete nei confronti della prassi barocca è disarmante: ne fa una rilettura rispettosa e attenta alla ricostruzione filologica, riuscendo nell’intento di renderla attualissima. La più forte sensazione che si ha durante la rappresentazione è un disorientamento spaziale e temporale: in un contesto in cui gli spettatori entrano nel meraviglioso teatro della reggia di Versailles e scoprono cantanti e comparse già sul palco privo di sipario che si scambiano abbracci, dialogano e sistemano i propri costumi, non si sa dove la scena inizi e finisca, né quale sia la vicenda che si intende rappresentare. È forse quella dei figli di Serse, accaduta nei regni persiani del IV secolo a.C.? Oppure, allargando il campo, è una vicenda ambientata in un teatro della Roma barocca, che vede un gruppo di cantanti mettere in scena un dramma per musica? In realtà sorge il dubbio che lo spettacolo cui si sta assistendo sia un’azione teatrale che si svolge oggi, nell’esatto tempo cronologico in cui noi spettatori assistiamo a ciò che avviene sul palcoscenico. Sorge il dubbio di esserne coinvolti, essere parte integrante di un dramma in cui il pubblico e le sue reazioni sono necessarie allo spettacolo.

Meritevole di elogio è anche l’attenzione che viene riservata alle forme musicali: quella struttura su cui il dramma barocco si fonda, che che già i critici coevi lamentavano essere piena di lungaggini nei recitativi e di superfluo proliferare di ariette, viene sottolineata da scelte registiche che evidenziano anzi l’ineliminabilità dei singoli elementi e la perfetta coerenza costruttiva di un dramma di tal fatta, attraverso espedienti scenici che sono anche funzionali a suggerire l’affetto che domina i vari momenti del dramma.

Purcarete riesce in una sintesi capace di far rivivere quella che doveva essere stata la realtà del teatro barocco della Roma del 1730. L’idea di un cast di soli uomini, in cui i corpi maschili sono stretti in corsetti, che si muovono facendo sballonzolare crinoline e vibrare piume, portando collier su forme fisiche decisamente troppo dure per essere femminili potrebbe sfiorare il grottesco, eppure non accade. Non manca uno sguardo critico al fenomeno del teatro Settecentesco e alle sue modalità di fruizione. Non sono forse i castrati meccanici canarini prodotti e creati per far passare il tempo e divertire? Non è forse un carillon la pedana rotante al centro del palcoscenico? Non è una bambola la giovane Semira? Sono tutti sottoposti allo stesso destino, questi uomini canterini che vorrebbero sottrarsi ai propri doveri di interpreti ed evitare di cantare una lunga aria in un momento in cui il loro personaggio vorrebbe solo starsene muto e solo; sono invece obbligati a continuare da guardiani donne, così come accade durante la topica aria di catene che spetta al protagonista a fine atto. Sarebbe uno dei tanti momenti in cui il cantante esce dal proprio personaggio per essere solo se stesso, divo davanti a un pubblico che dimentica la vicenda e la coerenza logica per andare in deliquio all’ascolto di acrobazie vocali. Vorrebbe qui solo uscire di scena, questo cantante settecentesco interpretato da Franco Fagioli, ma viene forzato sulla ribalta dal manipolo di guardiane. Il giovane Arbace ingiustamente incarcerato si trasforma in un cantante la cui prigione è il palcoscenico. La difficilissima aria manda il pubblico in delirio; una volta terminata il cantante si affloscia stremato, coperto però da una pioggia d’oro.

Un’altra pioggia d’oro la rivedremo a coprire tutti gli interpreti schierati per il trionfante pezzo d’assieme del finale, con piena orchestra in un tripudio di fiati e nel generale entusiamo, con la certezza che uno spettacolo tale non smetterà di stupire.