Il turno di Tat'jana

di Roberta Pedrotti

Un'indisposizione impedisce a Valeriu Caradja di interpretare Onegin nella seconda recita dell'opera di Čajkovskij al Teatro Comunale, sostenuta ancora una volta nel ruolo eponimo da Arthur Rucinski. Alla delusione di non aver potuto saggiare la compagnia alternativa nella sua completezza compensa però la buona prova di Anna Kraynikova nei panni di Tat'jana.

[Leggi la recensione della prima compagnia]

BOLOGNA, 2 aprile 2014 - All'abbassarsi delle luci per la seconda recita dell'Evgenij Onegin, una piccola delusione prelude allo spettacolo: per un'indisposizione il previsto Valeriu Caradja non potrà sostenere il ruolo del protagonista, nuovamente ricoperto da Arthur Rucinski. Peccato perché il giovane baritono moldavo, allievo di Mirella Freni (l'ultima Tat'jana al Comunale fino alle recite odierne), aveva dato prova in altre occasioni di eleganza e musicalità, e la curiosità di ascoltarlo come Onegin era davvero molta. Di Rucinski invece possiamo solo ribadire le impressioni destate alla prima: problemi d'intonazione, difficoltà d'articolazione e legato nella frase musicale, declamazione disomogenea, tesa e legnosa.

 Una grata sorpresa viene invece dalla Tat'jana di Anna Kraynikova: già nota a Bologna come allieva della Scuola dell'Opera nel 2008/2009 e oggi regolarmente impegnata al Bolshoi, avrebbe tranquillamente meritato l'onore della prima. La voce è infatti piacevolmente lucente, ben proiettata, l'interpretazione in crescendo (ma nella scena della lettera l'accompagnamento di Shokhakimov tarperebbe le ali a chiunque) con un finale fiero, tormentato e incisivo. A ciò si aggiunge un'elegantissima presenza scenica, con un fisico da modella, chioma bionda e lineamenti nordici che ricordano lo stile delle dive di Hitchcock e valorizzano al meglio il taglio dell'abito fucsia che Joanna Klimas disegna per Tat'jana ormai principessa Gremina. Ol'ga è ora Anna Victorova, voce di grana più robusta rispetto alla Belkina, ma non sempre disciplinata al meglio; il quartetto femminile, comunque, risulta assai più equilibrato, e se la Larina di Elena Traversi deve affinare l'emissione, pur nelle potenzialità interessanti di un personaggio reso più giovanile del consueto, la Filipp'evna di Cristina Melis suona assai più valorizzata nelle sue qualità in un ensemble più rifinito e timbricamente differenziato. L'altro elemento nuovo rispetto alla prima era il tenore Khachatur Badalyan, le cui intenzioni sono però subordinate a un'emissione costantemente indietro, che lo costringe a forzare in alto, ne limita lo squillo, la proiezione, la possibilità di fraseggiare e sfruttare le dinamiche. Molto meglio, nel complesso, Skorokhodov, ascoltato la sera della prima.

Permangono le perplessità sul Gremin di Aleksej Tanovitsky, che però stavolta il pubblico premia senza riserve, e sul Triquet di Thomas Morris, esperto caratterista, ma voce un po' usurata. Nicolò Ceriani e Luca Gallo completano ancora il cast da validi professionisti.

Soprattutto permangono i dubbi sulla prova di Aziz Shokhakimov, più ancora che per le imprecisioni e per un rapporto di sincronia e volumi fra buca e palco non perfettamente calibrato, per la mancanza di tensione, di accento, mordente, di drammaturgia musicale in un testo deliberatamente non teatrale, è vero, ma innervato da un'analisi e una cura psicologica che hanno ben pochi termini di paragone. La vicenda quasi quotidiana di quattro ragazzi che si incrociano, che maturano, che vivono e mutano i propri sentimenti avvicinandosi all'età adulta non è – nonostante la morte di Lenskij, che avviene peraltro quasi per caso, esito drammatico di una lite sciocca e banale portata alle estreme conseguenze – una tragedia, ma è vissuta come tale, perché, in fondo, per ciascuno di noi le rinunce, gli abbandoni, gli slanci e le passioni dell'adolescenza assumono un tratto eroico e assoluto destinato a ridimensionarsi con il senno di poi.

Abbiamo la ciclicità delle generazioni, con la vedova Larina che racconta di aver vissuto un'educazione sentimentale assai simile a quella della figlia, abbiamo di atto in atto un percorso anche attraverso la società, dai cori contadini (pur qui dimidiati dai tagli) alla festa borghese impreziosita all'eccentrico esotismo chic dell'ospite francese, fino al grande ballo dell'alta aristocrazia nella capitale. Abbiamo quattro caratteri, complementari e speculari come quelli del Così fan tutte, due addii gemelli ("Proschai navyek!", "Addio per sempre", dice Lenskij a Olga al termine del quadro dell'onomastico; "Poschai navyek!" dice Tat'jana a Onegin nel finale), irreparabili dell'ardore giovanile, una fanciulla sognatrice avida di romantiche letture che si fa donna consapevole, colta e raffinata, un dandy che annega nel vuoto labirinto del proprio narcisismo senza saper diventare adulto, un poeta che soccombe all'irruenza dell'idealismo adolescenziale, un'allegra spensieratezza che s'infrange contro il mondo. Anche senza un'autentica teatralità, la traduzione musicale del poema di Puškin offrirebbe infinite occasioni di rifinitura e approfondimento agli interpreti, infinite prospettive per renderne il pathos e il cosmo psicologico, ma non ne troviamo alcuna nella bacchetta del giovane kazako, così come ne troviamo troppe nella messa in scena di Mariusz Treliński. Con un cast parzialmente variato e all'approfondimento di una seconda visione non si dissipa infatti la sensazione di una messa in scena pretenziosa, di una costruzione visionaria ricchissima di invenzioni, simbologie, spunti, ma troppo spesso irrelati, limitati alla ricerca della singola immagine, efficace o meno, più che di un linguaggio teatrale coerente e significativo. Rimaniamo perplessi, ma circondati anche per la seconda recita da un pubblico assai folto e decisamente soddisfatto.