Il canto intelligente

di Francesco Lora

Nell'ambito della Sagra malatestiana di Rimini la preziosa occasione di ascoltare musiche da Il palagio d'Atlante, lavoro capitale e perfino mitico nella storia della musica, frutto della collaborazione fra due colossi del loro tempo come Luigi Rossi, compositore, e Giulio Rospigliosi, librettista. Eccellente la prova dei solisti diretti da Luca Giardini, ma l'allestimento porge il destro a più d'una perplessità.

 

RIMINI, 13 e 14 agosto 2013 – Per la sua epoca e per la storia della musica, l’opera Il palagio d’Atlante fu ed è un mito: musica di Luigi Rossi (un principe della scuola compositiva romana, oggi degno di essere restituito all’antico trono), libretto di Giulio Rospigliosi (intellettuale e diplomatico di rango, in séguito eletto papa come Clemente IX), qualche decina di personaggi e qualche ora di rappresentazione (ma non le otto favoleggiate da qualche entusiasta) e alcune sbalorditive recite date a Roma nel 1642 (lo stesso anno dell’Incoronazione di Poppea monteverdiana) dentro il teatro di Palazzo Barberini (luogo non meno incantato di quello ariostesco nel titolo dell’opera). Ma certi portenti non si ripetono: le difficoltà di riallestimento di quest’opera ai nostri giorni sono date non solo dalla sua concezione colossale, ma anche dal difficile riordino delle musiche, testimoniate da alcuni manoscritti ora frammentarii ora contraddittorii. Se non si può ridare voce all’opera nella sua interezza, la Sagra Musicale Malatestiana ha però ideato un concerto a base di sue musiche scelte: 13 e 14 agosto, in un terzo edificio meraviglioso eccezionalmente riaperto al pubblico, e cioè la parte agibile del Teatro Galli di Rimini, bombardato settant’anni fa e poi rimasto eterno cantiere. Come concertatore dell’impresa è stato chiamato Luca Giardini, l’inconfondibile violinista neroriccioluto e dall’aria gioviale che gli appassionati di musica del Sei-Settecento avranno visto infinite volte in prima fila nelle principali orchestre con strumenti originali: Accademia Bizantina, I Barocchisti, Collegium 1704, Europa Galante e Il Giardino Armonico, per dirne solo alcune. Per lui è giunto il tempo di cimentarsi con una propria ensemble strumentale: fresca di fondazione, a Rimini egli ha dunque presentato la sua Sezione Aurea, qui limitata a nove strumentisti scelti tuttavia tra i più valenti in circolazione per l’analisi di questo repertorio; una formazione di gran lunga più snella rispetto a quella dei fasti barberiniani, e non sempre attendibile nella sua consistenza – è pertinente l’uso del cornetto torto, sublime strumento condannato a rapida obsolescenza, in un’orchestra romana e teatrale di metà Seicento? – ma abile nel ritrovare in fraseggio e timbro le tenebre, le perversioni e i bagliori della Roma barocca. Eccellente la scelta e la prova dei cantanti che, da un brano all’altro, si sono spartiti in tre l’infinito novero delle dramatis personae. In essi si è ammirata l’autonomia intellettuale di artisti che, alle prese con un testo letterario e musicale di alta dottrina e tutt’altro che confidabile alla mera intuizione, hanno saputo essere nel contempo grandi vocalisti, grandi retori e grandi attori. Quando canta il tenore Alberto Allegrezza, si ritrova la commensurabilità tra il metro musicale e quello letterario, e tra la sfumata modulazione della frase melodica e la perita accentazione dei versi sciolti: ciò che agli orecchi dell’intenditore pareva un sogno irrealizzabile, e che qui è anzi stata condita con timbro di rara luminosità, emissione di rari naturalezza e agio, vocalizzazione di bella granitura. Il soprano Cecchi Fedi, per parte sua, ha messo in luce soprattutto nel grande monologo di Bradamante, «Dove mi spingi, amor, dove, ohimè, dove?», un dominio del mezzo vocale degno di una sequenza di Berio, tanta è la varietà di affetti squadernata in questa musica, e tanta è stata la sua destrezza nel raccogliere ogni nuovo piglio o inflessione: ella è l’intelligenza che si fa musica. E bravissima e assai ben assortita con la collega è stata anche Silvia Vajente, soprano di timbro più rotondo e di modi più uniformi e lirici anziché cangianti ed epici: a lei sono stati giustamente affidati i brani più melodici della partitura (comprese le tre strofe con eco di «Se mi toglie ria sventura», a qualcuno ben note poiché edite in una diffusa antologia di arie antiche). L’apporto di una quarta voce, quella della giovane Elena Bernardi, con l’ulteriore concorso degli strumenti, ha permesso di riascoltare in forma per così dire semi-intavolata anche alcuni dei grandiosi cori a dieci voci sparsi nell’opera. In cauda venenum: la cultura dell’immagine nella quale oggi ci troviamo inzuppati incoraggia anche a livello politico – leggi: fondi pubblici per progetti speciali – le sinestesie tra vie espressive diverse quando non confliggenti; spacciate per arricchimento culturale, esse sono più di sovente stolti cocktail di incenso e zolfo. L’incenso è il nostro Rossi, musicalmente così ben eseguito a Rimini. Lo zolfo è l’installazione-performance che una distinta compagnia teatrale ha sovrapposto all’ascolto, disturbandolo con rumori e soprattutto con un concept compiaciutamente ignaro dello spirito ariostesco (ben altrimenti dinamico e ironico), della drammaturgia rospigliosiana (ben altrimenti sottile e attuale), della musica rossiana (ben altrimenti espressiva e struggente) e del lavoro fatto dai musicisti (ben altrimenti preparati e dediti). Concept, ovvero il diabolico neologismo teatrale in nome del quale i registi d’avanguardia vorrebbero oggi insegnarci, al di sopra e al di fuori di ogni logica già presente e coerente nel testo, ad ascoltare, guardare e intendere i capolavori di un passato troppo grande per la nostra attualità spesso miserabile al confronto. Il risultato è da contrappasso dantesco: se il cum-capio/con-cipio latino, da cui il conceptus e il concept, significa ‘prendere insieme’, ‘capire’, ‘assorbire’ (ovviamente nell’orizzonte di pensieri adeguabili l’uno all’altro), quello di detta compagnia teatrale è un pietoso andare a far scorta d’acqua con un cesto di vimini.