di José Noé Mercado
Maria Katzarava (già nota come Maria Alejandres) e Arturo Chacon sono una coppia di protagonisti d'altissimo livello per l'opera di Massenet. Tuttavia né la bacchetta di Alain Guingal né, soprattutto, la messa in scena di Antonio Algarra - approssimativa e superficiale sia nella condotta attoriale sia nella cura di scene e costumi - hanno convinto, lasciando godere delle arie e dei duetti dei due amanti, preferibilmente, en fermant les yeux.
CITTA' del MESSICO, marzo 2014 - Manon di Jules Massenet, un'opera che in Messico si proponeva con la frequenza di due o tre volte al decennio fra gli anni '30 e '70 del ventesimo secolo, con protagonisti del calibro di Irma González, Victoria de los Ángeles, Montserrat Caballé, Beverly Sills, Giuseppe di Stefano o Alain Vanzo, è tornata al Teatro del Palacio de Bellas Artes con cinque recite l'11, 13, 16, 18 e il 20 di marzo.
Manon, questa ragazzina frivola, calcolatrice, materialista, fedele ai piaceri e alla bella vita, ha trovato una magnifica interprete nel soprano Maria Katzarava, che ha abbandonato il nome d'arte Alejandres, adottato per diversi anni. Certo è che la Katzarava non ha solo sedotto perdutamente il cavalier Des Grieux, protagonista maschile di questa opera su libretto di Henri Meilhac y Philippe Gille dalle Aventures du Chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut dell'Abbé Prévost, ma si è accattivata con la sua arte un'ampia parte del pubblico.
Fin dalla prima recita, è risultata particolarmente fruttuosa la combinazione fra una voce timbrata, dolce e sensuale e una tecnica d'emissione così ben rifinita da permettere alla Katzarava di abbandonarsi all'edonismo di un canto dal pathos caloroso ed emozionante, energico o affettuoso, secondo le necessità del personaggio.
Il cavaliere Des Grieux, interpretato dal tenore Arturo Chacón, ha mostrato a sua volta un canto solido, di buon gusto e ben gestito, unito alla chimica che i protagonisti sprigionavano sulla scene e che da sola avrebbe potuto costituire il valore di queste recite.
Diversi fattori hanno però comportato uno squilibrio fra i vari aspetti che hanno costituito questa produzione, e che a rigore corrispondono alla meravigliosa e rischiosa unione di arti che caratterizza il genere operistico nella sua complessità.
Innanzitutto, per il livello vocale discontinuo dei coprotagonisti e dei comprimari. Tra questi, il cast ha annoverato prove affidabili e di buona resa, come per il Lescaut del baritono Armando Gama, il Guillot de Morfontaine del tenore Antonio Duque, l'oste del barítono Martín Luna o anche la fugace apparizione della cameriera del soprano Carolina Ramírez; fino a raggiungere prestazioni d'infausta rilevanza che passano attraverso la sonorità gutturale, insipida e la recitazione rigida del Comte des Grieux affidato ad Arturo Rodríguez, o a emissioni aperte e stridule come quella della Pousette di Claudia Cota.
La concertazione di Alain Guingal, al suo debutto a capo dell'Orquesta del Teatro de Bellas Artes, ha cercato di attenersi al romanticismo e a una certa qual dolcezza dell'opera, ma ha proposto un'immagine sonora disordinata, non esente da squilibri nel volume rispetto ai solisti e da alcuni passaggi imprecisi dei fiati.
Tuttavia, tutto ciò, eccettuata la luminosa coppia protagonista, sfumava in un allestimento che, per regia e impianto scenico, non solo ha lasciato molto a desiderare, ma ha mostrato limiti e povertà indegni delle ambizioni di Manon.
I costumi disegnati da Cristina Sauza, non pensati per i fisici che li avrebbero indossati, il che ovviamente non è un bene, si sono così distinti per quel che, in mancanza di un termine più adatto, possiamo definire "ordinario" e a buon mercato. Cheaper.
La scenografia e le luci di Félida Medina, che comprendevano alcune decorazioni in alto, con ornamenti in stile fioriera, si basavano su una coppia di piattaforme che si trasformavano in combinazione con un ciclorama multicolore sul fondo, il quale sembrava mutare più per dovere e per una qualche trovata che non per una ragione fisica, drammatica o emotiva, senza dare nemmeno sempre una collocazione temporale esatta o almeno un'armonia interna allo spettacolo.
Risulta ingiustificabile che all'ultima recita le scene presentassero macchie di grasso ben visibili dovute alle operazioni dei macchinisti, o che le piattaforme mal rivelassero la struttura in legno senza che nessuno si prendesse la briga di coprirla con della vernice. Queste sviste equivalgono a far disputare un evento sportivo professionistico su un campo di terra segnato con un gessetto.
Il lavoro del regista, debuttante nell'opera, Antonio Algarra, più che una proposta (eccelsa o discutibile, come il Flauto magico de gennaio sempre alle Bellas Artes: polemica ma con una base concettuale) si è limitato a segnare una traccia elementare per lo sviluppo della trama, senza proporre idee o letture particolari sulla vicenda, i personaggio o le loro motivazioni. Desidera evidentemente evitare le critiche accese, come quelle levatesi contro José Antonio Morales, Josefo, per il suo Flauto precolombiano, ma questo non equivale a risolvere un lavoro di regia, che è per definizione un'interpretazione.
Le scene d'assieme, soprattutto quelle in cui interviene il coro (questa volta diretto da John Daly Goodwin senza nessuna eccezione dalla routine che valga un commento), sono precipitate nel disordine scenico, mentre le indicazioni originali per i solisti risultavano insufficienti per la creazione attoriale di caratteri come, in primis, quello della stessa Manon: seduta immobile nell'incantevole aria “Obéissons quand leur voix appelle” del terzo atto, per esempio. Il che, ovviamente, si è modificato nelle altre recite.
Di questa produzione, nonostante tutto, ricorderemo le passioni suscitate dalla bella e sensuale Manon della Katzarava, cui rispondeva con pari efficacia il Des Grieux di Chacón. Non dimenticheremo eccellenti interpretazioni di “Je suis encore tout étourdie”, “En fermant les yeux”, “Adieu, notre petite table” o “Ah, fuyez douce image”, piene di amorosa naturalezza, erotiche e seduttive fino alla follia. E forse anche il pubblico le ha godute "en fermant les yeux", a occhi chiusi.
foto Ana Lourdes Herrera