Il vagabondo e la musica non pervenuta

di Valentina Anzani

L’attuale tema della persistenza della pena di morte è stato trattato nel contesto del Lugo Opera Festival con l’allestimento della nuova opera di Fabrizio Festa, in seconda rappresentazione al teatro Rossini dopo la prima del 30 aprile scorso a Modena.

Lugo, 10 maggio – La denuncia per l’inumanità della pena di morte e l’ingiustizia praticata nelle carceri permeano la nuova opera di Fabrizio Festa, il cui libretto è tratto dal romanzo The Star Rover di Jack London, che racconta le fughe oniriche che permettono ad un prigioniero di sopravvivere alle angherie inflittegli nel carcere di St. Quentin a inizio Novecento.

La regia di Rosetta Cucchi ha fatto del palcoscenico un luogo di limbo bianco in cui brande di detenuti sparse possono essere lettini su una spiaggia e in cui valigie contengono pezzetti di sogni e di visioni. L’onnipresenza del tormento cui è sottoposto il protagonista Darrel Standing era resa mediante il grande anello trattenuto a mezz’aria, occhiello in cui si stringe la corda della camicia di forza; l’intreccio di corde che dall’anello si dipanavano davano evidenza visiva alla tela di ragno in cui il prigioniero è incastrato senza possibilità di scampo: un altro prigioniero ottiene la grazia mentendo, denunciando una – in realtà inesistente – tentata fuga di massa capitanata da Standing, mentre Standing, dopo aver colpito una guardia cercando di difendersi, verrà condannato a morte, pena che non gli era stata comminata invece per l’assassinio di un professore suo collega. Allo stesso tempo l’anello era simbolo di speranza e di evasione, come uno scacciasogni sospeso a esorcismo degl’incubi. La sua forma tonda ha racchiuso proiezioni video a cura di Roberto Recchia, a tratti invero viziate di retorica, che seguono le avventure che il protagonista racconta a se stesso, immaginandosi in altri contesti e in altre epoche storiche, riuscendo così a sopportare la propria condizione e ad avvicinarsi alla morte conservando la lucidità di pensiero nonostante l’assurda pena che l’aspetta.

La musica, creata dalle elaborazioni elettroniche dell’Ensemble Materelettrica, diretta dallo stesso compositore, prendeva le forme dei rumori di scena e tentava un’amplificazione delle emozioni che attraversano l’animo del prigioniero, imitando le maggiori o minori frequenze dei battiti cardiaci oppure cercando di conferire elementi di colore locale alle narrazioni dei viaggi immaginati nel medio e nell’estremo oriente, ma di fatto risultando mero sottofondo alla recitazione del giovane attore Alessio Genchi. A quest’ultimo si perdonano alcune pecche di manierismo poiché il testo, di natura narrativa, non era per nulla facile a interpretarsi. Più a suo agio era nelle sezioni che necessitavano interazione con i due distaccamenti opposti della sua anima, rinchiusi in due gabbie ai lati della scena e interpretati dalle voci liriche del soprano Francesca Sorteni e di Aurora Faggioli, mezzosoprano dalla voce più corposa e dalle movenze eleganti. Alle due erano affidati alcuni passi ariosi, troppo spesso sommersi dal volume non ben calibrato dell’amplificazione del suono elettronico.

Lo spettacolo sembra comunque essere stato apprezzato dal pubblico, certamente grato al Festival di Lugo che non disdegna di proporre titoli che spaziano tra le nuove proposte della musica contemporanea.