Orfeo son io, e vivo ancor

di Stefano Ceccarelli

Quarta opera della settantasettesima edizione del Maggio Musicale Fiorentino, l’Orfeo ed Euridice vi torna dopo sette anni, quando Riccardo Muti – specialista della partitura – qui la portò in forma di concerto. L’attuale ripresa si caratterizza per la cura filologica del suo direttore, Federico Maria Sardelli, quanto mai devoto alla restituzione sonora più autentica possibile. Peccato la defezione della prima donna, la svedese Ann Hallenberg, che ha nel ruolo principale un suo cavallo di battaglia; ma fa bella figura la sua sostituta, Anna Bonitatibus. Peccato anche per una regia a tratti stentoreamente concettosa, poco incline a assecondare la tersa ‘apollineità’ con cui incede la partitura.

FIRENZE, 8 giugno 2014 −L’Orfeo ed Euridice di Cristoph Willibald Gluck è un monumento musicale di importanza storica: definì un nuovo stile, scardinò precedenti tendenze musicali e ne ricreò delle altre. Metterlo in scena, ogni volta, è come restaurare un capolavoro pittorico: bisogna renderne il più vividamente possibile il colore, non sovrapponendovi cromature moderne o tali che noi riteniamo la tela avesse potuto avere. È proprio questo l’intento, programmaticamente dichiarato, del direttore Federico Maria Sardelli, che infatti si dichiara filologo, a fianco dell’attività concertistica (si ricordi la ripresa del Farnace vivaldiano allo scorso Maggio).

Nel breve intervento presente nel programma di sala, chiarisce alcune scelte operate per la messa in musica dell’opera, partendo dall’edizione per la Bärenreiter-Verlag curata da Abert e Finscher: studio del manoscritto della première viennese (Burgtheater, 1762), che − pur definendo nitente – emenda in qualche parte (per esempio, aggiungendo al finale trombe e timpani), e utilizzo di strumenti originali, come l’arpa barocca e lo chalumeau contralto. Il risultato, sebbene non ovunque perfetto, risulta costantemente interessante: anzi, direi che la facies più interessante di questa ripresa dell’Orfeo sia proprio la veste sonora. La direzione è sempre sostenuta – anche troppo, come per esempio nelle celeberrime danze degli spiriti beati, che risultano tagliate della parte centrale (un vero peccato…). Il rischio, dietro l’angolo, è quello della monotonia: e non negherei l’abbia toccata in qualche passaggio, ma è ben poca cosa rispetto alla cura incisiva dei passaggi, alla spigliatezza narrativa della direzione, al cardiopalma di alcune scene, cui Federico Maria Sardelli conferisce una verve vivacemente interessante. Ma la cosa che mi ha più colpito è certamente la cura per le variazioni: concede ai cantanti di inserire trilli, piccole noticine o gruppetti, nelle riprese delle arie, conferendo fluidità e ridonando smalto floreale alla scevra linea del canto, come del resto voleva – persino esigeva – l’uso operistico dell’epoca. L’esecuzione senza intervalli aiuta a mantenere ancor più vivo questo senso di unitarietà.

Le voci destano un certo interesse. Vocalmente parlando, la parte protagonista dell’Orfeo ed Euridice è quanto di più rimaneggiato vi sia nella storia del melodramma; si sa, infatti, che il ruolo di Orfeo fu scritto per un castrato dalle qualità eccezionali, Gaetano Guadagni, un contraltista dalle mirabili doti declamatorie; e sono, pure, note la versione per tenore, d’obbligo in quella Parigi (2-08-1774) che mal tollerava i timbri dei castrati, e quella tarda ibridazione per baritono. Ma già dal 1813 (i castrati erano quasi del tutto svaniti) la parte era regolarmente cantata da contralti. Oggi l’uso corrente prevede questo: ma non mancano (né sono mancate) sperimentazioni da parte dei controtenori. Comunque, l’interprete di questa edizione è Anna Bonitatibus, sostituente l’attesa Hallenberg. Specialista del repertorio barocco, la Bonitatibus lascia una bella interpretazione; la sua voce, pastosa e morbida, è, a conti fatti, quella di un mezzosoprano: ciò le rende più agevole il registro mediano e alto, meno quello basso (dove qualche volta si fa fatica a sentirla). Ma il quid in più lo raggiunge nella gestione degli effetti: magnifica la dizione declamatoria, ricca di sfumature, mai esagerata né spinta (incarna veramente quella «ricerca di una bella semplicità» che Gluck dichiarava di agognare nella più che celebre prefazione alla sua Alceste). E nelle arie: fin dal tripartito lamento funebre per Euridice (I atto, «Chiamo il mio ben così»), passando per la preghiera rivolta ad ammansire le furie e gli spettri infernali (II, «Deh! Placatevi con me!»), scandita dagli accordi dell’arpa franti in terzine ascendenti, in ostinato, che solo l’attesa pietà degli inferi può far diminuire in smorzando, fino all’intenso duetto con Euridice (III, «Vieni, segui i miei passi») e alla sua aria «Che farò senza Euridice?», il brano più famoso mai composto da Gluck − dove gioca con mezzevoci raffinate, unite a un tono non asetticamente larmoyant, ma autenticamente commosso, condendo la ripresa di variazioni. Una menzione a parte merita il sublime arioso introdotto da quell’edenico preludio dove si respira il paradiso, «Che puro ciel! Che chiaro sol! Che nuova» (II): la Bonitatibus dà qui il meglio di sé. Euridice è cantata da Hélène Guilmette: voce interessantissima, da soprano lirico. Un naturale vibrato stretto (un po’ troppo negli acuti) l’aiuta in questo ruolo breve, ma intensissimo. Il timbro, non particolare ma grazioso, è sorretto da una dizione italiana ragguardevolissima: un’ottima tecnica le consente di esprimere molto, dosando e miscelando aperture e messe di voce, smorzando, trilli, nel duetto con Orfeo, dove le loro voci si armonizzano assai bene e nella sua intensa aria, «Che fiero momento!» (III). Il delizioso ruolo en travesti di Amore, lo canta Silvia Frigato: è carente di potenza, ma tant’è, in un ruolo del genere conta accento puerile, ingenuamente malizioso. Così interpreta quel gioiello della sua aria, «Gli sguardi trattieni» (I), terminando con variazioni squisite, sposandosi bene con l’orchestra. Buono il coro (Lorenzo Fratini), intonato e compatto; tocca il culmine emotivo nel coro degli Spiriti dei Beati («Vieni a’ regni del riposo», II).

Vero tallone d’Achille della produzione è l’aspetto concettuale della regia, e la sua realizzazione in immagini: sarebbe, invero, troppo facile stigmatizzare il tutto, unendosi al coro dei fischi che hanno accompagnato l’entrata del regista, scenografo e costumista Denis Krief sul palcoscenico della prima. In realtà, diverse cose sono non solo salvabili, ma anche buone. Mi ha molto colpito l’uso, costante, della prospettiva centrale, soprattutto nella resa scenica dell’Elisio: dei pannelli bianchi sbalzati digradanti in punto focale che rappresentano un frammentato infinito. Bianco è anche lo spazio chiuso che rappresenta il mondo dei vivi, antistante l’ingresso degli inferi, simboleggiato da una porta spostata sulla destra e coperta da un velo nero trasparente; il medesimo è usato anche per indicare la caverna degli inferi dove Orfeo contravviene alla legge impostagli dagli dèi, volgendosi a guardare Euridice. Costante è l’infrangimento della parete dell’illusione scenica: metateatrale è il mostrare ‘il dietro le quinte’, o l’andare e il venire di due attendenti che portano e tolgono un sofà del ‘700. E il richiamo all’epoca gluckiana c’è, anche, nel finale quando il coro entra pomposamente abbigliato alla settecentesca. Un mix ardito e, a dirla tutta, visivamente un po’ stancante. Emblema di questa commistione è l’unico balletto effettivamente coreografato (Cristina Rizzo) della produzione, le danze celebrative del finale: i movimenti sono di danza contemporanea ardita. I ballerini, peraltro bravi, a un certo punto compiono azioni che mi risultano oscure: per esempio una prende un paio di occhiali da sole dalla tomba di Euridice (un solido a più facce, sempre presente sul proscenio a destra). Forse un’espressione di edonismo eroticamente naïf, caratteristica dell’occidente? Non avendo lasciato nulla sul programma, né regista né coreografa possono appieno essere compresi. Interessante, invece, l’uso dei pannelli trasparenti, calati in determinati momenti, su cui vengono proiettate delle immagini: un cimitero in bianco e nero con una scritta rosso sangue per la scena del funerale (I atto) e dell’aria di lamento di Orfeo nell’oltretomba (III); un viaggio in strade statali suburbane per l’ingresso agli inferi (II) e una discoteca per la susseguente scena delle furie e degli spettri. Bruttini i costumi; la commistione moderno-antico, per carità, ci può stare, ma non mi pare gestita al meglio: gli adepti di Orfeo sono, all’inizio, abbigliati di nero, in abiti moderni, proprio per il funerale (vestiti corti e cappelli per le donne; abiti eleganti per gli uomini, in camicie bianche), ma non vengono cambiati d’abito per trasformarsi in furie e spettri. Fortunatamente, durante la scena degli Elisi v’è un cambio d’abito, indossando abiti (gli uomini) e lunghe vesti rigorosamente bianchi (le donne): e quello risulta, difatti, l’unico tableau effettivamente riuscito della produzione. Insomma, registicamente parlando, il lavoro non è gran cosa: s’intenda, inoltre, che l’Orfeo, con quel mirabile libretto (Ranieri de’ Calzabigi), si dirige anche da solo. Qualche scena è però interessante, per esempio quando Euridice e Orfeo si toccano le mani specularmente, separati dal sipario di velatino centrale, l’uno davanti e l’altra dietro, elemento che conferisce all’immagine di Euridice resuscitata una patina ancora più evanescente.

Tranne i succitati fischi nei riguardi del regista, la première è stata abbastanza gradita: tutti gli interpreti ricevono applausi. Chiude il Comunale, per far spazio alla nuova Opera di Firenze: è quindi un piacere essere ancora seduti nello storico Teatro della Pergola, che tanta parte ha avuto nella storia del melodramma ottocentesco.

 

foto © Copyright Simone Donati / TerraProject / Contrasto