Norma viene

di Giuseppe Guggino

Controversa ma per certi versi memorabile l’edizione di Norma messa in scena al Massimo di Palermo, con Csilla Boross nel ruolo eponimo dotata di una voce adatta al ruolo, un gigantesco Will Humburg a tenere le fila della parte musicale e un allestimento fortemente contestato eppure capace di fare autentico teatro senza tradire la musica.

Palermo, 17 giugno 2014 - Il teatro di regia sbarca a Palermo e alla fine per primo atto – prevedibilmente – scoppia la gazzarra in sala; ne segue un intervallo piuttosto movimentato e divertente per via dei commenti critici che si captano se non anche per qualche intervento di quelli che Sciascia definirebbe “cretini di sinistra” pronti a rimbrottare con sufficienza i contestatori, solo dopo aver fatto un breve sunto del proprio curriculum, a garanzia dell’autorevolezza d’opinione. Senza snocciolare alcun curriculum, ma seguendo la forza del ragionamento – pur riconoscendo il diritto sacrosanto di contestare gli spettacoli sciatti, confusi, stupidamente provocatori – dobbiamo dire che nessuna di queste caratteristiche si rintraccia nella regia di Jossi Wieler e Sergio Morabito. Non siamo nelle Gallie invase dall’impero Romano, non ci sono pelli d’orso e triliti (che poi gli unici dolmen francesci sono nella Loira e non nelle Gallie, ad essere pedanti); potremmo essere nelle Gallie nel ’44 o in una città del nord Italia nei mesi della Repubblica di Salò.

La scena fissa di Anna Viebrock rappresenta la navata (inquadrata in leggera obliquità) di una chiesa squallida il cui transetto è il proscenio e il pubblico guarda dall’abside; la chiesa, tratteggiata con elementi di realismo scenico quasi cinematografico, è il posto dove si riunisce in assisa una sorta di Comitato di Liberazione Nazionale di cui il partigiano Oroveso è il capo e la pasionaria Norma, con la gestualità e l’esuberanza presi a prestito di peso dai personaggi interpretati da Anna Magnani, è l’indiscussa leader carismatica. A Pollione è risparmiata la svastica così come ogni riferimento littorio, quindi potrebbe essere un vilissimo disertore, pronto a nascondersi tra i banchi della chiesa durante le riunioni del Comitato, poiché dalla navata si accede sia alla sacrestia dove abita la pasionaria e sia all’oratorio delle suffragette, la più stupida delle quali è ovviamente la biondina Adalgisa che, da perfetto sottoprodotto di associazionismo femminista, idolatra oltre ogni razionale confine la pasionaria Norma Magnani.

In una sovrapposizione drammaturgica così radicale ovviamente non si contano i punti di conflitto con il libretto ma lo spettacolo cerca di risolverli più o meno tutti trasformandoli in punti di forza lasciandosi guidare dal discorso musicale più che dal testo. Il duplice aspetto privato-pubblico di Norma che spesso le regie tradizionali non colgono minimamente e che invece è ben presente nella musica (basti osservare il carattere radicalmente diverso del recitativo, aria e cabaletta di sortita!), è reso in questo spettacolo sia con un differente taglio della recitazione nei vari momenti ma anche con i costumi: Norma è vestita sempre di nero (un ulteriore rimando alla Magnani) ma, nelle funzioni pubbliche, indossa alba e casula ed è così abbigliata al rito che canta “Casta Diva” e processa Pollione. La luna non c’è (e quante volte non c’è neanche nelle regie tradizionali senza che nessuno se ne accorga!), ma quando Norma finisce il recitativo e si dispone a celebrare il rito, ecco che accende i neon della chiesa ed è come se la scena fosse rischiarata da quel colore di luce biancastra; e quando convoca il Comitato per dare l’ordine di attacco non ha un gong (strumento peraltro tipico delle culture orientali che Felice Romani trapianta arbitrariamente nelle fantasiose Gallie) e si serve del pulsante da sirena con tanto di luce rossa. Non c’è ragione di tenere la banda sul palco in quinta, quindi si vede l’arma dei carabinieri durante i cori, così come in “Ah! Del Tebro”, in clima cospirativo perfettamente aderente al testo intonato, i partigiani distribuiscono i fucili nascosti sotto il pavimento della chiesa.

La recitazione vera e propria è l’elemento di maggiore forza dell’allestimento, giacché il taglio da cinema neorealista diventa una risorsa straordinaria per la risoluzione di una drammaturgia resa problematica dalla musica, dai lunghissimi cantabili, dalle ripetizioni delle strofe “a solo” come, ad esempio, nel terzetto che chiude il primo atto; lì infatti è il punto dove l’isteria di Norma, la stupida innocenza di Adalgisa e la strafottenza di Pollione riempiono la stasi scenica imposta dalla musica: il melodramma è una stupenda invenzione irreale – diceva Strelher – ma se all’irrealtà di vedere un terzetto con i solisti un passo avanti nel proscenio durante la propria strofa con gli altri due bloccati un passo indietro si sostituisce con intelligenza e coerenza il realismo di Norma nel mettere il traditore alla porta preparandogli la valigia, Adalgisa a disfare la valigia e Pollione a fregarsene fumandosi una sigaretta come avrebbe fatto uno dei personaggi di Mastroianni, la musica non è affatto tradita né l’effetto risulta stupidamente distraente. Tutto è disseminato da una cura del dettaglio che renderebbe benissimo in una ripresa DVD; uno su tutti, agghiacciante, è intuire la presenza dei bambini in ascolto dietro una porta a vetri mentre Norma intona “Deh non volerli vittime” e il brivido è inevitabile.

Sia chiaro, un’operazione del genere in un’opera come Don Carlos sarebbe provocazione fine a sé stessa, giacché lì le coordinate storiche, la pace di Cateau Cambresis, la tomba di Carlo V non si possono eludere; a Bellini invece il dato storico certamente non interessa (in Norma e in tutte le altre opere), cosìcché Romani potesse scrivere di popoli barbari fantasiosi, o di una Sicilia esotica e piratesca oppure ancora di ameni villaggi svizzeri, passando per i pretenziosi rimaneggiamenti di Voltaire e Shakespeare, senza riuscire a distogliere la ricerca musicale dell’unico compositore capace di dare voce solo e soltanto alle passioni umane; quando a Bellini, infatti, fu offerto di musicare per l’ennesima volta il Cesare in Egitto per inaugurare il Regio di Parma la risposta irritata fu di non essere minimamente attratto da soggetti «vecchi come Noè» perché – come avrebbe lasciato scritto in una famosa lettera ricostruita (non sappiamo bene con quanta vicinanza all’originale) - «Persuaso come sono che gran parte del buon successo dipende dalla scelta di un tema interessante, dal contrasto delle passioni, dai versi armoniosi e caldi d’espressione non dai colpi di scena […] studio attentamente il carattere dei personaggi, le passioni che li prendono e i sentimenti che esprimono […] e mi sforzo di sentire e di esprimere».

Le problematicità della drammaturgia di Norma, poi, tutta votata al canto e molto poco al teatro risalgono già all’insuccesso della prima assoluta che, al di là delle macchinazioni orchestrate dalla Samoyloff a vantaggio di Pacini, consegnano alla storia un Bellini sicuro del proprio bagaglio di compositore ma con mille perplessità sulla lunghezza dei numeri, sull’opportunità di tagliarli; non è un caso, a ben vedere, che gli allestimenti di Norma sovente ripieghino (e non necessariamente a torto) sulla stasi assoluta davanti a qualche fondale con firme di lusso (si sono scomodati i pittori Mario Schifano e Piero Guccione oppure l’arte vetraria di Michele Canzoneri, ad esempio) per l’esigenza di un contraltare sublime al sublime in musica, eludendo la ricerca teatrale. Ebbene, in questa scelta realizzativa di segno diametralmente opposto – neorealista si direbbe – dove tutto sembra chiaro, senza elucubrazioni cerebrali, si ha coerenza assoluta, «naturalezza e niente più: chi sorte di questa alla fine avrà dato alla luce un’opera pesante e stupida che solo piacerà alla sfera dei pedanti, mai al cuore; […] e se il cuore è commosso s’avrà sempre ragione» (lettera al Conte Pepoli del maggio 1834). Quindi una regia belliniana all’ennesima potenza, e peccato per chi non ne ha colto l’essenza.

Perfettamente coinvolti nel disegno registico sono sia i solisti che il Coro che, sotto la guida del maestro Monti, suggella una prova memorabile. Il cast è validissimo, tolta una Clotilde sotto il livello di guardia; bella la pasta vocale del Flavio di Francesco Parrino, funzionale l’Oroveso di Marco Spotti, i tre protagonisti si segnalano per convinzione d’accento e tenuta vocale che consente l’esecuzione dell’opera – evviva evviva – in totale assenza di tagli, con i da capo sempre variati con sobrietà e gusto. Aquiles Machado scurisce uno strumento di natura diversa rispetto alla vocalità necessaria di Pollione ma viene a capo di tutti gli scogli della parte forse con la pecca di un canto monocorde seppur professionalissimo; Annalisa Stroppa, nominalmente mezzosoprano (che però esibisce maggiore fatica proprio in basso), è un’Adalgisa liliale, dall’amministrazione vocale molto ben calibrata e trasparente. E in Norma – finalmente – si ritrova una voce adatta al ruolo: Csilla Boross ha tutte le carte in regola per essere Norma, e prima o poi lo sarà; al debutto assoluto nel ruolo sfodera uno strumento di proiezione ragguardevole e colore caldissimo, appena afflitto da un leggero vibrato che non infastisce, un buon controllo dei fiati, delle solidissime agilità di forza, una saldezza di intonazione impressionante anche in tutte le scalette cromatiche che tanto erano care a Bellini, oltre che un temperamento da leonessa nell’aggredire con protervia ogni sillaba dei recitativi, pur non essendo italiana madrelingua; rimangono da migliorare il controllo tecnico degli acuti (sovente spinti e di volume doppio rispetto all’intonazione piana, ancorché intonatissimi) e la gestione del legato specie nel canto fiorito patetico, giacché troppi gruppetti risultano ancora ritmicamente arruffati e non naturali ma, riferito questo per dovere di cronaca, il passo per arrivare ad una grande Norma non è troppo lungo!

La gestione dell’intera parte musicale è affidata a mani che non si potrebbero sperare migliori perché Will Humburg si dimostra un gigante della bacchetta e fa quello che in Norma sono riusciti a fare davvero in pochi: accompagnare. Non è un accompagnamento nel senso vile del termine, è un nobile intendere il senso della musica di Bellini al servizio del canto; non c’è una delle migliaia di terzine e sestine arpeggiate della partitura che venga eseguita con sciatteria o che induca sonnolenza, non esiste il senso del metronomo: quello che si cerca e che si riesce miracolosamente ad ottenere da un’orchestra tirata al lucido è il respiro tutt’uno con il canto; e anche questa ricerca di “fluidità”, di un discorso ininterrotto sempre espressivo suona molto fedele all’ideale estetico belliano riassunto in queste “istruzioni” per la concertazione dirette a Florimo «Lo spartito ti verrà marcato col Métronome ma ti sia regola di non attaccarti servilmente: stringi e allarga i tempi secondo lo vorrà la voce dei cantanti e l’effetto dei cori; fa come ti pare per ritrovar l’effetto»; ed è esattamente quello che fa Humburg: un affrettare e stringere continuo, uno stacco agogico diverso tra una strofa e la sua ripetizione variata, una ricerca di dinamiche variate continuamente che è l’unico segreto per rendere a Norma un eccellente servizio, evitando di trasformarla in una messa mortifera. Così facendo ci si può permettere il lusso dei da capo nessuno dei quali suona mai pleonastico, così come il finale con le arpe del Coro di Guerra (tagliato da Bellini e mai stampato nelle edizioni dell’epoca) senza che la lunghezza risulti una zavorra.

Delle contestazioni durante l’intervallo s’è detto e non rimane che dispiacersene perché, come si è tentato di spiegare, nulla di provocatorio e fine a sé stesso s’è palesato in una regia molto più intelligente dei selfie nel Don Giovanni seppur con la scenografia tradizionale. Alle uscite finali sono piovuti applausi per tutti e le contestazioni sparute si sono indirizzate all’uscita di Samantha Seymour, rimontatrice dello spettacolo (proveniente dall’Oper Stuttgart), parafulmine dei responsabili della parte visiva. “Norma viene”, l’esortazione è coglierla: repliche fino al 25 giugno.