I sette vizi del libertino

di Francesco Bertini

L'avvertimento preliminare che consiglia la visione a un "pubblico adulto" è un'inutil precauzione, dato il soggetto dell'opera, che Damiano Michieletto rilegge con il suo stile inconfondibile, con una narrazione vivida, ricca di simboli e magnificamente recitata da una compagnia di canto di tutto rispetto, in cui si sono distinte le prove di Carmela Remigio, Juan Francisco Gatell e Alex Esposito. Meno interessante la concertazione di Diego Matheuz.

VENEZIA, 3 luglio 2014 - Nell’ambito del festival “Lo spirito della musica di Venezia”, ormai da alcune stagioni al centro della programmazione lagunare estiva, l’esecuzione di The rake’s progress di Igor Stravinskij, nella coproduzione con Oper Leipzig, ha richiamato un nutrito pubblico di appassionati e curiosi. Questi ultimi sono stati attratti dal nuovo allestimento di Damiano Michieletto che molto ha fatto parlare, tra le altre cose per la dicitura “visione consigliata ad un pubblico adulto”. Per quanto condivisibile, la messinscena non è sembrata a tal punto scandalosa come certo battage pubblicitario avrebbe voluto far credere.

Il regista veneto, come sempre affiancato da Paolo Fantin, scene, e Carla Teti, costumi, oltre al fondamentale contributo di Alessandro Carletti, light designer, ha ambientato la vicenda negli ultimi decenni del secolo scorso con la conseguente decisione di rendere più umani tutti i personaggi. È evidente che l’Inghilterra del Settecento avrebbe vincolato la lettura di Michieletto: sebbene le otto incisioni di William Hogart, dalle quali prende le mosse il libretto di Wystan Hugh Auden e Chester Kallman, non trascurino i dettagli più piccanti della vicenda del libertino, il regista esprime più comodamente le proprie intenzioni modernizzando l’ambientazione e gli atteggiamenti. Se la prima scena appare quasi innocente con il quadretto familiare d’una giornata tipo (papà Trulove intento a lavare l’auto e a preparare l’”ossettata” mentre i due giovani, Anne e Tom, amoreggiano) appena turbata dall’arrivo di Nick Shadow, presente fin dall’apertura del sipario, è la prosecuzione dell’opera ad imporre lo stile di Michieletto. Dalla seconda parte del primo atto, la vicenda si svolge all’interno di una piscina ricolma di paillettes dorate, metafora del mondo corrotto e amorale identificato con la casa di tolleranza di Mother Goose. Su questo ambiente incombono sette grandi scritte luminose le quali riportano i vizi capitali, sempre ben in vista alla moltitudine di persone intente alle più svariate pratiche sessuali. Lo stesso spazio diviene prima l’alcova per Tom e Baba la Turca, quindi il luogo in cui si svolge l’asta dei beni del libertino (pupazzi gonfiabili, cianfrusaglie insignificanti). Nell’ultimo atto si passa dal cimitero, luogo scelto per il gioco di carte, al manicomio, con le pareti della piscina rialzate a mo’ di contenimento, dove s’aggira un’umanità terrorizzata e alla ricerca di aiuto.

Michieletto cosparge lo spettacolo di simbologie (dal violino emblema diabolico tra le mani di Nick, agli sberleffi continui dello stesso) e rimarca profondamente la solitudine di tutti i personaggi: il mondo che egli ricrea è assolutamente nefasto e vi appartiene anche l’apparentemente benefica Anne. Nella lunga corsa verso la distruzione, il regista affronta la vicenda con alti e bassi: mentre alcune parti appaiono efficaci, altre risultano più goffe. Le luci, i costumi e le scene concorrono a rendere vivida e al contempo drammatica e reale l’intera narrazione. La cura rivolta agli interpreti si evince nelle prestazioni di Alex Esposito, Nick Shadow e Juan Francisco Gatell, Tom Rakewell. Il primo ha carisma, disinvoltura e maturità scenica invidiabili, caratteristiche pienamente in sintonia con la musicalità, la consapevolezza del fraseggio e la padronanza dei propri mezzi; il secondo, cantante perlopiù legato al repertorio belcantistico, affronta un ruolo impervio per la corda tenorile ma ne viene a capo con esiti più che sufficienti. Il tenore argentino, oltre a una positiva duttilità scenica, ha timbro luminoso e sopperisce abilmente a qualche limite vocale. La prova di Carmela Remigio, Anne Trulove, rivela la profonda sensibilità dell’interprete che riesce a sottolineare la situazione emotiva del fragile personaggio. È in particolare il confronto con Nick e Tom a dare rotondità alla giovane innamorata: col primo affiorano le paure più recondite, benché il regista non tralasci alcuni dettagli che potrebbero far pensare ad una sorta di curiosità, col secondo emerge il sentimento più puro che man mano viene macchiato dai dubbi e dalla presa di coscienza. La Remigio è accolta felicemente dopo la lunga scena conclusiva del primo atto dove si ascoltano tutte le doti vocali dell’artista e si apprezza l’intelligenza attoriale.

Il coup de théâtre è affidato a Baba la Turca la quale si presenta sul palcoscenico con le fattezze della celebre Conchita Wurst, recentemente balzata agli onori della cronaca per la vittoria all’Eurovision Song Contest 2014. L’aspetto androgino non mette per nulla in difficoltà Natascha Petrinsky: il mezzosoprano viennese entra spavaldo in scena catturando immediatamente l’attenzione per l’aspetto provocante e la vocalità efficace per il ruolo. Valida la Mother Goose di Silvia Regazzo mentre sono parsi meno corretti Michael Leibundgut, Trulove, e Marcello Nardis, Sellem. A completare il cast Matteo Ferrara, guardiano del manicomio.

Per quanto attiene i complessi musicali del Teatro La Fenice, tanto il coro, preparato da Claudio Marino Moretti, quanto l’orchestra hanno dato prova di sobrietà e preparazione nell’esecuzione dell’opera.

La concertazione di Diego Matheuz, direttore musicale della fondazione lagunare, non scava a fondo i reconditi significati della partitura limitandosi a una lettura corretta ma priva di fondamentali intuizioni personali. Il successo finale si è dimostrato di gran lunga superiore a numerose recenti produzioni veneziane.