Le forbici e gli eroi

di Francesco Lora

Nel nuovo allestimento all’Opera di Stato Bavarese il Guillaume Tell di Rossini è sfigurato da tagli per decine di minuti. Alla tracotanza del regista e all’accondiscendenza del direttore – il peraltro eccellente Ettinger – pone parziale menda una coppia di eroi del belcanto: il soprano Marina Rebeka e il tenore Bryan Hymel.

MONACO DI BAVIERA, 02/07/2014 – Recensendo lo scorso Festival di Pentecoste di Salisburgo in queste pagine, un mese fa, abbiamo ribadito la scarsa presenza delle opere di Gioachino Rossini nei teatri mitteleuropei: in repertorio non vi sono che L’italiana in Algeri, Il barbiere di Siviglia e La Cenerentola, più il Guillaume Tell in eventuale tempo di vacche grasse. Vacche grasse sono state dichiarate dall’Opera di Stato Bavarese, che nel proprio festival estivo ha appena varato una nuova produzione dell’ultimo capolavoro rossiniano: cinque recite dal 28 giugno al 13 luglio, diretta streaming della “prima”, tre repliche già annunciate per il 18-25 gennaio 2015. Detto del cosa (l’evento), va detto del come: e i conti vanno a gambe all’aria fin dall’origine.

Nei teatri tedeschi più che altrove, chi comanda è il regista: a baloccarsi dello scettro, in questo Guillaume Tell, è così il giovane Antú Romero Nunes, il quale ha fama d’astro nascente del teatro di parola. Ma il teatro musicale, anzi d’opera, è un’altra cosa, è un codice, e come tale va conosciuto e praticato, non improvvisato o sottoposto a esame dall’alunno briccone dell’ultima fila. A Monaco di Baviera c’è forse stato uno scandalo? Magari. Si è assistito in realtà a uno spettacolo che rinuncia a ogni contestualizzazione o eventuale rivisitazione storica: le scene di Florian Lösche e i costumi di Annabelle Witt sono forme astratte (tubi rotanti) e abiti neutri, adatti a “immaginificare” il mito forte in ogni epoca, ma inerti nel dare senso all’azione politica di un dux populi, elvetico o meno che lo si voglia lasciare. E il pensiero del regista non va più in là di questi grigi colpi d’occhio: tutto segue la didascalia non per fedeltà ma per pigrizia o imperizia, rinunciando a indagare la psicologia dei personaggi e a metterne in risalto un qualche tratto caratteriale. Tuttalpiù ci si accomoda nella facile caricatura: Guillaume tende alla schizofrenia violenta e Hedwige è la moglie-virago che lo tiene a bada; l’Ouverture, dove ancora una volta la brillantezza rossiniana è scambiata per colonna sonora della buffoneria, finisce coreografata in modo surreale e parodistico.

Il disastro avviene su un altro piano, che è semplicemente quello dell’immunità del testo letterario e musicale. Insostenibile è la teoria che la durata di un Guillaume Tell, tre ore e mezza abbondanti, possa sgomentare il pubblico tedesco, avvezzo alle oltre quattro ore dei Meistersinger, della Götterdämmerung e del Parsifal. Piuttosto c’è qualcosa che, nel capolavoro di Rossini, non piace a Romero Nunes, e che ostacola la sua non-idea: come se nulla fosse cadono così brani interi, e brani interi, e brani interi, a partire dai cori e dai divertissements, ma riducendo a penoso mozzicone anche tutto il raduno degli insorti nell’atto II. Rispetto alla partitura così come assunta dal repertorio, cioè senza la riapertura dei tagli d’autore, l’ecatombe assomma ad almeno quaranta minuti di musica. Musica, ça va sans dire, magnifica nella fattura, necessaria al dramma e spesso famosa negli orecchi del melomane.

È fatta violenza persino all’Ouverture, posticipata a tre quarti dell’atto III, là dove viene aperto a forza anche l’unico intervallo. Per colmo di ridicolezza, lì vicino si ascolta invece «Ah! que ton âme se rassure», la sempre benritrovata aria di Jemmy che tuttavia l’autore stesso aveva messo da parte. Spiace che di un tale scempio si faccia de facto complice il direttore Dan Ettinger: per manomissioni registiche assai più lievi, e per difendere le ragioni della musica, colleghi come Daniele Gatti o Bertrand de Billy hanno di recente dato il benservito a produzioni importanti cui erano stati invitati; seguirne l’esempio sarebbe stato un punto d’onore. Il tutto spiace poi a maggior ragione poiché, tra un colpo di forbice e l’altro, Ettinger dirigerebbe (dirige) in modo eccellente, raccogliendo tutto lo sfarzo dell’Orchestra dell’Opera di Stato Bavarese e modellandolo con la pompa dello stile impero, la raffinatezza della Ville Lumière e la sollecitudine della sfumatura teatrale. È un grande direttore, in ultima istanza, colpevole di improvvida accondiscendenza.

Fortunatamente, nella compagnia di canto brillano fonti d’entusiasmo. Non si allude a Michael Volle, baritono ruvido, grossolano, sopra le righe e attore troppo spesso in libera uscita dalla musica: il suo Guillaume ha sempre gli artigli di fuori senza tuttavia saper lasciare il segno. Né si parla di Goran Jurić (Walter Fürst), Christoph Stephinger (Melcthal), Günther Groissböck (Gesler), Kevin Conners (Rodolphe), Christian Rieger (Leuthold) e Jennifer Johnston (Hedwige): sono tutti onesti professionisti, ma poco avvezzi allo stile francese e al dare un qualche risalto alle rispettive dimidiate parti. Come Jemmy, però, Evgeniya Sotnikova canta con sobria, fresca, inappuntabile proprietà, fornendo salde note acute ai concertati dove Mathilde non è in scena e procurandosi un momento di aperto merito personale nell’aria riaperta. Anche Enea Scala, che al Teatro Regio di Torino ha appena debuttato come Arnoldo (in italiano), è un bel lusso nella parte del pescatore Ruodi: i Do sopracuti scoccano sicuri come la mano di Tell, e non mancano di essere inseriti in un fraseggio sfumato, vivido, da vero belcantista.

Poi ci sono gli eroi. Conoscevamo già, dalle recite pesaresi dell’anno scorso, la Mathilde di Marina Rebeka: con parecchia musica in meno da cantare, la ritroviamo qui più consapevole e partecipe nell’espressione, sempre un filo acidula nel registro centrale ma anche sempre alata in quello acuto, e sempre presente per timbro, proiezione, risonanza. Molto più di Juan Diego Flórez, con lei forma una coppia perfetta Bryan Hymel come Arnold. Premessa antipatica del Beckmesser di turno: rispetto ai Troyens londinesi di due anni fa, il suo fastidioso accento yankee è ora sparito dietro una più che buona pronuncia del francese. E il resto è una meraviglia: il timbro personale, giovanile e ricco di armonici rimane omogeneo a ogni altezza, ispirando già di per sé l’ardore amoroso e patriottico, quand’anche incerto, del personaggio; né questo significa che il fraseggio non sia già encomiabile per varietà, ricerca, efficacia. Quanto ai Do sopracuti, squillano a piacere e con tale spudorata facilità da potervici il cantante parlare sopra. Il mitico Adolphe Nourrit, che creò la parte, o l’altrettanto mitico Gilbert-Louis Duprez, che la traghettò al gusto dell’Ottocento pieno, hanno oggi un nuovo emulo e forse il migliore.