Alla piccina s'è spento il sol

di Emanuele Dominioni

Al teatro San Carlo delude l’allestimento di Madama Butterfly con la regia di Pippo Del Bono e Raffaella Angeletti nel difficile ruolo della protagonista.

Napoli, 13 luglio 2014 – La seconda opera in cartellone del neonato festival estivo inaugurato dal Teatro di San Carlo è uno dei titoli pucciniani più amati: Madama Butterfly, presentata al pubblico napoletano nell’allestimento di Pippo Del Bono – il quale firma anche scene – con i costumi di Giusi Giustino e Alessandro Carletti. La generica impronta registica che viene impressa al dramma si colloca in uno spazio scenico minimalista, raccolto all’interno di fondali e pareti bianche inframezzate da numerose aperture verso le quinte, da cui provenivano alcuni fasci luminosi cangianti. Molto era lo spazio libero disponibile sulla scena creato da una siffatta impostazione scenografica che poneva cantanti, coro e comparse in un’atmosfera asettica e sospesa. Secondo le intenzioni del regista, i personaggi si muovono nell’intimo di un universo mentale del quale egli era allo stesso tempo fautore e spettatore attivo. Per tutti gli interpreti v’erano costumi tradizionali e semplici e i mutamenti temporali ed emotivi erano sottolineati per la protagonista dai diversi kimono colorati indossati di volta in volta.

La chiave di lettura di Del Bono ha come idea cardine quella di creare un parallelismo fra storia di un’attrice morta suicida con cui il regista ha collaborato in passato e la tragica vicenda di Butterfly. Nel tentare questa difficile operazione il regista utilizza metodi che risultano però artificiosi e, se accostati ai diversi punti dell’azione, poveri di un vero contenuto espressivo congruo al contesto in cui venivano esplicati. Così è parso evidente, ad esempio, nei didascalici commenti che venivano letti all’inizio di ogni atto dal regista stesso dal centro della platea, nei quali descriveva alcune immagini vive nella propria memoria riferite alla tragica storia d’amore vissuta dalla collega. Altri interventi purtroppo sono parsi del tutto fuori luogo, come il balletto parodistico improvvisato dal regista durante il duetto dei fiori e le corse affannate da un punto all’altro della scena durante i momenti più drammatici del III atto. Che il regista volesse avvicinarci al dramma pucciniano attraverso proprie sensazioni ed emozioni scaturite da un’esperienza di vita vissuta è di per sé un’operazione coraggiosa e interessante, ma la comprensione di queste e altri espedienti sono parsi poco in sintonia con i diversi momenti dell’azione. D’altro canto dispiace constatare come a fronte della volontà di far emergere questo parallelismo in tutti i modi, lo spettacolo (di per sè molto tradizionale in termini di allestimento) nella sua più mera connotazione attoriale e scenica mostrasse delle carenze davvero scoraggianti. L’impressione generale è stata quello di una mancata cura nella recitazione e nella relazione fra i protagonisti, che in uno spazio scenico così essenziale e scarno emergeva ancora di più. Gli unici personaggi a essere tratteggiati con una caratterizzazione scenica viva e particolare risultavano la protagonista e Goro. Raffaella Angeletti si fa apprezzare per la morbidezza e la rotondità dell’emissione e la pienezza degli acuti. Il tutto però finisce per essere penalizzato a causa dello scarso volume di voce, che di certo non l’aiuta a dare incisività e drammaticità ai propri interventi. Soprattutto nelle scene di canto dialogato, su cui la parte si regge, il registro medio è parso davvero debole e a tratti poco udibile. La Angeletti riesce nonostante tutto a imprimere una propria idea del personaggio grazie anche a una fisicità adatta alla parte. La sua è una Cio-Cio San più smaliziata che timidamente impacciata come spesso accade di vedere, del tutto disinvolta e convinta nella propria tragica ingenuità. Il ruolo di Pinkerton è fuori dalla portata di Vincenzo Costanzo, il quale mostra un timbro molto accattivante e dal piglio giovanile, ma che tuttavia non riesce a sopire le numerose defaillance tecniche ancora evidenti. Su tutte, la mancanza di un peso vocale adeguato (l’interprete spesso risultava coperto dall’orchestra o dai colleghi) che qui sì, è deleterio anche nella delineazione di un personaggio fiero e credibile. Va da sé che una certa rigidità nei movimenti non lo ha purtroppo aiutato a condurre efficacemente in porto la sua performance. Suzuky era Anna Pennisi; dotata di voce piena e ben proiettata, ha fornito un’interpretazione maternamente coinvolta del proprio ruolo. Mario Caria, Sharpless, si fa apprezzare per la corposità del proprio strumento e la sicurezza tecnica. Da segnalare però come la poca cura rivolta alla recitazione da parte di una tale impronta registica lo sacrifichi spesso a livello attoriale, soprattutto nella scena della lettera e nel quartetto finale. Ben caratterizzato vocalmente e interpretativamente il Goro di Andrea Giovannini, perfettamente calato nella parte del servitore infido e ipocrita, così come buona e precisa la prova di Nino Nemmella (Yamadori), Abramo Rosalem (lo zio bonzo) e Miriam Artiaco (Kate Pinkerton). La direzione di Nicola Luisotti è sicura e bene a fuoco nell’evidenziare e far rivivere le molteplici di preziosità musicali di cui la partitura è disseminata; prodiga nelle vigorose dinamiche e attenta nella concertazione. Unica nota dolente riguarda gli squilibri sonori che spesso si sono registrati fra orchestra e cantanti in cui emergeva la necessità di maggiore bilanciamento dei volumi.