La lotta dei giovani

di Francesco Lora

Il Festival della Valle d’Itria inscena la prima ripresa in età contemporanea della Lotta d’Ercole con Acheloo di Stéffani (Hannover 1689). Lo spettacolo eccelle nelle sue parti teatrali, coreografiche e vocali-attoriali, in faccia alle lacune dell’orchestra e agli eccessi della concertazione.

MARTINA FRANCA, 25/07/2014 – Si riprende il discorso dove lo si è appena lasciato, dando innanzitutto conto del terzo spettacolo teatrale, La lotta d’Ercole con Acheloo d’Agostino Stéffani. Progetto saldamente legato all’Accademia del Belcanto, esso porta più di tutti gli altri la firma dei giovani, chiamati a occupare ogni angolo della locandina. In secondo luogo, richiama l’attenzione su una partitura ben nota agli studiosi ma rimasta carta muta in età contemporanea. Questo “divertimento drammatico” in una sola parte, composto in stile italiano nelle linee di canto, informato allo stile germanico nella pienezza della scrittura strumentale e inframmezzato in stile francese da divertissements danzanti, è esempio preclaro dell’eclettismo praticato dal compositore di Castelfranco Veneto. Fu approntato nel 1689 per la corte ducale di Hannover, allora al centro del riassetto politico-dinastico europeo, e fu noto a George Frideric Handel, che ne ricalcò le musiche in varie sue composizioni (senza troppi pudori e segnatamente nell’oratorio Theodora, successivo di ben sessantun anni). La riproposta del Festival della Valle d’Itria partecipa in tal modo, e con rilevante impegno produttivo, alla riscoperta d’un compositore già toccato dalla bacchetta magica e massmediatica di Cecilia Bartoli, le opere del quale sono oggi tuttavia esplorate più in antologia che nella loro variegata interezza.

L’incanto d’estrarre meraviglie visive e concettuali da mezzi poveri, affidati a mani abili e a menti sapienti, è sia un artificio della cultura barocca, sia una specialità del Festival della Valle d’Itria. Già occupato il vasto cortile del Palazzo Ducale di Martina Franca da due altre produzioni operistiche concomitanti, si è trovato un nuovo spazio nel più raccolto chiostro di S. Domenico: bianchissimo, porticato, con alti muri a costringere in alto lo sguardo alla ricerca del cielo stellato. Lì il regista Benedetto Sicca, la scenografa Maria Paola Di Francesco e il costumista Manuel Pedretti hanno dato la loro lettura del mito: la principessa Deianira è salvata dal semidio Ercole mentre il rivale Acheloo, divinità fluviale, va a farsi bello del merito con il re Eneo, padre di lei; una lotta tra protagonista e antagonista, invocata da Deianira, dà ragione alla coppia d’amanti e fa tornare l’antagonista umiliato nel letto del suo fiume. Ed ecco ciò che si vede: il palcoscenico trasformato in corso d’acqua con una base d’argento, con una corona di vapori dipinti, con gocce che dal primo all’ultimo minuto scorrono dall’alto in basso lungo i velatini sullo sfondo. L’abito di Deianira muta genialmente dal blu all’oro al mutare del taglio di luce, mentre dal fiume evocato balzano fuori evocati tritoni bianchi, a un tempo danzatori, maestri di gesto e viva parte dell’impianto scenografico. Spazio e tempo sono occupati con la naturalezza di chi altro non vuole che servire un compositore, un librettista, un genere teatrale e musicale.

Un merito spiccato lo guadagnano – in questa lettura, in questo spettacolo e poi in tutto il Festival, ove sono onnipresenti – i giovani danzatori della neoistituita Fattoria Vittadini: sbalordisce la loro immediatezza d’adattamento alla natura e ai ritmi dello spettacolo d’opera; sbalordisce il loro stile camaleontico dal mimo alla danza e dal filologico al postmoderno; sbalordisce il loro essere pura bellezza in movimento conservando tuttavia una naïveté dimenticata dalle compagnie di ballo stabili delle fondazioni liriche. Già in queste coreografie, curate da loro stessi in accordo col regista, essi sono una scoperta, e lo sono in particolare i quattro componenti qui impegnati: Mattia Agatiello, Cesare Benedetti, Luciano Ariel Lanza e Riccardo Olivier. Buona e talvolta eccellente è la compagnia di canto, cui tocca il duplice onere di condividere la parte coreografica con tanti professionisti e d’assumere parti vocali ricche di retorica e virtuosismo. Il soprano Dara Savinova, come Alcide (l’Ercole del titolo), è per esempio tanto corretta nell’impostazione canora quanto svantaggiata dal non essere madrelingua: anche quando il linguaggio sia strettamente musicale, si percepisce un esitante algore di timbro e fraseggio, ossia la difficoltà d’accedere a un testo musicale e teatrale con la spontaneità dei colleghi.

L’altro soprano, Federica Pagliuca, sa infatti variare scherzosamente colore e affetto a ogni nota o sillaba, senza far perdere l’intelligibilità d’una sola parola o intenzione, e sa restituire una Deianira nel contempo patetica e pungente. V’è ragione d’aspettarsi grandi cose da lei e dal suo Acheloo, il controtenore Riccardo Angelo Strano. Se è vero che nel repertorio italiano l’impiego di falsettisti, soprattutto se educati alla britannica, è un falso storico e un abbaglio estetico, è tuttavia altrettanto vero che la loro nuova generazione sta dando prove tecniche ed espressive fino a ieri impensabili: con il suo timbro cremoso, con la sua emissione omogenea, con il suo volume generoso, con la sua estensione facile, con la sua vocalizzazione energica, Strano dimostra come si possa raccogliere l’eredità dei grandi castrati non tanto nel travestimento controtenorile quanto in un’organizzazione canora sana al di là del nome dato al registro; né l’animale scenico, spigliato come sa esserlo un baroccaro ventiquattrenne d’oggi, è meno interessante del vocalista. Nobilmente funzionale è a sua volta l’altro controtenore, Aurelio Schiavoni, nella parte d’Eneo: attore più introverso ma non meno impegnato, cantante meno esuberante ma non meno puntuale.

L’unico punctum dolens dello spettacolo risiede in una simbiosi contraddittoria. Da una parte v’è l’Orchestra internazionale d’Italia, qui ridotta a ensemble barocco e tecnicamente deficitaria come invece non risulta negli altri spettacoli del Festival: fraseggio polveroso e lutulento, oltre che imprecisioni d’attacco, rivelano nel contempo limiti individuali e una non ben calibrata intesa con il concertatore. Dall’altra parte v’è il concertatore stesso, Antonio Greco, artefice negli stessi giorni d’un indimenticabile concerto monteverdiano-buxtehudiano con le voci dei giovani dell’Accademia del Belcanto – e con l’introduzione di tutte le appoggiature nelle parti vocali: Dio lo benedica – ma non altrettanto a suo agio in Stéffani. Ossimoricamente, i difetti sono gli eccessi. In particolare, anche questa volta è da lamentare il ricorso alla prassi della microstrumentazione nel basso continuo, cioè il maniacale frazionamento della melodia, anche per brevissimi frammenti e a gruppi misti, da uno strumento all’altro tra clavicembalo, tiorba, violoncello, violone e chi più ne ha più ne metta.

Attuata ai fini espressivi-coloristici – i quali però richiedono una rara maestria del caleidoscopio: Gabriel Garrido e René Jacobs fra pochi e su tutti – essa piace molto agli esecutori e agli strumentisti in particolare, ma è spesso fonte di confusione e disagio per gli ascoltatori (disorientati anziché ammaliati, se il discorso non è chiaro e coerente) e per i cantanti (costretti ad adeguare la loro fantasia, che dovrebbe avere sempre il primato sul contorno, a un sostegno perennemente instabile). Non bastasse, essa è frutto di tendenza contemporanea, più new age che autentica, e manca di fondamento filologico (che la smentisce nell’ampia maggioranza dei casi: persino chi la predicò nei trattati non poté praticarla, giusta il pragmatismo esecutivo del Sei-Settecento). Sciocchezzuole da musicologo, si dirà, e (forse) non v’è dubbio. Ma dalla presa di posizione generale alla constatazione della qualità dell’orchestra, nonché al cospetto d’uno spettacolo altrimenti senza macchia, non era questa la miglior strada sulla quale avventurarsi.