La narrazione nel caleidoscopio

di Francesco Lora

La donna serpente di Casella è l’opera inaugurale del 40o Festival della Valle d’Itria: se la partitura è documento d’un’epoca, lo spettacolo è di riferimento grazie alla concertazione di Luisi, a un allestimento scenico sfarzoso e innovativo e a una calibratissima compagnia di canto.

MARTINA FRANCA, 26/07/2014 – Rarità operistiche sempre, ma non solo belcanto: ad aprire il 40o Festival della Valle d’Itria è stata La donna serpente d’Alfredo Casella, data alle scene nel 1932, e singolare tardivo approdo al teatro musicale da parte d’un compositore ormai sulla cinquantina e poco inclinato – o non convenzionalmente inclinato – alla scena e al canto. Nell’uscire dal teatro all’aperto nel cortile del Palazzo Ducale, dopo le recite del 18, 20 e 26 luglio scorsi, v’era da sorridere tendendo l’orecchio ai mugugni del melomane o ai proclami del musicologo: le riserve erano non tanto verso l’esito dello spettacolo, quanto piuttosto verso la scelta del titolo in sé. Il non essere un capolavoro nato è una colpa? E lo è lo schiacciamento della drammaturgia e della vocalità, rispetto ai coevi sublimi modelli di Giacomo Puccini o Richard Strauss? È fuor di dubbio che il libretto di Cesare Vico Ludovici, sebbene questi fosse un fine traduttore di Plauto come pure di Shakespeare e d’Eliot, fornisca al compositore più demenzialità compiaciute che colpi d’ala.

Rimane però il fatto che La donna serpente sia prezioso documento d’un’epoca, e il più genuino contributo che potesse venire da Casella. Il problema sta dunque non nell’oggetto, ma nella categoria di valutazione. Quella giusta è additata da Fiamma Nicolodi quando, nel programma di sala, evoca in generale «le corde dell’ironia, dell’antipsicologismo, del divertimento, dell’eccesso sentimentale, dell’esotismo, oppure le strategie narrative del racconto fine a se stesso». Le corde, cioè, della letteratura fiabistica di Carlo Gozzi recuperata dai musicisti del primo Novecento. Nella fiaba della Donna serpente la fata Miranda paga con tremende prove d’iniziazione il suo amore per il re Altidòr e il suo passaggio al mondo umano: Casella vi gioca l’asso dell’orchestratore inedito, geniale e caleidoscopico, e quello d’eclettico osservatore e combinatore delle atmosfere teatrali battute dai contemporanei. Se vi sono gli interpreti giusti, v’è materiale per farne un grande spettacolo: e il Festival della Valle d’Itria s’è appuntato il più bel fiore all’occhiello dell’abito da festa.

I meriti musicali discendono dal mentore della situazione: Fabio Luisi è uno tra i massimi concertatori italiani nel mondo, ha avuto la generosità di mettersi a disposizione del Festival, gode a Martina Franca d’un clima gratificante come non altrove, offre infine qui la sua più fulgida prova direttoriale saggiata da chi scrive. L’Orchestra internazionale d’Italia e il Coro della Filarmonica di Stato “Transilvania” di Cluj-Napoca sono compagini tecnicamente non trascendentali: eppure spazzano via ogni nostro pregiudizio mentre, saldamente guidate da Luisi, non perdono un graffio ritmico o un colore ricercato, divenendo il primo strumento evocativo e narrativo della serata. Evocazione e narrazione: l’altra parte dei meriti discende dallo spettacolo con regìa d’Arturo Cirillo, ove tutto ciò che si vede entusiasma, e inchioda al palcoscenico occhi e mente dello spettatore. Nel pasticcio librettistico, fate e re, maschere della commedia dell’arte, amazzoni e traditori darebbero un bel da fare per districare l’azione: tutto scorre invece liscio come l’olio, intelligibile, ben narrato e superbamente tradotto in immagini.

Le immagini sono innanzitutto i costumi di Gianluca Falaschi, galleria inesauribile d’idee, ciascuna atta a definire un ruolo, un gruppo, un carattere, giustapponendo il tenue e l’audace senza mai temere l’eccesso e il malgusto, e anzi arrivando a fiabescamente divertire lo spettatore, sfidato e vinto al superamento dell’ultima sua aspettativa. È un’enciclopedia di quanto si possa fare con il tessibile per costruire una società in palcoscenico. Essenziali sono invece le scene firmate da Dario Gessati, fisse benché modulari e via via ricombinabili a piacere: rampe-mezzelune sulle quali le luci di Giuseppe Calabrò sanno innestare la giusta atmosfera. E poi v’è l’anima medesima dello spettacolo, quella che merita il sontuoso tributo costumistico e che spiega lo spartano assetto scenografico: dalla prima all’ultima nota, il palcoscenico è regolato dalle coreografie di Riccardo Oliver nei movimenti delle masse, e fatto fibrillare con eclatante minuzia e arguzia dai danzatori della Fattoria Vittadini (eccellenti solisti: Mattia Agatiello, Cesare Benedetti, Luciano Ariel Lanza e Vilma Trevisan). La festa gestuale, acrobatica e – passi – kolossal che ne deriva è essa stessa scenografia, e fissa un esempio di come il teatro d’opera possa essere fatto puro dinamismo visivo senza in alcun modo ledere tempi e spazi del codice musicale, preesistente e intoccabile.

Alla compagnia di canto la partitura concede poco o nullo spazio di esibizione edonistica individuale, chiedendo al contrario che ciascun interprete sia puntuale ingranaggio di una macchina inesorabile. In questo orizzonte, la scarsezza di profondità psicologica conferita non è sempre un difetto, mentre divengono priorità l’esattezza metronomica dell’enunciato e il pomposo straniamento dei personaggi. Piacciono, così: l’Altidòr d’Angelo Villari, tenore saldo in una scrittura spietata, principe azzurro volutamente monocorde; la Miranda di Zuzana Marková, la cui flebile emissione è questa volta congeniale alla lirica evanescenza della fata amante; l’Armilla di Vanessa Goikoetxea e la Canzade di Candida Guida, che nel loro quadro dell’atto II esibiscono tutto l’impeto e l’accento di donne guerriere; la Farzana d’Anta Jankovska, che in poche fatesche battute mostra l’autorità del deus ex machina; il Tògrul di Davide Giangregorio, che nella stilizzazione sa comunque instillare l’amorevolezza del ministro fedele; e il Demogorgòn di Carmine Monaco, che con l’ingombrante figura e il porgere prepotente crea un re delle fate ideale. A parte va considerato il quartetto delle maschere Alditrùf, Albrigòr, Pantùl e Tartagìl, ossia Truffaldino, Brighella, Pantalone e Tartaglia, che grazie ai loro interpreti divengono uno spettacolo nello spettacolo per brillantezza recitativa e contrappunto musicale: il primo, il terzo e il quarto sono Simon Edwards, Pavol Kuban e Timothy Oliver; il secondo è Domenico Colaianni, ragliante voce di carta vetrata che, per miracolo d’intelligenza artistica, plasma parola e personaggio nell’oro puro: il basso buffo caricato che sarebbe un privilegio avere sempre in locandina.