Il futuro ha un cuore antico

di Giovanni Chiodi

Aida sul filo del tempo, della memoria e dell'astrazione inaugura il festival dell'Arena Sferisterio di Macerata con la regia tecnologica ed essenziale di Francesco Micheli. Nel cast s'impone nettamente il versante femminile, con Fiorenza Cedolins e Sonia Ganassi nei ruoli principali. meno interessante la direzione di Julia Jones, e debole il Radames di Sergio Escobar.

Macerata, 18 luglio 2014 - È un’Aida sul filo della memoria quella immaginata da Francesco Micheli come inaugurazione della cinquantesima stagione lirica dello Sferisterio, riallacciandosi alla prima del 1921. Lo annunciavano, fin dal preludio, le date proiettate sulla parete. È anche un’Aida che naviga nel tempo: situata in un arcaico passato remoto, viene raccontata mescolando i segni grafici di una lingua morta, i geroglifici del libro egizio dei morti, con le tecniche più sofisticate di oggi. Via ogni esotismo di maniera, è Ramfis, pc alla mano, a raccontare visivamente la storia, di amore e di morte, facendola apparire sulla superficie luminosa di un gigantesco tablet aperto, una sorta di libro elettronico en plein air al centro della scena, mentre i coristi, attori e insieme osservatori esterni, sfogliano a loro volta le pagine dai loro computer. Un’Aida tutta astratta, dai costumi (di Silvia Aymonino) geometrici bianchi, il colore egizio del lutto, salvo quello nero che fascia Aida, in cui i personaggi principali agiscono isolati dal coro, sulla base multicolore (di azzurro, rosso, arancio, bianco), separati dalla società, ma intrappolati in loro stessi, in continua relazione.

Aida compare da una botola con una parrucca bianca, il volto semi-dipinto di nero, coperto da una specie di maschera naturale che la rappresenta come un’estranea. I segni luminosi non sono solo parole per raccontare, ma anche linee che delimitano spazi d’azione, percorsi da seguire. Come nella scena del tempio, in cui un unico lemure danzante (le coreografie sono di Monica Casadei) disegna, attraverso tre linee a triangolo, un tragitto rituale per Radamès. Come, ancora, nel duetto Aida-Amneris, con la piattaforma divisa in due, la sinistra e la destra, e Radamès che appare e scompare sotto forma di geroglifico nella sinistra. Il trionfo si trasforma in una sfrenata danza di morte di eroi, prima che la base sia di nuovo occupata solo e unicamente dai personaggi, e si concluda con una perorazione collettiva, alla quale non si sottrae la stessa Amneris. La quale ha una psicologia più articolata del solito, più naturale e femminile: ha l’amore a portata di mano, come un fruscio di bambini festanti, ma è piena di inquietudini e presagi, al pari di Aida: e infatti, come la sua rivale nel terzo, finirà a terra anche lei, nel quarto atto, a parti invertite e scambiate. È vero che Radamès irrompe sulla scena, al principio del terzo atto, dandole il braccio. Ma poi Amneris prenderà il posto di Aida e si contorcerà a terra durante la scena del giudizio, mentre sulla parete una linea cancella tre volte il nome dell’amato. Infine, lo spazio azzurro luminoso sarà occupato solo dai due amanti, prima che il laptop si chiuda e i due scompaiano nel buio. Un’Aida tanto stilizzata (scene di Edoardo Sanchi, luci di Fabio Barettin, disegni di Francesca Ballarini) fluida e mossa nelle soluzioni visive, correva il rischio di rifare pericolosamente il verso agli schemi di Wilson. E invece è accuratamente recitata e concentrata, quasi avvitata sui personaggi, con una semplicità espressiva, sgravata da ogni solennità, che non allenta la tensione che sorregge le due parti in cui è saggiamente diviso lo spettacolo. Non si può dire, invece, che analoga tensione sprigioni dalla buca orchestrale, dove Julia Jones si limita a tenere a bada, in modo onorevole ma piatto, una compagine di non eccelsa levatura, a grado zero di autentica concertazione.

Nel cast, viceversa, spiccano un alto volo le prestazioni notevoli di Aida e Amneris. Fiorenza Cedolins si conferma un’Aida ideale, non solo per la voce, di soggiogante bellezza, ma anche per la capacità di scandagliare a fondo, usando una dinamica varia e articolata di piani e forti, cioè le sfumature di un autentico soprano lirico, la psicologia di una creatura dalle plurime dimensioni, unendo sensualità e piglio autorevole, intuizioni sottili nel fraseggio e smorzati suggestivi. Sonia Ganassi vince pienamente la sfida con un ruolo pesante come quello di Amneris, con la forza derivante dalla varietà di un accento come al solito ingegnoso, dalla salda tenuta nei vari registri, dallo scatto negli acuti: ne esce la costruzione di un personaggio molto sfaccettato, una donna più disperata che solo proterva dominatrice o icona statuaria e monocorde. Meno bene funziona la parte maschile. Sergio Escobar, come Radamès, è baciato dalla sorte, quanto a materiale di prim’ordine e a bel timbro di voce: ma la tecnica è tutta da sistemare urgentemente, soprattutto nel settore acuto. Giacomo Prestia (Ramfis) si difende, anche se con vibrato a tratti pronunciato. Elia Fabbian (Amonasro) non manca di buone intenzioni, ma spesso e volentieri le brucia con una dinamica piatta, spingendo e forzando, soprattutto negli acuti.