A ogni epoca la sua arte, all'arte la sua libertà

di Andrea R. G. Pedrotti

L'Aida messa in scena dalla Fura dels Baus non è solo uno spettacolo affascinante e d'inesauribile inventiva, ma una sorta di simbolo e manifesto per un'Arena di Verona orgogliosa della sua tradizione e proiettata al futuro, per una visione sempre viva e attuale dell'opera lirica. In crescendo le prove di Maria José Siri, Sanja Anastasia, Marco Berti e Luca Salsi, diretti da Julian Kovatchev.

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VERONA, 3 agosto 2014 - “Der Zeit ihre Kunst, der Kunst ihre Freiheit”, ovvero “A ogni epoca la sua arte, all'arte la sua libertà”, il motto del movimento culturale della Secessione Viennese, è la prima frase che sorge alla mente, assistendo alla rappresentazione di Aida nell'allestimento che ha inaugurato la scorsa stagione estiva della Fondazione lirica Arena di Verona e affidato alla fervida inventiva di La Fura dels Baus. Aida aprì la prima edizione del festival areniano nel lontano 1913 e, da allora, la secolare ala di pietra ha assistito a messe in scena di ogni tipo. E' più che corretto seguitare nella ripresa di allestimenti storici, con valore sia documentario sia estetico, ma la sensibilità è influenzata dagli inevitabili mutamenti sociali e antropologici; se si vuole che il teatro lirico abbia sempre nuova linfa vitale e si possa definire forma d'arte costantemente attuale, non ci si può arenare su messe in scena che rispondano essenzialmente a un gusto di maniera o squisitamente iconografico. La produzione di La Fura dels Baus è stata il miglior omaggio a un titolo simbolico per il palcoscenico veronese, legato alla storia, ma proiettato nel futuro, mediante l'ausilio di nuove tecnologie e metodiche comunicative.

Il gioco di regia ha inizio ancor prima che cominci l'opera: al centro viene posto uno scuro obelisco etiope, subito scomposto in più parti e chiuso in casse di legno, destinate ad arricchire il bottino di guerra egizio. A parte una grande gru centrale e quattro strutture del tutto simili agli estremi del grande palcoscenico - ottimamente sfruttato in tutta la sua ampiezza -, il primo quadro risulta piuttosto spoglio di elementi, ma non di idee. Il preludio è diretto da Julian Kovatchev in maniera troppo sommessa e povera di dinamiche, così come il terzetto “Vieni, o diletta, appressati..”. Qualche difficoltà anche per Marco Berti, il quale esegue la celebre romanza “Celeste Aida” con squillo e buona proiezione vocale, ma tecnica e intonazione sono approssimative. Dal punto di vista musicale la serata acquista nuova lena al giungere del coro, nell'occasione in forma smagliante, magistralmente diretto da Armando Tasso, che pare svegliare dal torpore la buca: l'accento dei complessi areniani è straordinario, frasi come “Guerra! Guerra! Sterminio all'invasor” sono eseguite in maniera memorabile. La regia comincia a empiere la scena di fiamme e spettacolari vessilli infuocati, tenendo fede alla tradizione che vuole lo spazio dell'anfiteatro veronese quale cornice di coinvolgenti effetti visivi, ma in maniera nuova e intelligente. Il crescendo musicale prosegue con la scena “Ritorna vincitor!...”, interpretata da Maria José Siri con ottima proiezione, fraseggio, tecnica e controllo del fiato, ma soprattutto con grande partecipazione emotiva, capace, sola sul grande palco, di coinvolgere tutto il pubblico. Prima della scena della consacrazione e del grande finale primo, un lungo cambio-scena non spezza la magia: sfruttando la macchia cromatica delle pietre, sul fondo vengono sistemati dei teli che danno l'idea, grazie ad un sapiente gioco di luci, di dune del deserto o di aride rocce, tipiche delle cave egizie. Tutto l'anfiteatro è coinvolto nel rito, da ogni ingresso sorgono sacerdoti incappucciati, che con perfetta sincronia, portando fra le mani globi luminosi, si intrecciano in una grande danza rituale, sino a giungere al ballo delle sacerdotesse. L'Arena di Verona ha la fortuna di poter contare, fra le sue maestranze, dell'ottimo corpo di ballo di Renato Zanella, che con attillate tute blu e globi similari a quelli delle comparse si muovono come numi. Ormai lo spettacolo è decisamente condotto verso la felice riuscita e il grande finale I “Nume, custode e vindice”, ne è prova compiuta: i problemi di intonazione per Marco Berti sono un ricordo, le sezioni sono coordinate e le dinamiche assolutamente appropriate. Sull'ultimo accordo del primo atto le nubi del cielo veneto si sono fatte più fitte, bagnando con qualche goccia il pubblico presente. Trascorso l'intervallo si è giusto fatto in tempo ad ascoltare il breve coro delle schiave “Chi mai fra gl'inni e i plausi “, dopo di che l'umidità s'è fatta ancora più densa, interrompendo le danze successive. Qualche minuto dopo la rappresentazione è ripresa, senza che la magia ne fosse offuscata. Poco convenzionale, così come tutta la regia il momento successivo: un grande telo verde, disposto a tenda, stava al centro degli appartamenti di Amneris, figurando, nell'ombra dietro il telo, una tauromachia bella e coinvolgente. Sanja Anastasia (Amneris), che, fino a questo momento si era fatta poco notare, comincia a dare lustro alla sua serata a partire dal duetto “Amore! amore! Gaudio... tormento... “, con la sempre ottima Maria José Siri. Ogni incertezza nella concertazione è svanita, le due voci si sposano al meglio, con passione e giusto accento. Accento apprezzato anche dal cielo, che fugando ogni pericolo di pioggia ha mostrato alcune stelle, tingendosi di rosso sangue.

Sovente la scena del trionfo è la più attesa e La Fura dels Baus non ha deluso il pubblico presente: preceduto da un cambio-scena (buona l'idea di puntare un potente faro verso la cavea, tenendo in piena oscurità il palco) tradizione e innovazione si sono unite. Il Re era assiso su un alto trono, non sono mancati cammelli ed elefanti, ma realizzati in forma stilizzata, i costumi delle comparse parevano quelli di un grande videogioco, tuttavia nulla è venuto a mancare: il bottino di guerra, portato su casse rette da una lunga serie di muletti, ha fatto il suo inchino innanzi al sovrano, i prigionieri sono stati derisi e fustigati, mentre le truppe si sono schierate su macchinari tipici più di un parco giochi, con costumi sfarzosi, non tradizionali né banali. Nel mentre si veniva a comporre, al centro dell'azione, un grande specchio concavo, utile sia per la propagazione del suono sia per dare profondità alla scena. Realizzata al meglio la stretta finale “Gloria all'Egitto, ad Iside” . Come già detto ottima la prova di coro e corpo di ballo. L'atto visivamente migliore della serata è stato sicuramente il terzo con il giungere dei protagonisti, a eccezione di Amonasro, su un tappeto d'acqua (il Nilo), trainati su una semplice imbarcazione, con le ottime comparse tramutatesi in coccodrilli e altri animali. Giunchi e grandi piante di papiro ondeggiavano ritmicamente, dando un gran senso di movimento all'insieme. Luca Salsi è un Amonasro di grande levatura sia scenica sia vocale e dopo la bella romanza di Aida “O cieli azzurri... o dolci aure native”, è ottimo interprete del duetto “Rivedrai le foreste imbalsamate”, così come ottimi sono il successivo duetto fra Aida e Radames e la scena finale. Nel corso dell'ultimo intervallo l'ala dell'arena ha partecipato alla festa, colorandosi con le tinte dell'iride, e non del consueto avorio.

Quarto atto in linea con i precedenti: il grande specchio, formatosi durante il trionfo, si abbassa lentamente e inesorabilmente, sino a divenir angosciante “fatal pietra”. Un evocativo perigeo lunare simulato ha degnamente sostituito quello reale. Le comparse che avevano animato il rito del primo atto, salgono in ordinata fila le dune di sfondo, sino a porsi in semicerchio sulla sommità dell'anfiteatro. Sanja Anastasia merita a pieno titolo un'ovazione del pubblico per la scena “L'aborrita rivale a me sfuggia...”, richiamata sul palco a tributo della sua interpretazione. Splendido il finale: il gigantesco specchio, prima sovrastato da un bianco angelo della morte, poi da Amneris stessa, seppellisce Aida e Radames in angosciante e claustrofobico avello. A buon titolo la storica voce degli spalti dell'Arena non ha saputo trattenere un tonante e proiettato “Viva Verdi!”. Julian Kovachev ha ben diretto gli ultimi tre atti. La regia, per La Fura dels Baus, è stata curata da Carlus Padrissa e Alex Ollé, le scene erano di Roland Olbeter, i costumi, fra tradizione e ardita innovazione, di Chu Uroz, il bellissimo disegno luci di Paolo Mazzon e la coreografia di Valentina Carrasco. Completavano ottimamente il cast Roberto Tagliavini (Il Re), Vitalij Kowaljow (Ramfis), uno squillante Carlo Bosi (Un messaggero) e la sacerdotessa di Seda Ortac. Vista l'ora tarda solo gli interpreti principali hanno potuto raccogliere il festoso tributo del pubblico: bimbi, coro e corpo di ballo non hanno potuto ricevere la meritatissima ovazione. Purtroppo questo non è uno spettacolo apprezzabile in ripresa televisiva, quindi l'invito è quello di recarsi a Verona, nella speranza che venga riproposto ancora molte volte negli anni a venire.