Qual rosa inaridita….

di Emanuele Dominioni

Nonostante l'interesse della versione originale, basata sull'autografo donizettiano, e la bontà delle prove di Bianca Tognocchi, promettente protagonista al debutto in un ruolo tanto impegnativo, e di Christian Senn, Lord Enrico, Lucia di Lammermoor delude sia per l'insufficienza di troppi elementi musicali, sia per un allestimento scenico non riuscito.

BERGAMO, 28 settembre 2014 - L’istituzione di alcuni festival musicali dedicati a musicisti celebri è operazione per lo più diffusasi in tempi relativamente recenti. La duplice valenza di queste manifestazioni - da un lato lo scavo e la ricerca , dall’altro la rappresentazione e la divulgazione - dovrebbe ispirare progetti di importante statura artistica e culturale, proprio in relazione al compositore e alla sua eredità artistica, là dove quest’ultima dovrebbe - per ragioni evidenti - con maggiore forza rifulgere. Tale premessa ci è parsa obbligata per quanto visto e udito in questi giorni a Bergamo. Giunto alla sua nona edizione, il Festival Donizetti ci presenta nel 2014 tre titoli di eterogenea fortuna: Betly, Lucia di Lammermoor e Torquato Tasso. La rassegna musicale, così come il ROF a Pesaro e altre realtà teatrali simili, è da anni impegnata nella riscoperta di alcune opere escluse dal grande repertorio e, ovviamente, nella riproposizione dei capolavori più celebri del compositore bergamasco. Pare impensabile, quindi, a fronte di questo ruolo precipuo e in una sede tanto importante, assistere a produzioni così poco valorizzate, che altro non fanno pensare se non a un adagiarsi sul forte richiamo di pubblico ispirato dal famoso titolo, offrendo d’altro canto uno spettacolo dagli esiti davvero poco felici.

Viene qui riproposta una versione di Lucia di Lammermoor basata sul manoscritto autografo conservato proprio a Bergamo, con le tonalità autentiche, più acute rispetto a quelle tradizionali. Diverso è anche lo strumentale, con corni naturali e tromboni a pistoni, oltre alla glassharmonica già utilizzata nell’ultimo allestimento del 2006. I tagli riaperti sono stati moltissimi e, volgendo lo sguardo alla partitura originale, la scrittura è fedelmente rispettata sia nell’omissione di alcune puntature e appoggiature di tradizione, sia nel ripristino delle cadenze originali. Tale scelta, di per sé interessante, ci viene proposta però in una cornice di scolastica routine, che in un Festival dedicato proprio a Donizetti risulta davvero deprimente. Scenograficamente parlando, lo stampo tradizionale della regia risulta assai monotono nella reiterazione dello stesso apparato scenico (che si muoveva sopra una vasta pedana rotante), per tutti i diversi quadri dell’opera. L’azione si snoda costantemente all’aperto in un’atmosfera di decadenza alto-medievale, in cui alcuni suggestivi tableaux innevati e le scarne rovine di un castello riassumono tutto ciò che visivamente ci viene proposto per le tre ore dello spettacolo. I costumi facevano riferimento alle epoche storiche più disparate: dal rinascimento inglese di molti abiti del coro, al saio trecentesco di Raimondo, agli indumenti tribali di alcune donne, fino alle pesanti pellicce che fanno più pensare a un Attila che a un Edgardo di Ravenswood; per non parlare della gotica e ingombrante talarità delle vesti indossate da Lucia durante il primo atto, la cui figura minuta non veniva certo valorizzata.

Il tutto si snoda in un contesto militareggiante in cui, come afferma il regista Francesco Bellotto, “i protagonisti si muovono sullo sfondo di una guerra civile che dura da almeno cinquant’anni”. Un contesto, questo, che nella trasposizione scenica riporta però gravi debolezze e imbarazzanti mancanze proprio a livello registico. La già denunciata piattezza scenografica si estendeva infatti a vari livelli: dalla recitazione manierata e poco credibile dei protagonisti (che nel movimenti suscitavano echi di “regie” anni trenta), fino ad alcune scelte grottesche come il suicidio di massa, mascherato da improbabili duelli, messo in atto dagli abitanti di Lammermoor durante il preludio all’aria di Edgardo. Per tacere poi della totale mancanza di verità teatrale nelle parti più concitate del dramma come il finale secondo - in cui Edgardo fa irruzione durante il matrimonio senza essere in nessun modo assalito dai presenti - e l'assenza di partecipazione all’azione scenica delle masse corali sia durante la pazzia di Lucia, sia di fronte al suicidio di Edgardo. Da tutto ciò emerge un quadro di pressapochismo e scarsa senso del teatro che non fanno che danneggiare il risultato complessivo della rappresentazione, anche in termini prettamente musicali.

Siamo di fronte a un cast vocale mediamente giovane, in cui su tutti spicca la comasca Bianca Tognocchi. Soprano leggero d’agilità di scuola rossiniana, si è fatta apprezzare per l’ottima tecnica belcantista, l’immacolata e precisissima coloratura e un fraseggio pertinente alla scrittura donizettiana. Debuttante in un ruolo che per molti soprani è un'aspra vetta, ha saputo tenere testa alla parte con professionale rigore. Il momento clou della sua interpretazione è stato quello della pazzia, culminata con un’inedita quanto ostica cadenza eseguita totalmente a cappella. La Tognocchi si trova altresì a suo agio nei momenti di puro lirismo, grazie a un colore di voce accattivante, come in quelli di maggior forza espressiva dei concertati. Un talento che sicuramente ci saprà con il tempo stupire. Dispiace che la sua prova s’erga invece in un deserto di voci male assortite, in cui l’unica oasi di qualità da segnalare è quella del baritono Christian Senn. Dotato di una vocalità di stampo più mozartiano che romantico, dà sfoggio di una tecnica solida che gli consente di imprimere senso preciso e forza al personaggio di Enrico, grazie anche alla potenza del fraseggio e a una presenza scenica che non ha pari negli altri interpreti. Del tutto deludente la prova offerta dal tenore Raffaele Abete, il quale, nonostante la giovanile baldanza mostrata in taluni passaggi e una voce di lirica consistenza, delude sovente sia sul piano tecnico sia su quello scenico. La voce arranca nel passaggio di registro e risulta spesso spinta in zona acuta. Il suo ingresso e tutto il successivo duetto - così come “Tu che a Dio spiegasti l’ali” - sono compromessi da una linea vocale faticosa e instabile. Recupera parzialmente nei momenti più concitati del finale secondo e nell’aria, ma resta ben lontano dal definire un personaggio credibile, anche a causa di una recitazione resa impacciata dalla poca esperienza e da una regia che lo ha lasciato sostanzialmente a sé stesso. Il basso Gabriele Sagona ha riscosso un forte successo di pubblico a dispetto di una performance del tutto incolore. Il peso vocale è di consistenza davvero risibile nel tentativo di delineare un personaggio dell’autorità morale e della statura canora quale quello di Raimondo. Nonostante gli sforzi messi in gioco attraverso un fraseggio partecipe e una pertinente presenza scenica slanciata e severa, rimane però ben lontano dall’ideale. Dispiace poi che il parterre dei comprimari si ponga su una scia di diffusa mediocrità. Riccardo Gatto (Lord Arturo) è riuscito a steccare durante la sua entrata nella difficile salita al La acuto in “a te ne vengo amico fratello e difensor”, unica vera difficoltà tecnica di questo piccolo ruolo. Lo stesso discorso vale per il Normanno di Francesco Cortinovis: sbaglia completamente la propria parte nel racconto “ella s’en gìa colà nel parco del solingo vial…”, dando luogo a un lungo momento di imbarazzante vuoto. Anche tutti i suoi interventi successivi sono caratterizzati da un imprecisione ritmica e genericità di fraseggio intollerabili. Da segnalare la positiva prova di Elisa Maffi come Alisa, sebbene non si riesca a cogliere la motivazione registica che sta alla base alla scelta di farla apparire in stracci e movenze più simili a una Azucena perennemente in preda a visioni allucinate che una confidente di una nobile scozzese.

Buona la prestazione del coro del Bergamo Musica Festival, che ha il merito di svolgere il proprio compito con seria professionalità nonostante venga confinato scenicamente a un ruolo di contorno all’azione, senza una peculiare caratura drammaturgica. La direzione di Roberto Tolomelli è di piglio vigoroso e vibrante. Riesce a contenere i volumi e ottiene dinamiche orchestrali attente al canto. Alcune scelte portano a esiti poco felici, come quella già accennata dell’utilizzo dei corni naturali (spesso calanti e imprecisi ritmicamente), e una concertazione in più momenti poco puntuale hanno però penalizzato la qualità musicale dello spettacolo dando l’impressione di un numero di prove ridotto in riferimento alle esigenze di una partitura presentata, oltretutto, nella sua rara versione originale.