La felicità nell’inganno

di Francesco Lora

La seconda farsa veneziana di Rossini è tornata al Teatro La Fenice in uno spettacolo collaudato, dove alla semplicità dei mezzi si accompagna una rara omogeneità e schiettezza di risultati.

VENEZIA, 27/09/2014 – Calunniata di adulterio dal respinto Ormondo, la duchessa Isabella è condannata a morire su una barca lasciata in balìa del mare: così ha ordinato il duca Bertrando e così ha eseguito il servo Batone. Ma la donna è stata raccolta dal buon minatore Tarabotto: egli approfitta dell’inatteso arrivo di Bertrando per sciogliere l’intrigo e ricongiungere a lui Isabella, e nel contempo sventa un tentato rapimento ad opera di Ormondo e Batone (soprattutto il primo interessato a non essere scoperto). Materia larmoyante più che comica, ritmi serrati e colpi di scena per un’ora e mezza di musica: è questo L’inganno felice di Gioachino Rossini, sua terza opera in ordine di rappresentazione (Venezia, Teatro Giustiniani in San Moisè, gennaio 1812) e prima cui arrise un successo trionfale (contro l’uso dell’epoca, che tramandava le musiche in forma manoscritta, fu persino stampata la partitura). Eppure, tra le cinque farse veneziane di Rossini proprio questa è oggi la meno rappresentata: anche il progettato ritorno nell’àmbito dello scorso Rossini Opera Festival di Pesaro è andato a monte, sostituito da una più ordinaria andata in scena del Barbiere di Siviglia.

A rimettere i conti in pari ha provveduto il Teatro La Fenice, che delle proprie stagioni fa capolavori d’intelligenza artistica per la gioia degli intenditori, e che negli ultimi tempi ha predisposto ampio spazio per l’allestimento di tutte le farse veneziane di Rossini, giusto in tempo per festeggiare i loro primi due secoli di vita. L’inganno felice era già andato in scena nel Teatro Malibràn, in febbraio-marzo 2012; con lo stesso direttore, lo stesso allestimento scenico e gli stessi interpreti (eccettuato il solo tenore) è ora stato ripreso nella Fenice, per quattro recite dal 18 al 27 settembre. Si sono ritrovate le scene di Fabio Carpene, i costumi di Federica De Bona e le luci di Andrea Sanson (tutti afferenti all’Accademia di Belle Arti di Venezia): immagini fredde, grezze e asciutte, che ben descrivono la vita e il paesaggio di miniera, e dove l’ingresso del duca in abito di altra qualità sottolinea d’un colpo lo scarto sociale. Si è poi ritrovata la regìa di Bepi Morassi, conforme alla didascalia con poche sapide licenze: come quando Isabella, nel primo cauto tentativo d’approccio allo sposo che l’ha ripudiata, col pretesto di porgergli un foglio, presenta non la carta dichiarata, ma con disperato orgoglio il suo stesso viso.

Dal canto suo Stefano Montanari, violinista virtuoso specializzato nel repertorio settecentesco e direttore per capriccio e curiosità in ogni repertorio che gli si chieda, indossa la consueta ed eccentrica divisa da concertatore sui generis: un compromesso tra il metallaro melatinto e l’intabarramento da strega disneyana, fomentato da un gesto che sembra evocare diavoli e spargere pozioni tra le cordiali file d’orchestra. Ma l’abito bizzarro contiene un monaco rigoroso, che legge il testo rossiniano con esattezza e dedizione, anche più di quanto gli riesca con Francesco Cavalli o Antonio Vivaldi, e che allo scroscio della brillantezza – per la verità ancora piuttosto moderata nell’Inganno felice, a dispetto del topos rossiniano evoluto in men che non si dica – sa aggiungere la cura del cantabile patetico.

In modo simile, la compagnia di canto non annovera (per ora) la nuova Lella Cuberli, il nuovo William Matteuzzi, il nuovo Enzo Dara e il nuovo Samuel Ramey, ma una serie poco meno invidiabile di artisti: Giorgio Misseri (compassato ma dolente Bertrando), Marina Bucciarelli (lirica e squillante Isabella), Marco Filippo Romano (rabbioso e digrignante Ormondo), Filippo Fontana (pusillanime e spassoso Batone) e Omar Montanari (amorevole e scoppiettante Tarabotto) formano infatti una squadra affiatata, tutta italiana per cultura e formazione, e dunque tutta benedetta da timbro naturale e pieno, tecnica solida e senza artificio, comprensione della drammaturgia musicale (la giusta espressione viene da sé, senza scendere a compromessi con le note) e restituzione del testo verbale (non si perde una sillaba, né una giusta inflessione). Non tuonerà dalla più fragorosa grancassa massmediatica, ma questo spettacolo è un bell’esempio di cosa sia e come si faccia il teatro d’opera, al di là dei mezzi semplici e in attesa di carriere che possano premiare il merito.