La forbitezza del Trovatore

di Francesco Lora

La ripresa del melodramma verdiano in un allestimento scenico mediocre, al Teatro La Fenice, è oltremodo ripagata da una compagnia di canto ove fanno sensazione Gregory Kunde come Manrico e Veronica Simeoni come Azucena.

VENEZIA, 28 settembre 2014 – Il Teatro La Fenice possiede un allestimento del Trovatore di Giuseppe Verdi che lascia a desiderare: regìa di Lorenzo Mariani, scene e costumi di William Orlandi. La gestualità di tradizione è inserita in un colpo d’occhio giustamente notturno, dominato dal disco luminoso della luna, ma vuoto, arredato o animato con l’inutilmente irrelato (il cavallo bianco piazzato in palcoscenico alla sortita di Leonora) o con l’inutilmente didascalico (il talamo che attende Manrico e l’amata, tappezzato con gli stessi tessuti dei loro costumi, o l’amplesso sciocco e volgare nel quale termina il duetto di Leonora e del Conte di Luna). Restano isolati alcuni spunti di descrizione o analisi in sé lodevoli e benvenuti: per una rara volta i personaggi sono riportati alla loro estrema giovinezza, di norma travisata dalla tradizione che corrompe o dalla presenza fisica degli interpreti (Manrico e Leonora dovrebbero avere non più di vent’anni, e così pure il Conte-fratello, poiché è stato testimone non consapevole dell’antefatto; Azucena e Ferrando, lungi dall’essere vegliardi, appartengono alla generazione precedente e dovrebbero avere non più di quarant’anni: quanto basta per essere depositari dell’antefatto, lei divenuta madre in età adolescente, lui militare ancora in forze e in servizio); non dispiacciono, poi, le controscene mirate ad approfondire la crisi materna di Azucena, come quando ella trattiene un bambino dall’avvicinarsi troppo al fuoco, o come quando ella esita a riconsegnarlo alla legittima madre anziché tenerlo con sé.

Con tutti i suoi limiti, lo spettacolo di Mariani e Orlandi è tuttavia ben accetto quando dia adito a recite musicalmente indimenticabili: così è avvenuto nella recente ripresa dell’11-28 settembre, innanzitutto grazie alla sorprendente e carismatica presenza di Gregory Kunde. V’è da rimanere ammutoliti di fronte alla lezione che questo vecchio leone del belcanto rossiniano, donizettiano e belliniano sta dando, da qualche tempo a questa parte, anche a proposito del repertorio verdiano. Un debutto segue all’altro, senza esitazioni neppure di fronte all’Otello o alla Forza del destino, e con la promessa di un’imminente esordio nella Tosca di Puccini. Il primo Manrico di Kunde – frusto sì nello smalto ma non nello spirito, e tarpato sì nell’estensione, che tuttavia rimane sensibilmente più ampia e facile di quella di mille e mille colleghi – rinnova il miracolo di forbitezza tecnica e stilistica.

Lo si osserva soprattutto nel momento del paradosso. Giunto all’ultima di sette recite tutte sostenute di persona, il tenore statunitense dà segni di affaticamento nel celebre cantabile dell’atto III, «Ah sì, ben mio, coll’essere»: non si tratta di insufficienza, ma di prezzo pagato a un’entusiastica generosità vocale. Ebbene, anche in quel cantabile, come ovunque ancora, anche là dove l’ascesa al registro acuto si fa fibrosa e stentata, tutto suona legato, aulico, alato e scolpito a un tempo solo, con un senso dell’espressione amorosa e dell’accento eroico che nessun tenore colluso col Verismo ha saputo offrire negli ultimi decenni. Si trova qui non la buona volontà o il dono di natura, ma il possesso di un codice culturale. Manco a dirlo, l’affaticamento sparisce presto come la nuvola al vento: l’ancor più celebre cabaletta, «Di quella pira l’orrendo foco», è attaccata da Kunde con un piglio da squarciare le tonsille, ripetuta in faccia a chi tema o non regga il surmenage vocale, variata come nemmeno più usava ai tempi di Verdi (e con gusto sopraffino), coronata con un Do sopracuto lungo, sfacciato, buttato lì a piena forza perché nessuno possa vantarne un altro più “di petto”. Il ricordo di questo Manrico, trovatore di nome e di fatto anziché inscardinabile filibustiere, darà da penare ai posteri.

Un’altra prova eccellente è quella di Veronica Simeoni: la sua Azucena ha, in comune con il Manrico di Kunde, il pregio di essere sempre letta attraverso il sapere della belcantista anziché attraverso l’istinto dell’animale da palcoscenico. Guarda caso, a guadagnarci è non solo la musica, ma l’intero progetto teatrale: ne esce un personaggio assai più sfumato, combattuto e insidioso, ora vellutato ora torvo nella discesa al La grave, saettante e insieme turbato nella salita al Do sopracuto (nella cadenza del duetto con Manrico: come si può intuire dalla statura degli interpreti, è questo un brano tra i più trascinanti della recita). Indisposta senza averlo voluto annunciare, Carmen Giannattasio affronta con risolutezza la parte di Leonora, virtuosisticamente affiancando gli sfoghi del male di stagione a una linea vocale accurata, nobile, attenta al nitido sbroglio degli abbellimenti e all’omogeneità di corpo e timbro. Differente è il caso di Artur Rucinski come Conte di Luna: il materiale vocale è tanto cospicuo quanto incommensurabile allo stile italiano; la naturale abbondanza di volume e armonici, vale a dire, non significa scaltrita idea del legato, naturalezza del porgere e giustezza dell’emissione; emissione che risulta tanto più sicura quanto più ingolata, e che quando trova la posizione più elegante, galleggiando sul fiato, rischia anche l’incidente di percorso. Per ben concludere, magnifico è il Ferrando di Roberto Tagliavini, vigoroso e incisivo come di rado si ascolta da altri bassi, anche in virtù di una voce sugosa ma ancora chiara e gagliarda: se ne ricava un personaggio di rinnovata autorevolezza.

Dopo il poco persuasivo cimento nello stesso titolo, alcuni mesi or sono al Teatro alla Scala, il concertatore Daniele Rustioni mostra ora un passo più maturo. Se egli tende a non indovinare al primo colpo il naturale respiro con il cantante, dipana almeno i preludi con dovizia di mezzetinte notturne e misteriose; lascia a una compagnia di canto eccelsa in ampia parte la facoltà di farsi spazio (ma gli avrebbe fatto onore vietare il tradizionale, spurio e ridicolo raddoppio all’unisono, nel Finale II, della frase «Sei tu dal ciel disceso, o in ciel son io con te?», con Manrico che si sovrappone a Leonora e rivolge la domanda a sé stesso); accosta al lirismo descrittivo una sottolineatura marziale e quarantottesca, fatta di colpi di piatti e bombardate di ottoni, talvolta entusiasmante e talaltra esibita oltre il limite, fino allo spaccarsi del suono e alla ricaduta nell’indeterminatezza del rumore. Mancano le vie di mezzo. Però, a onor del vero, una lettura personale c’è, in luogo della consueta stanca ripetizione dei moduli abituali, e il giovane direttore chiama a ragione su di sé l’attenzione del melomane. Pellegrinaggio di appassionati a Venezia e loro interminabili ovazioni al chiudersi del sipario.

foto Michele Crosera