Il nido della farfalla

di Roberta Pedrotti

Non è il pettirosso americano, ma la farfalla nipponica a tornare a casa. A Brescia, dove centodieci anni fa Madama Butterfly colse il primo decisivo successo, viene riproposta la seconda versione del capolavoro pucciniano. Un'occasione preziosa salutata con calore per l'inaugurazione della stagione lirica.

BRESCIA, 5 ottobre 2014 - Pensi pure chi lo desidera che le varie fasi della genesi di un capolavoro e le versioni progressivamente elaborate e licenziate dall'Autore siano materia per gli studiosi e che, magari, possano star comodamente accessibili alla lettura nelle pagine di un saggio o nell'apparato di un'edizione critica. La prova del teatro è quella che conta, che spesso sorprende, e che merita di essere vissuta da tutti come un'esperienza stimolante che offra nuove chiavi di lettura e prospettive sull'opera. Dopo aver perso l'occasione di una debita celebrazione al Grande del centenario, il Massimo bresciano coglie l'opportunità del centodecimo dal primo successo e offre l'ascolto diretto e succulento della seconda versione di Madama Butterfly, quella che le permise di spiccare il volo ma che subì ulteriori rimaneggiamenti prima di giungere alla forma oggi eseguita di consueto.

Venne inserito, per esempio, “Addio, fiorito asil”, che al pari di “Parmi veder le lagrime” per il Duca di Mantova, permette al tenore di deporre il cinismo e di esibire belcanto e almeno una vaga parvenza di cuore. Permanevano, invece, diversi passi che poi saranno cassati a Torino, Parigi e Londra, come il greve sarcasmo di Pinkerton sui giapponesi e la loro cultura, alcune divagazioni e ridondanze testuali, il continuo riferimento al denaro e ai cento yen sborsati dallo statunitense a Goro per godere dei favori di un'esotica moglie adolescente (e il pensiero non può non correre allo scandalo, qualche annetto prima, dei frequenti espliciti riferimenti monetari del libretto della Traviata), un più ampio dialogo fra Cio Cio San e Kate, che assume dunque una più sensibile umanità.

Va da sé che quando un testo subisce tagli e integrazioni i personaggi e la drammaturgia, anche sottilmente, ne risentano e che un regista accorto dovrebbe tenerne conto per aggiustare di conseguenza la prospettiva dello spettacolo e la definizione dei caratteri. Giulio Ciabatti, purtroppo, sembra aver semplicemente travasato su un testo parzialmente diverso (e che l'occasione e la rarità avrebbero voluto ben altrimenti valorizzato) il suo spettacolo triestino, lasciando gli interpreti sostanzialmente a se stessi, ripetendo gesti usati senza dar valore – e talora mostrando imbarazzo – a passi che rischiano così di apparire teatralmente solo come lungaggini. Ne è un esempio il duetto del finale primo, che contiene un'ampia e repentina divagazione di Cio Cio San che rivela come avesse pensato di sposarsi “per qualche tempo” ma aborrisse in prima istanza l'idea di unirsi a un “barbaro” americano. Giova all'equilibrio musicale e drammatico, senza dubbio, la soppressione, ma queste parole possono avere una precisa valenza psicologica, tradire l'imbarazzo dell'adolescente che tergiversa e divaga, esprimere il sorgere della sua illusione da un'originaria coscienza del tipo di contratto nuziale a termine, mostrare il desiderio di essere totalmente sincera con l'amato dichiarando anche i dubbi iniziali per esprimere poi la franchezza sconcertante dell'innamoramento. Se non si evidenziano sfumature come queste Cio Cio San rischia di apparire solo una sciocchina che perde tempo interrompendo una melodia per dire la prima cosa - non proprio romantica - che le viene in mente. E lo stesso discorso si potrebbe ampliare alle filastrocche infantili, ai modi di dire che esprimono l'età e le radici della protagonista, fino all'ultimo disperato colloquio con Suzuki, nel quale le allusioni fin troppo esplicite (“Lasciamo sola | e la tua Butterfly riposerà: | sai la canzone? “Varcò le chiuse porte, | prese il posto di tutto, se n'andò, | e nulla vi lasciò, | nulla, nulla, fuor che la morte”) potrebbero sciupare un poco la tensione dell'estremo saluto fra due donne che sanno benissimo cosa avverrà, ma nella versione corrente lo tacciono eloquentemente. Se il passaggio di un figurante sul fondo durante il suicidio appare un'inutile distrazione, bisogna comunque lodare la cura del taglio della giugulare come nel rituale femminile dello jugai, scrupolosamente suggerita nel libretto in vece del taglio al ventre riservato allo harakiri maschile.

La scena è minimalista come ne abbiamo viste tante, ma meno bella di tante altre; i costumi ordinari con alcune cadute di gusto (troppo finto l'effetto delle calotte bianche con acconciature giapponesi per i servitori, il cui trucco avrebbe richiesto maggior cura; lo zio Bonzo, poi, è una caricatura in stile manga davvero risibile, anche per la gestualità fra Mazinga e i Power Ranger; ci auguriamo, infine, che il bimbo venga pietosamente liberato, nelle repliche, del berretto preso in prestito dal Pierino di Alvaro Vitali). Entrambi sono a firma di Pierpaolo Bisleri, le luci di Claudio Schmid.

 In questo contesto appare già chiaro che Cellia Costea non offra una lettura rivelatrice della sventurata geisha, scavando nelle peculiarità della versione licenziata centodieci anni fa per la magnetica Salomea Krusceniski. Non inizia nel migliore dei modi: dizione confusa, acuti non sempre a fuoco, voce velata e fraseggio poco sfumato e fantasioso. Dal secondo atto (che proprio a Brescia, per la prima volta, fu ufficialmente scandito in due parti) si rinfranca mostrando un canto sempre saldo e corposo, facile nelle discese al grave e di giusto peso drammatico, anche se l'articolazione della parola scenica e del canto di conversazione non è tale da illuminare momenti chiave, per esempio nella lunga scena con Sharpless. Giuseppe Varano, cui spetta l'onore di celebrare la nascita di “Addio fiorito asil”, avrebbe colore perfetto per Pinkerton (qui battezzato Francis Blummy), ma il peso vocale non risponde altrettanto bene alle esigenze della parte, vuoi per natura, vuoi per una tecnica che non sfrutta al meglio la proiezione, la posizione del suono e la gestione del fiato. Domenico Balzani è un franco, convincente Sharpless, Giovanna Lanza, nonostante la giovane età, un'esperta e sicurissima Suzuki. Spiace che la regia non abbia sfruttato la figura allampanata e il viso pallido e aguzzo di Saverio Pugliese (con il trucco adeguato avrebbe potuto sembrare una maschera della Morte) per delineare un Goro originale e inquietante: si rifugge la maccheitta ma non si propone un'alternativa decisa. Annalisa Sprovieri dà voce a questa più loquace Kate, Manrico Signorini allo zio Bonzo, Carlo Checchi a uno zio Yakusidé già orbato del suo brindisi milanese ma ancora ben presente come personaggio al centro di un'ampia sequenza. Antonio Barbagallo è il commissario imperiale e il principe Yamadori, Mattia Rossi l'ufficiale del registro, Maria De Micheli la madre e Loretta Carrieri la cugina. Una volta tanto la locandina ci permette anche di citare anche la piccola Matilde Ferrari nei panni del bimbo che, ricordiamo, è detto Dolore solo per definire lo stato in assenza del padre (anzi, si potrebbe supporre che la filastrocca “è Roje un bimbo biondo | la la la la la la | simile a sole dopo la tempesta, | l'azzurro occhio profondo” si riferisca proprio al suo vero nome). Il coro è quello del Circuito Lirico Lombardo preparato da Antonio Greco.

Considerata con distacco, la vicenda di Madama Butterfly potrebbe essere d'effetto fin troppo facile per il condensato di elementi strappalacrime (la più innocente devozione sacrificata al più cinico tradimento, la separazione forzata fra una madre e il figlioletto di pochi anni). Se Puccini l'ha resa un capolavoro è perché dietro alla superficie del dramma ha saputo dar forma concreta e assoluta all'attesa claustrofobica, al dolore puro, all'illusione testarda e alla disillusione feroce. La voce dell'orchestra, come la scrittura vocale, cantano molto più di quello che il libretto racconterebbe letteralmente e rendono vero ciò che rischierebbe di divenire solo uno struggente distillato melodrammatico. Che ci commuova o meno razionalmente la sorte della piccola geisha, tutto ciò che avviene dopo il prologo del primo atto è un tale modello di perfetta drammaturgia musicale da vincere ogni possibile resistenza. Perché, dunque, l'opera funzioni e sortisca il suo effetto, l'asse portante fondamentale è quello costituito dalla protagonista e dal podio e se in questo caso Cellia Costea ha cantato in modo affidabile ma senza illuminare il testo, abbiamo potuto almeno abbandonarci alla pienezza del suono compatto e pastoso di un'orchestra dei Pomeriggi Musicali di Milano in ottima forma sotto la guida salda, attenta e trascinante di Giampaolo Bisanti, ospite ormai consueto e sempre più gradito delle stagioni liriche bresciane. Vibrante il fraseggio e ben calibrato l'incedere drammatico, che valorizza l'unitarietà di questa versione, in cui anche i passi non tagliati sono percepiti come naturali e quasi necessari, non come curiosi corpi estranei. Il pubblico, sia il più accorto nel ponderare versioni e lezioni, sia il più ingenuo e vergine di sfumature filologiche, saluta con entusiasmo il ritorno dell'amatissima tenue farfalla fra le mura del Grande.

Foto Reporter Favretto