Salome nello studio di Klimt

di Francesco Lora

L’inossidabile spettacolo con regìa di Barlog e scene e costumi di Rose tiene ancora saldo il proprio posto nel cartellone dello Staatsoper: all’ultimo ciclo di recite, Altinoglu, Lindstrom, Henschel e Ablinger-Sperrhacke garantiscono al vecchio allestimento nuove sfumature interpretative.

VIENNA, 10 ottobre 2014 – L’allestimento della Salome di Richard Strauss tuttora in uso allo Staatsoper di Vienna è un pezzo di modernariato: risale al 1972, torna sul palcoscenico quasi a ogni stagione d’opera anni e ha appena compiuto la sua duecentododicesima andata in scena. Eppure non ci si stanca mai di tornare a vederlo, per ricordarsi quanto bene, una volta, si faceva il mestiere teatrale. Regìa di Boleslaw Barlog, sempre fedele alla didascalia, e scene e costumi di Jürgen Rose, omaggio smaccato a Gustav Klimt: sgargianti accostamenti cromatici spruzzati d’oro, nel colossale scoscendere di alti gradoni dipinti e nel sontuoso od onirico ricadere dei tessuti sui corpi dei cantanti. Qualche scolorimento e qualche sgualcitura, ma l’idea è inossidabile e fa tutt’uno con l’aspetto e la cultura della capitale austriaca, già sede della Secessione; calza come un guanto al testo di Oscar Wilde tinteggiato da Strauss; coincide infine con l’esuberanza, lo sfarzo e il caleidoscopio timbrico dell’Orchestra dello Staatsoper, capofila delle interpretazioni straussiane secondo la tradizione viennese.

A questo giro si è alzata la bacchetta di Alain Altinoglu, del quale non si sta a dire se sia un direttore grande o piccino, ma che ha il pregio di saper imprimere una propria tinta alle file strumentali anche in un teatro dove non v’è il tempo di svolgere prove d’orchestra e dove il primo contatto del concertatore avviene direttamente nel golfo mistico e col pubblico in sala. Ecco dunque una visione inconsueta in riva al Danubio, ossia non tanto sfolgorante, sensuale e virtuosistica quanto soffusa, notturna e alonata, di certo suggestiva e riscattata da un destino di routine.

Sulla scena tornava una Salome già nota a Vienna dopo le recite del 2012: la statunitense Lise Lindstrom ha confermato voce svettante nell’emissione, possente nel volume, chiara nel timbro e metallica nell’accento, dando luogo a un personaggio seducente nella perversione di Herodes ma in sé piuttosto risentito, altero e calcolatore. Ordinario, funzionale, corretto senza poter tuttavia trascinare è stato, al suo fianco, lo Jochanaan di Alan Held: sentir tuonare con torrente vocale e profetica esaltazione, in questa parte, è cosa difficile in ogni teatro del mondo.

Di considerevole interesse, per contro, è stata la coppia dei caratteristi. La Herodias di Jane Henschel, con quel suo corpo tondetto, con quel suo gesticolare infervorato e con quel suo porgere pettegolo, fa scoppiare a più riprese risatine sparse, a prova di un’indubbia e inedita vivacità interpretativa. E questa vivacità popolana, di per sé non congenita al personaggio, persuade in virtù dell’accostamento allo Herodes di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke, a sua volta inusuale e dunque contrastante come non lo si aspetterebbe: il tetrarca risulta qui calligrafato con nevrotica vanità, quasi egli compiaciutamente analizzasse e predicasse esteticamente sé stesso a ogni sillaba, non senza qualche reale angoscia, rivelando nel contempo il vuoto nel quale egli consiste al di là della corona indossata.

I migliori nomi del corpo stabile o semistabile dello Staatsoper si sono affollati nelle parti comprimarie: Carlos Osuna come Narraboth e Ulrike Helzel come Paggio di Herodias; Benjamin Bruns, Peter Jelosits, Benedikt Kobel, Thomas Ebenstein e Dan Paul Dumitrescu per i cinque Ebrei; David Pershall e Hans Peter Kammerer per i due Nazareni, e Alfred Šramek e Il Hong per i due Soldati; Hiro Ijichi come Uomo di Cappadocia e Roman Lauder come Schiavo. Alla fortunata produzione che ha visto passare generazioni intere di interpreti, calorosi applausi rinnovati come quarantadue anni or sono.

foto Wiener Staatsoper / Michael Pöhn